“Sentivo il suo dramma: tutte le verità ch’ella avrebbe voluto dirmi, e mi aveva taciute”. Ada Negri & Eleonora Duse
Letterature
Riccardo Peratoner e Marilena Garis
Baciato da una dedica mistica – a chi lo sa –, chi non lo sa, Diceria dell’untore (ungo la mia minima sapienza letteraria in quell’incipit, magnetico: “O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno…”, con quella congiunzione, o, che procede e produce alternative, buco oscuro e bocca aperta del romanzo, serratura onirica, gabbia delle vite contrarie) è il più folgorante ed enigmatico esordio della letteratura italiana. Il romanzo arrivò allo Strega, buon ultimo della cinquina, nell’edizione vinta dal Nome della Rosa di Eco. Vinse, comunque, il Campiello. L’autore, Gesualdo Bufalino, classe 1920, aveva sessant’anni.
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Secondo la vulgata, Bufalino – bufera mistica nel gergo letterario italico – nasce, insegna, ritocca per decenni Diceria dell’untore, è scoperto da Elvira Sellerio e da Leonardo Sciascia nel 1978, quando va in stampa il volume fotografico, introdotto da don Gesualdo, Comiso ieri. Immagini di vita signorile e rurale. La vita, dunque, è arsa nel mezzogiorno nichilista della Sicilia autentica, fatta di disincanto, fitta di notti in forma di falò. Non c’è altro, insomma, il deserto delle attese. In realtà, è proprio Diceria dell’untore a dirci, per indizi – “Era veramente divenuto un gioco, alla Rocca, volere o disvolere morire, in quell’estate del quarantasei…” – che la vita di Bufalino, la giovinezza, fu vissuta con intensità triplice, ispirata, piena di spettri. “In quell’estate del quarantasei” lo scrittore era in sanatorio, nella Conca d’oro, fra Palermo e Monreale. S’era ammalato di tisi, insegnava in provincia di Reggio Emilia, aveva scoperto Borges e Proust. È quello, in realtà, il 1946, l’anno dell’autentico esordio di Bufalino, avvenuto tramite Angelo Romanò (1920-1989), scrittore, giornalista, futuro primo direttore del secondo canale Rai, alto dirigente in Garzanti, Senatore della Repubblica. Romanò pubblicò alcune poesie di Bufalino, di icastica fermezza (“La vipera illesa si torce/ sul solco della folgore, che tempi/ di laboriosi prodigi:/ più tardi un gesto abolirà le rupi”) su “L’Uomo”. “Sono in un sanatorio della Conca d’oro… alle spalle ho i monti, dinanzi il golfo, bellissimo. Tutto è molto grande e pulito e silenzioso. Una felicità di chiostro mi attende… Qui dove ti scrivo, già da molti giorni il tempo è d’Estate, entro un cielo d’oro e di veloci bufere; non resiste un rimorso a questo sole calmo del golfo, sulle verande chiare anche i malati, se, per parlarsi adagio, accostano le sedie a ruote, è come inventassero i modi di una liturgia innocente, sono teneri e gai, somigliano a chi recita la prima volta”, scrive Bufalino a Romanò, nel giugno di quel decisivo ’46.
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Rewind. Nel 1942 Bufalino passa dalla facoltà di lettere dell’Università di Catania al fronte. Nello zaino “porta con sé un grosso quaderno di poesie, una retroversione di Baudelaire… un Montale, fresca scoperta, e un piccolo Dante”. Prima è a Benevento, poi a Fano, per un corso di Allievi Ufficiali. Lì conosce Romanò, si riconoscono, nasce un’amicizia di quelle che solo la guerra sa sigillare. “Caro Romanò, ho ritrovato in non so più che tasca avventurosa il tuo indirizzo insieme a pochi altri ricordi di Fano. Ora che gli ultimi avvenimenti hanno disperso i miei vecchi amici, ed io stesso sono divenuto incongruo e provvisorio, entro paesaggi e minuti imprevedibili, il ricordo di te rimane uno dei pochi elementi che possono richiamare un passato recentissimo e amato, ma più plausibile e fissato”. Bufalino scrive la prima lettera il 12 novembre del 1943 da Sacile, Udine. Catturato dai tedeschi dopo l’armistizio, riesce a fuggire, scappa nella campagna friulana, “ospitato nella fattoria del patriarca Silvio Zaghet”. Non si allea ai partigiani per “manifesta inettitudine militare”. Incongruo e provvisorio paiono aggettivi adatti a un uomo, a uno scrittore. Sfuggono, provvidenziali.
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Nel 1994 Il Girasole Edizioni pubblica come Carteggio di gioventù l’epistolario tra Bufalino e Romanò. È un libro meraviglioso e ora scomparso, che ho ricevuto per grazia, in fotocopie. Si capisce che Bufalino è poeta ovunque, scrittore dappertutto, da subito, ventenne, l’esordio tardivo è una mera funzione del caso, l’armeria del destino. “Qualche motivo d’imbarazzo, qualche onesto rossore, rileggendo queste antiche carte, così cariche, specie all’inizio, di scorie letterarie ed esistenziali. E tuttavia anche il convincimento che non sia del tutto inutile farle conoscere, a testimonianza d’una condizione morale che forse non era da pochi, a quel tempo, fra i ventenni sorpresi dalla guerra con Montale e Rimbaud sotto il cuscino. Vissuti più o meno da estranei nell’aria fascista, ma sprovvisti di bussole certe per orientarsi fra i terrori del presente e le incognite del futuro, non stupisce che taluni di loro si rifugiassero nel privato, alludendo alla storia solo per cifre ed enigmi (anche per la preoccupazione di nascondere alla censura postale il proprio stato di renitenti)”: così presenta quel libro, raro e riesumato, Bufalino. L’ultima lettera nel volume è del 22 giugno 1981, “Ti ringrazio per il tuo voto allo Strega e delle parole affettuose”, scrive Bufalino. Lo Strega lo vincerà nel 1988, con Le menzogne della notte. Romanò muore l’anno dopo – s’erano confessati la giovinezza, nel bronzo, cosa vuoi che sia una letteratura? (d.b.)
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Un’antologia di frasi tratte dall’epistolario Bufalino/Romanò dimostra il genio privato dello scrittore siciliano.
“Poi l’ombra squilla e deride. Fu una storia di paesaggi e di stagioni, inoltre. I miei Autunni, delirare immobile del vespro sul povero oro degli orti, il cielo che si sgretola nel vento; le mie Estati, vipere in un grappolo di luce, lapidazione del sole. Infine, le bateau ivre agonizzato nel rigagnolo”
“È un male che non ha favole o prismi, non limbi, un male di carne”
“Ora so solo tenermi il cuore e piangere. Non leggo, non scrivo. Alla sera mi declamo a una donna dagli occhi grandi… Aspetta: urlerò il mio nome contro tutti gli specchi, per provocarli. Occorre che sia così fatto”
“Il tempo è crudele e la vita è strana: ricordo male il tuo volto. D’altra parte ho dimenticato quello di mia madre”
“Ma m’inventerò una poetica del limite, con parole come gesti quieti di gavotta, e indolenza, soprattutto”
“Gioverà una mitologia di calme allucinazioni; è all’altro lato della vita: donne, musiche, albe; paziente stupefazione, cautela di diluvi, il dolore è vetro e geometria, la luce alza sarcofagi. Oppure costantemente morire”
“Ma forse non sapremo partire: ci denunzia questo docile rincorrere echi distanti da stanza a stanza. Morremmo infine in un angolo, col viso contro il muro”
“Ho voglia di vivere, voglia irragionevole e dolce come d’un bambino che vuole una cosa”
“Il suicidio stesso non è che un modo di scegliere. (Ma, perché sia salvo l’onore di Dio, amo credere che l’anima dei suicidi non sia immortale). Comunque, fra il Deuteronomio e gli Evangeli v’è certo un abisso. Io penso che il Cristianesimo sia il più eroico e triste tentativo di monismo, ma, dopotutto, fallito. La creazione non può essere giustificata se non attribuendola a un Arimane. Un Perfetto creatore, io non riesco a concepirlo, se creare è modificarsi, come deve pur essere. In tutti i casi la creazione non è che un errore, vergognosamente superfluo”
“Infine, se resisto a morire, è per amore di chi mi ama, mi pare. Se non è poi inconfessata viltà o un ribrezzo. Del resto un istante basta a ridarmi un sapore dimenticato, e una brama, e la speranza”
“Ho paura degli anni di sole e di polvere che dovrà ancora durare il mio viaggio, riconosco la mia genuina vocazione a non esistere e sento penosamente di non potere che tradirla. Infine so che domani sarà peggio di così, verrò a patti con la vita, forse truccherò anch’io i miei dadi. Del resto chissà che non si ottenga, barando, la salvezza”
“So che in fondo a me c’è qualcosa che si lamenta, e che un giorno uscirà fuori, con un libro o una pazzia”