Partiamo da una banalità. In molti saranno maciullati dal mostro dell’oblio. Lui no. Stephen King. Con una certa certezza, c’è da scommettere che King resisterà più di David Foster Wallace o di Philip Roth. Non è una questione ‘agonistica’: è che, da Carrie a Shining, da Cujo a It, da Misery a The Dome, beh, Stephen King, il Charles Dickens dell’horror, ha, come dire, ‘forgiato l’immaginario’ degli ultimi 40 anni di storia americana – quindi: occidentale – trapiantato sullo schermo da tipi come Stanley Kubrick, John Carpenter, David Cronenberg, Lawrence Kasdan. Anche in questi tempi di ‘ricapitolazione’ – che significa: l’Occidente sta capitolando – King, regale, resiste. Ora. Intorno a King, come iene con faccia da mosca, volteggiano migliaia di fan. I quali, cercano compulsivamente il testo inedito, spurio, incompiuto, dimenticato. Di questo campionario di testi – che fanno mucchio a sé nella disparata bibliografia di King – ce ne sono alcuni davvero gustosi. Nessuno, fino ad oggi, s’è messo a scandagliare con demonica coerenza l’opera poetica di Stephen King. L’ha fatto Bev Vincent, esegeta di King – nel 2009 ha pubblicato The Stephen King Illustrated Companion – che su Poetry Foundation ha pubblicato un saggio, The Dead Zone, accompagnato da domanda succosa: “Stephen King è uno degli scrittori più popolari al mondo. Perché la sua poesia non è presa in giusta considerazione?”. Il testo è interessante perché non si limita a scandire il corpus poetico di King, invero limitato – “poco più di una dozzina di poesie in cinquant’anni, spesso su piccoli periodici letterari”, ma… “ne esistono almeno un centinaio su quaderni e carte private” – ma, a partire da una intervista rilascia nel 2011 sull’Atlantic (“i poeti… parlano la lingua di Dio – un linguaggio più denso, più fine, più alto di quello che la gente parla nella sua vita ordinaria”), ricostruisce i rapporti, fittissimi, tra King e la poesia. Esempi sparsi. King ammira la poesia di Philip Larkin e quella di William B. Yeats – The Second Coming gli ha suggerito più di un racconto orrorifico – cita Dylan Thomas e Hart Crane, Keats, Shelley, Seferis, e quando deve parlare della sua passione per l’horror – alla rivista Twilight Zone – si riferisce a Wystan H. Auden: “sono come il ragazzo nel poema di Auden, che corre e corre e finisce in un motel economico; corre lungo un corridoio, apre la porta, e incontra se stesso, seduto, sotto una luce scarna, che sta scrivendo”. Raffinatissimo lettore di poesia – nel 2009 denuncia i suoi debiti verso il poeta vittoriano Robert Browning – in un testo del 2016, in cui ragiona sulla sua mente ‘lirica’, King fa i nomi di Walt Whitman, Gerard Manley Hopkins e Ray Bradbury, mescolati all’Lsd e ai Doors. In quel contesto, King parla di una delle sue poesie ‘universitarie’, The Dark Man, pubblicata nel 1969, a 22 anni, più volte riedita, “scritta sul retro di una tovaglietta del campus, mentre lo scrittore stava scontando i postumi di una clamorosa sbornia”. L’amore di King per la poesia parte da un dato biografico. “Alla fine degli anni Sessanta, studente universitario alla University of Maine, King si iscrive al corso di letteratura americana e inglese tenuto da Carroll Terrelll, un eminente studioso di Ezra Pound. Frequentò anche a un seminario dedicato alla poesia contemporanea e aperto a soli dodici studenti”. Per quel seminario, King buttò giù una cinquantina di poesie. Come mai King non ha continuato lungo l’aurea rotta della poesia? Semplice. S’era rotto le scatole dei “poeti in potenza che vivono in un mondo artefatto, tinto di Tolkien, afferrando le poesie nell’etere”, come scrive, a posteriori, nel 2000, nel libro autobiografico On Writing. King pensava che la poesia avesse a che fare, allo stesso modo, con “momenti mitici di rivelazione, come con lo spazzare il pavimento”: gli scrittori “come benedetti stenografi del detto divino” non lo convincevano. Ad ogni modo, saltuariamente, King pubblica poesia: i versi a volte sono un prolungamento dei suoi libri, sono gemme oscure di cui i fan vanno a caccia. “Negli anni Settanta, King pubblica tre poesie su Contraband, una rivista co-fondata con l’ex compagno di classe Bruce Holsapple. Due di queste non sono mai più state ristampate e sono tra le opere più rare di King. La prima conta 28 versi, è senza titolo (attribuita a tale ‘Stephan’ King), scritta dalla prospettiva di un uomo che guida una macchina (‘questa enorme scatola aliena’) mentre una donna dorme nel sedile di fianco… L’altra, Woman with Child, conta 17 versi, ha per tema una donna incinta che emerge dalla vasca da bagno e guarda il suo corpo allo specchio, ricoperto di vapore”. Al di là della geologia bibliografica di King, resta da capire che valore abbiamo queste poesie. Pubblicate su rivista, tutte insieme, nel 2004, furono giudicate buone: “così buone da spingere i lettori a sperare che King visiti con più frequenza la sua musa”. Bev Vincent riassume la questione così: “Tra 50 o 100 anni, i libri di King saranno ancora letti e amati. Ma… le sue poesie? Impossibile predire il loro destino, ma questo piccolo sottoinsieme della bibliografia di King merita una attenzione più importante. Le sue poesie, magari non sempre ‘bellissime gemme’ che ‘parlano nel linguaggio di Dio’, sono la testimonianza vivida di un maestro che scopre la sua inimitabile voce”. Ecco un florilegio delle poesie di King. A voi l’arduo giudizio.
*
ho guidato le rotaie
passai la desolazione
di case disperate con camini disfatti
e ho ascoltato là fuori
ho ascoltato il tintinnio del ghiaccio in un bicchiere
mentre le porte chiuse spaccavano il mondo –
*
dalle sue oscure profondità la creatura si gira silenziosa,
come se andasse verso la superficie
o verso il sole
*
c’è un piccolo buco sul suo berretto e lì inserisco una candela
irradia una luce per Charlie Starkweather e lascia
che la tua piccola luce splenda splenda splenda
*
Ho visto strane luci nel cielo.
La scorsa notte un uomo nero senza volto ha strisciato per nove miglia
di fogna ed è emerso nel mio cesso, ascoltando
le telefonate dalla parete sottile con
orecchie cromate.
Te lo dico, amico, l’ho sentito.
*
(Melissa Big Girl Freek ha fatto quella maglietta.
Non so cosa le sia successo.
Era lì un giorno, poi ha preso quell’autostrada perduta.
La associo alla neve che si scioglie.
La Main Street di Orono brillava bagnata e luminosa
da ferirti gli occhi.
Era l’inverno in cui i Lemon Pipers cantavano Green Tambourine)
*
Gesù guarda dal muro
la sua faccia è fredda come pietra
se lui mi ama
come mi dice lei
perché mi sento così solo?
*
I tuoi capelli sono fuoco d’inverno
braci in gennaio
e c’è anche il mio cuore che arde lì
*
Ombre si stampano sulla strada
come baci di rossetto nero.
Cade la neve sui campi della fattoria
brilla come abiti da sposa a marcire.
La nebbia si alza mutandosi in polvere d’oro.
Le nuvole si strappano e un disco fantasma
sembra rincorrerle.
Ora scoppia!
Per cinque secondi pare estate
e io ho diciassette anni e fiori
nel grembo del mio vestito.