25 Novembre 2020

Dante vs. Shakespare: l’ultimo libro di Harold Bloom

Harold Bloom è morto nel 2019, era il 14 ottobre. Stava morendo da anni, invero: roso dall’invidia dei colleghi accademici, tormentato nel fisico, continuava a far arrabbiare tutti. Le femministe, i paladini dei ‘gender studies’, i detrattori del ‘canone’, ad esempio. Si ancorava al testo, Bloom, in un’era in cui, letteralmente, di un testo importa tutto il resto (la necessità ‘sociale’, la distinzione morale, la convenienza politica). Morì ripetendo ciò che aveva scritto, con brillante monotonia, lungo la cresta di un Everest bibliografico: “Senza leggere Dante, Shakespeare, Montaigne, Cervantes e i loro rari colleghi, non possiamo imparare a pensare. E se non riusciamo a pensare, beh, il futuro è del Trionfo del Mondo, cioè a dire delle bestie apocalittiche”. Pensava che la letteratura fosse una teologia, pardon, una kabbalah (si legga Il Genio, in cui sistema per Sephiroth il canone letterario, e poi si legga La Kabbala e la tradizione critica), di cui Shakespeare era il centro, il crisma, l’unico dio. A me divertiva molto leggerlo, e mi mandava in estro il continuo, conturbante matrimonio tra esegesi biblica e gesto letterario (si legga: Rovinare le sacre verità e Visioni profetiche. Angeli, sogni e resurrezione). Neoromantico, è grande, Bloom, quando scrive di Wallace Stevens e di Lev Tolstoj, meno quando discetta di Freud; per paradosso, tare mie, è straordinario quando interpreta Kafka e Beckett, un po’ legnoso quando ci spiega Shakespeare ballando il tango sulla cattedra.

Insomma, a un anno dalla morte la Yale University Press pubblica l’ultimo libro di Bloom, Take Arms Against a Sea of Troubles, che, in sostanza, è una riflessione, per lezioni, intorno al “Potere della Lettura sull’Universo della Morte”. “La grande letteratura è una menzogna salvifica contro il tempo, la perdita dell’individualità, la morte in vita”, dice Bloom, chiosando se stesso. Gli autori capitali sono sempre quelli – d’altronde, Bloom è la sentinella del “Canone occidentale”, rimarca l’ovvio che ormai è il raro: cioè che i grandi libri sono grandi libri e i modesti rimestano nel torbido, vanno cestinati –, John Milton e William Blake, Wordsworth e Keats, Whitman, Robert Frost, William B. Yeats. Una lezione è dedicata a Hart Crane: The Unknown God; qui sotto traduco un brano da Dante/Center and Shakespeare/Circumference. Naturalmente, c’è chi non sopporta l’ingerenza critica di Bloom pure da morto: Philip Hensher, romanziere mai considerato da Bloom, dal trono dello “Spectator” si vendica sul cadavere, pigliandolo a calci, “Infine, Harold Bloom si tradisce: di letteratura ne ha sempre capito poco”. “La verità è che Bloom è sempre stato intrigato da ciò che la letteratura era per lui, più che interessarsi della letteratura per quella che è”, scrive Hensher. Ciò presuppone che Hensher sappia ciò che è la letteratura. Sbarbato ingenuo: ogni esercizio critico è soggettivo, personale, autentico per indipendenza e inadempienza dalle norme accademiche. Non esiste il lettore azzerato: ogni parola è un sortilegio che genera fraintendimenti, ogni libro un incantesimo a contrario. Harold Bloom – categoria umana rara – sapeva entusiasmare: leggendolo, mi ha reso famelico di libri e di autori (Juan Rulfo, Alejo Carpentier, Willa Cather, Carson McCullers, George Eliot, Hart Crane, tra i tanti), che ho divorato con un desiderio rapace. Non parlava della propria immagine riflessa nei libri scritti da altri: era un tramite, un autentico profeta, una sentinella. Morto Bloom, ora, è l’impero delle iene. (d.b.)

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Dante, l’uomo come il poeta, è ossessivo. Ciò è vero nel particolare senso latino della parola: è in assedio, o assediato. I protagonisti di Shakespeare sono a tratti ossessi o sotto assedio. Eppure, possono cambiare. Leonte emerge dalla follia. Prospero riconosce in Calibano un’oscurità non dissimile dalla sua. Falstaff more, cogliendo fiori e gorgheggiando il Salmo ventitré.

Dante o Shakespeare? Non abbiamo bisogno di scegliere. Chi dobbiamo scegliere? Loro ci scelgono e ci superano. Quando penso all’uomo Dante penso al suo orgoglio. In origine, vuol dire coraggio. A ventiquattro anni Dante combatte come cavaliere nella battaglia di Campaldino (11 giugno 1289). Dimostrò ancora più coraggio entrando nell’abisso di se stesso, per concepire la Commedia. Sappiamo molto di più su Dante che su Shakespeare. Chi, meditando su Shakespeare, penserebbe per prima cosa al suo orgoglio? Ben Jonson proclamò il proprio orgoglio pur sul ciglio di autentici fallimenti come Catiline His Conspiracy (1611) e Sejanus His Fall (1603). Non sappiamo come Shakespeare considerasse la propria opera. Puoi comporre Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth, Antonio e Cleopatra senza gioire del loro genio? Forse è meglio non sapere nulla.

Va aggiunta una precisazione. Dante cambia chi lo studia. Shakespeare cambia tutti noi. Shakespeare, devoto a Ovidio, è il cambiamento; nella Commedia è solo Dante a cambiare. Una finzione immobile non crea un piacere duraturo. Dante sceglie di comporre un’autobiografia del sé interiore. Il modello, in questo caso, sono le Confessioni di Agostino. Il cui padre letterario è Virgilio. Può sembrare strano, nel 2019: chi legge ancora Virgilio? La pregnanza delle immagini, la potenza della voce di Didone, di Turno, di Enea, sono il sottofondo di quell’epica secondaria, travagliata e altamente consapevole. Tutto è sofferenza. Dante non sembra essersi chiesto perché un’epopea imperiale esaltasse i perdenti e i perduti – Didone, Turno, Camilla – allo stesso modo di Enea, l’eroe. La leggenda racconta che Virgilio, in punto di morte, abbia chiesto di distruggere l’Eneide, perché la considerava un’opera incompiuta. Forse, aveva perso la fede nell’imperatore Augusto.

Alcuni aspetti della Commedia significano ormai poco per molti di noi: la promessa messianica di Enrico VII di Lussemburgo; la depravazione della Chiesa sotto papa Bonifacio VIII; la crudeltà delle fazioni che dominavano Firenze. Anche le ferventi dichiarazioni patriottiche di Shakespeare ci appaiono vuote; ma puoi scrollartele di dosso, mentre leggi. Con Dante non è lecito fare lo stesso. I profeti ci mettono a disagio se sono eccellenti. Dante è un maestro nel mettere a disagio il lettore secolare. È troppo potente per metterlo in discussione: o sei dalla sua parte, o rinunci e non lo leggi. Se le sue argomentazioni fossero la sua gloria, potresti leggerlo come leggiamo Agostino o Freud, accettando la tendenziosità come una necessaria appendice allo scintillio stilistico. Ma Dante è un poeta, e va letto come leggiamo Shakespeare. Canta un centro, canta un canto fitto di interrogativi e di risposte, e pretende pietà dal lettore.

Questo non è un limite. Uno dei grandi doni del poeta è dare corpo lirico alla fede fino a infiammarla… Quello che suggerisce Dante è una specie di miracolo testuale, per cui non dobbiamo leggere in una prospettiva meramente umana: come faceva Agostino, dobbiamo riconoscere Dio nel libro dell’uomo. Dobbiamo leggere la Commedia come se fosse il libro di Dio. Tuttavia, anche il più possente dei libri – che sia la Torah, Omero, Chaucer, Shakespeare, Cervantes o Montaigne – non può diventare il libro di Dio senza una impostazione politica e spirituale. Dante procede su una linea sottile. La Commedia è e non è la Scrittura. Dante insiste nel dirci la verità. Certamente, scrive la sua verità con una completezza e un vigore quasi ineguagliabili in letteratura – quasi, perché c’è Shakespeare.

T.S. Eliot ha scritto nel Bosco sacro che anteponeva Dante a Shakespeare “perché mi sembra che illustri un atteggiamento più sano nei confronti del mistero della vita”. Questa, però, non è una osservazione critica, bensì una polemica religiosa.  Dubito che Shakespeare si sia mai confrontato con quel concetto spaventoso che è il “mistero della vita”. Non gli importava risolvere i nostri problemi. Piuttosto, ha mostrato che ognuno di noi è impregnato di una verità troppo elusiva per poterla possedere.

Harold Bloom

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