“Ho vissuto una vita che non può essere vissuta”. Vicente Huidobro, un poeta in guerra
Poesia
a cura di Alessandro Bernardini
Alcune parole invitano al viaggio, stordiscono i luoghi comuni, impegnano allo stralunato. La nota che Lavinia Mazzucchetti, insigne germanista che si è occupata soprattutto di Thomas Mann, Goethe e Stefan Zweig, gli dedica è di questo genere; Peter Hille è definito
“Singolare tipo di poeta e di vagabondo che per la dolorosa irregolarità della sua vita si meritò l’epiteto di ‘Verlaine tedesco’… Fu artisticamente un originale e un isolato”.
Alcune parole – vagabondo; originale; isolato; irregolare – paiono, oggi, reliquie nel miele. La vita di Hille, votata all’incompiuto e a una “irregolarità” ben più cupa di quella di Verlaine, conobbe le stimmate. Nato in Vestfalia nel settembre del 1854, studiò a Lipsia senza completare gli studi universitari, lavorò in una tipografia; i suoi fratelli furono inghiottiti dalla Chiesa cattolica, Peter Hille preferì l’impegno politico, tra le fila di un quotidiano socialista di Brema, presto in fallimento. A Londra, frequentò i circoli anarchici; in Olanda – siamo negli anni Ottanta dell’Ottocento – si unisce a un gruppo di attori itineranti, che finanzia con le scarse sostanze che il padre gli ha dato in eredità.
Peter Hille preferisce l’azzardo all’azione, il crudo gusto della latitanza all’affermazione pubblica. Per un po’, vive letteralmente come un vagabondo: qualcuno lo vede nelle campagne, si vanta di conoscere il linguaggio delle fiere. La figura di Francesco d’Assisi e quella di Robin Hood, l’impeto messianico e quello sociale, si fondono in modo originale, marziale, nell’opera difforme di Peter Hille. Perennemente povero, braccato dalla polizia come presunto agitatore, visse a spese di conoscenti e di amici improvvisati: prima a Zurigo, poi ad Hamm, in Renania, infine a Berlino. Aveva sempre la valigia pronta, cambiava spesso abitazione, abitando, di fatto, l’insussistenza.
Nel consesso berlinese, Peter Hille, il poeta vagabondo, il poeta degli uomini e delle selve, divenne un ‘caso’: insieme a Erich Mühsam, artista, anarco-comunista, che troveremo a Monte Verità, apre un club-cabaret dove si esibisce la sua unica amica, Else Lasker-Schüler. La grande poetessa fa di Peter Hille il maestro e il mentore, lo chiama “St. Peter Hille”, lo disegna secondo i canoni del poeta-re, di un frugale salvator mundi: a lui dedica, nel 1906, un libro in prosa, Das Peter-Hille-Buch. Peter era morto due anni prima, nella stazione di Zehlendorf, a causa di una polmonite ormai cronica. Else lo vedeva come l’autentico papa della poesia:
“Più volte mi sono deliziata a dire del nostro caro poeta San Peter Hille. Tutti i profeti sono grandi poeti, e Peter Hille fu tra questi… Peter Hille avrebbe potuto essere un papa – per tutto il mondo. Avrebbe illuminato le persone. Una politica cosmica, retta su vertiginosa giustizia. Peter Hille era intelligente! La sua intelligenza mi rendeva invidiosa. I cittadini giustificavano la sua povertà estrema (perché essere intelligenti non significa necessariamente essere pratici) chiamandolo bambino… Non ho mai dubitato della profezia di Peter Hille”.
Peter Hille ha scritto tanto, in modo disordinato. Tutti concordano che “si palesò maestro impareggiabile soprattutto nella composizione breve e aforistica” (così la Treccani), ma in Italia è ancora intradotto. Raccogliendo i testi dispersi e gli aforismi, Fritz Droop ha descritto così la verve di Hille:
“Non si è lasciato imbrigliare da una vita mondana: ha preferito chiudere lo zaino e perseguire la sua via. Il mondo era così vasto, così bello: avrebbe trovato un po’ di amore. Il possesso illimitato della natura, il contatto intimo con il cielo e la terra, lo rendevano la persona più felice, a patto che fosse sempre con sé la borsa piena di libri e di manoscritti”.
Spesso non lasciava tracce di sé e gli amici lo credevano perduto. Il bosco lo rigenerava. Più volte nei suoi scritti, immaginifici e concreti, Hille va all’infanzia “trascorsa in campagna, con lunghe passeggiate nei boschi… Restavo lì a lungo per vivere dentro di me, per scoprirmi. Poi vennero le scuole, quegli istituti di tortura che umiliano il poeta”. Sembra, per certi versi, l’ingenuo profeta di Hermann Hesse; piaceva a Ernst Jünger perché era “un poeta poco familiare”, un “muscoso sognatore” che “cercò nel bosco conforto e libertà”.
Nei testi, finora inediti in Italia, che qui abbiamo tradotto – per la cura di Tommaso Filippucci – la fiaba assume i toni di una nera morale; la capacità ‘sintetica’ di Hille è allo stesso tempo lirica e spregiudicata, reca i toni del Beato Angelico e quelli dell’espressionismo tedesco – Peter Hille anticipa, nel verbo, le pennellate di Franz Marc e di Oskar Kokoschka.
In un quadro di Lovis Corinth – è il 1902 – Peter Hille ha la consueta barba lunga e i capelli all’aria; il cappotto e l’abito neri gli conferiscono l’aria di un capo religioso, afferente a chissà quale fede; ha gli occhi spiritati e maneggia alcuni fogli. Forse è nella sala d’attesa di una stazione, sembra sempre uno in partenza, sempre il figlio dell’ultimo giorno, dell’ultimo treno.
***
Un brutto sogno. Karma
Destino è compiuto, basalto. Tempesta primordiale coagulata. Terra estranea. Binario pubescente rossastro, deciso, tremolante e lontano di un sentiero boschivo. Dove porta? Terra di fanciulli, così si dice. Patria. Di più della normale patria. La patria delle visite, il villaggio di mio padre. Qualcosa mi segue. Forse un bue. Silenzioso. I miei avi avvertono corna oltre la curva.
Un carrettiere. Largo, assiduamente familiare, un’approssimazione, un compatriota conosciuto.
Che riassicura.
E mi guardo intorno, intimorito. E questa lunga belva dietro di me, con un primo profondo sguardo mi persuade: non è un bue. Una mucca.
E le mucche riposano. Mucche molto lunghe. Promontori dormienti, ai miei occhi, sempre poetici.
E poi sono in qualche luogo a casa. Allo stesso tempo, in armonia. Se lo spirito è solo a casa, è plasmatore del mondo.
Sì, il plasmatore del mondo.
Questa stanza, luminosamente inclinata. E così insolita. La mia camera. Il mio io. Ma così estranea. Inconsuetamente incrostata e incastrata. Infrangibile.
Una scura, profonda incapsulatura, una prigionia dell’anima, coagulazione di una lenta, selvaggia e stranamente smarrita anima persa.
E nessuna porta. Una chiusura celata, lentamente acquisita. Conoscenza, angustia; come vetro luminoso. Subito, emerge una scala marrone, chiara e regolarmente articolata. Sotto. Travi della finestra, fresche, strette, definite.
Bambini. Due, suppongo. I suoi. La casalinga impegnata a vestirsi.
Intorno a me un cuginetto, saggia beffa, un giudice diversamente incline dalla lingua tagliente. Così possono vedere, abbastanza vicini e distanti. Egli mi spiega nella coercizione, dove lui è libero a casa, dove io devo abituarmi.
E le mie scarpe. imponenti. Ocra. Pelle polverosa. Sembra pagana.
Ora guardo la suola. Manca del tutto.
E miei scritti importanti ovunque. I bambini ci hanno giocato. Dilaniati. Cosa ne può essere rimasto.
Spinge stanco, muovendosi verso di me da ogni lato. Sono maledetto. Spingo e mi sollevo, premo una preghiera al soffitto, e mi ritrovo sempre nella realtà non ancora coagulata, quella realtà, in qualche modo, ancora plasmabile.
*
Intorno
Vi è un giorno in cui ci si chiede: “che mistero costudiscono gli alberi?”
È tutto molto tranquillo. Estiva giace la campagna, fitte ancora le cime degli alberi. Deve esserci un fantasma che cammina tra la natura. Gli alberi si flettono da ogni lato. Un mugolio, quasi un urlo d’umana paura.
Ora si muovono anche in una monotona danza, come gli ebrei nella sinagoga. L’autunno ancora è lontano. Un giorno come un altro: si tesse nella corpulenza di pendii lenti, di vita perduta nell’abitudine.
A lungo tutto può restare immutato. Giorno dopo giorno, cammina tranquillo nelle campagne come un proprietario sul proprio podere.
Ma la natura non è più felice. Ella soffre, soffre da quel giorno. Ancora nulla la consola. Tutte le foglie sono ancora verdi. È silenziosa.
Ero in visita a un amico. Era fuori dai suoi impianti di calce. Potevo immaginarmi il suo camminarmi intorno: dalla rossa e sudata fronte, spingeva indietro il berretto grigio per sistemarsi i capelli, come si fa di solito, oltre la tempia sinistra.
Poi rifletté a lungo, si guardò intorno, parlò un po’. Passi rigidi e sciocchi scagliavano spesso piccole pietre fuori dalla strada.
Gas dall’odore di porro, fumo grigio-trasparente fuoriusciva dalle masse di calce incandescente come bottiglie maculate, quasi appiattite, quelle che tanto piacciono ai cacciatori.
Come forzuti servi, mani sulle cinghie, carri merci marroni sul binario, pronti per essere caricati. Così mi accolse sua moglie. Inconsueto, solenne ed estraneo riposava il villaggio. Poiché qui vi era la tenuta, e da lì un villaggio si separava da esso come un altro stato. Lo stato di un’altra vita. Alcuni piccioni si allontanarono dal villaggio e si appollaiarono splendidi sui tetti dolcemente arcuati del fienile. Qui si sentivano a casa, nel loro elemento.
Le tazze da caffè ancora pacificamente immobili. Intorno, i bambini con cui avevo fatto rapidamente amicizia; uno afferrò la mia mano destra, l’altro la sinistra e un terzo si sedette sullo sgabello di fronte a me. Maria, chiamava. Io, però, lungi da un Cristo.
Un giorno così vuoto, blu, solido e quasi costruito, un po’ come l’autunno estivo.
Sembra colpire così leggermente; i temporali fanno lo stesso, lo colpiscono.
Tutto pare così vicino, così grossolano, ma anche così prossimo alla rottura.
Tra le verdi forme del giardino scorreva la nera struttura di un ponte ferroviario. Dietro, un sottile faggeto si arrampicava frettolosamente. Parlammo sereni, lenti, contemplativi della vita.
Poi, senza motivo, d’improvviso il suo viso fu sconvolto dalle lacrime. Da dove provenissero, nessuno sapeva. Poi anche quello passò. Non un singhiozzo. Ne era sconvolta lei stessa. Profondamente toccata da una ragione profonda, la ragione della fugacità, della sofferenza del mondo.
Sconvolti alzarono gli occhi i bambini. Ma non chiesi. La morte guarda in faccia il viaggiatore. Il marito non aveva sentito nulla. Anch’io, finora, nessun cenno percepito.
**
Zeri e Cifre
C’era una volta uno stato. Era composto da soli Zeri. Tanti sani, tondi e grassi Zeri. Non vi era nulla di sbagliato in loro, eppure, gli mancava qualcosa.
Una sensazione sorda diceva loro questo. Ma non potevano rendere conto della loro condizione. Avevano consegnato premi su premi e promesso montagne d’oro a chiunque avesse fornito loro consigli e chiarimenti.
Invano!
Poi convocarono un’assemblea popolare.
Possibile che l’insieme trovasse ciò che al singolo fu negato.
A lungo rimase vuota l’impalcatura. Infine, uno zero saltellò come una bolla di sapone sui gradini del pulpito.
Hop, hop, hop, eccolo!
Solo gambe zoppe sanno essere così agili.
E cominciò con una voce percettibile in lontananza. Perché ciò che dice uno Zero, si sente.
E l’intero mercato si mise in moto contro di loro, così che molti degli stimati Zeri finirono nella calca, in essa morirono e miseramente, miseramente scoppiarono.
Lo Zero, tuttavia, non si lasciò contestare oltre e ripeté:
“Zero paura!
Io sono un laico, un comune e stupido laico.”
Mormorio di assenso.
“Ma sono i laici che spesso hanno le idee migliori. Io so cosa ci manca.”
Qui, per rendere il ronzio dell’attesa ancor più divertente, l’oratore fece una pausa ad effetto più lunga.
E continuò:
“Siamo a sessanta milioni. Ma anche moltiplicandoci all’infinito, non diventeremo mai un numero per l’eternità. Ci manca una Cifra. Un Re.”
Mentre stava ancora parlando, arrivò una Cifra forestiera, piuttosto scarna e malandata. Il cliente, poiché di cliente si trattava, appoggiò il suo randello sotto la berlinese e guardò il popolino.
Appeno lo scorsero, lo assalirono e lo supplicarono:” La prego, la prego, sia così bonario e diventi il nostro Re!”
Il cliente tirò fuori dalla tasca destra dei suoi pantaloni una fiala con un liquido giallo torbido, ne bevve un vigoroso sorso, martellò il tappo con il palmo e la mise via.
Poi si pulì la bocca e disse: “Beh, allora non sarò così bonario!”
Si tolse il feltro piuttosto logoro dalla testa e si aggirò tra la folla:
“Un povero e giovane garzone, senza cibo in corpo da tre giorni, chiede un piccolo aiuto.”
Questa fu la prima tassa del paese.
Gli altri stati nei dintorni vennero a conoscenza di questa pratica e incoronarono altrettanto una Cifra.
Ma vi erano anche stati in cui Zeri e Cifre avevano finora vissuto socievolmente fianco a fianco. Queste Cifre non mostrarono alcun desiderio di prendere il comando, tantomeno di essere sottomesse.
“Non abbiamo bisogno di una Cifra, bastiamo noi stessi.”
Ma poi si disse:
“Se questo non Vi sta bene, scrollateVi la polvere di dosso e andateVene, perché noi vogliamo significare qualcosa nel mondo, e possiamo farlo solamente se abbiamo una Cifra al comando, per quanto misera essa possa essere.”
E fu così che gli Zeri ignorarono l’esistenza di Cifre repubblicane, di presidenti, e si gonfiarono ancora di più nella loro nullità.
**
Seppellito
In tempi grigi, quando la Germania era ancora unita e attingeva il proprio timor divino in un giorno della settimana da chiese diverse, si narra che sulle romantiche rive dello Schlachtensee si ergesse un fiero edificio che rifletteva le cupe teste piangenti di abeti rossi e i giocosi riccioli di esili betulle.
Una sorta di Babele moderna. Vi si parlavano lingue in abbondanza.
Ma la pappa d’avena non capì il prosciutto. E il tutto fu rovinato poiché, in quel periodo tragicamente esaltante, mancò l’eroe liberatore, l’eroe che per primo scoprì come mischiare il tè con il rum.
Al comando di questo misterioso clero vi erano due uomini. Duri a parole ma deboli nei fatti.
Uno, nella sua prima giovinezza, era un mosto effervescente, ma quando il torchio della collera lo pigiò, divenne un ardente e incandescente vino profetico.
Il secondo, invece, era un sacerdote, il cui rugiadare dell’anima si congelò in aghi di ghiaccio per la freddezza del suo spirito. Ma il popolo si lamentò ed essi costruirono il tempio del genere umano. E fu così che i figli del mondo vennero con curiosità e brama offrendo i loro doni.
E il cuore nobile della terra trionfò rumoroso.
Poi, però, giunse il destino.
Il resoconto è conflittuale come la natura umana.
Si dice che la casa, come i suoi abitanti, si sia dispersa e che il suo luogo non sia mai più stato ritrovato.
In un archivio della sterile isola del Caucaso, abitata da sole cave, un erudito viaggiatore sostiene di aver ritrovato un documento intitolato: “Gazz-eEt-ttino-loca-ale”.
Conteneva un articolo giubilare, che in quei tempi incolti, verosimilmente, indicava un qualcosa che oggi è tutto e domani è nulla.
Mille anni fa, infatti, visse un poeta ormai scomparso e caduto nel meritato oblio: Peter Hille.
Si narra che costui, preso da una singola vicenda, sia sceso dalla soffitta da lui occupata per la grazia dei suoi amici, fino alle profondità della sua alta dimora, inosservato nei preparativi per la festa, tra gli spiriti di pregiati vini in attesa del grande giorno.
Nella sua beatitudine e nell’angoscia dei piaceri del domani, dimenticò completamente di controllare la sua ira e un’imponente onda rossa e oro si innalzò, sollevò il poeta dolcemente assopito tra i due barili madre, attorno ai quali avvolgeva, anche nel sonno, amorevolmente le sue braccia, e lo portò fino a regioni più elevate. E tale onda sollevò impetuosa anche le vesti dell’Hartburg e seppellì tutti gli ospiti in un’enorme trappola.
Peter Hille
*La scelta e la traduzione dei testi sono di Tommaso Filippucci