
Discorso sul digiuno e sull’“artista della fame”
L'Editoriale

“Sono l’orfano e la vedova, di entrambi indosso le vesti”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
Michael Gorra è professore di letteratura allo “Smith College”: tra le tante cose, ha ideato per Penguin un “Portable Conrad”, ha scritto un saggio piuttosto importante su Henry James, ha curato l’edizione critica di “Mentre morivo” di William Faulkner. Proprio su Faulkner, ha pubblicato lo scorso anno un saggio importante, “The Saddest Words. William Faulkner’s Civil War”, che, di fatto, è una difesa a spada tratta del geniale autore statunitense, Nobel per la letteratura nel 1949. Secondo uno schema attualmente in voga negli Usa – e moralmente delirante – Gorra distingue l’uomo Faulkner, blando tutore dei privilegi bianchi del Sud, e lo scrittore, che prima e meglio di altri, con superba sapienza formale, ha affrontato – anche – il problema razziale. Il discrimine è sempre quello: uno scrittore non è giudicato per la forma ma per il contenuto che propone (eppure: uno scrittore non è un filosofo, non è un politico, non è un prete; è lì per guardare ciò che nessuno vuol vedere). Tutti i valori che riguardano la scrittura, da sempre, sono dunque ribaltati: lo scrittore, che dovrebbe mostrarci l’indicibile, il mostro, l’orrido, finisce per essere il paladino della grigia morale comune, ci dice che dobbiamo fare i bravi, amare il prossimo, aiutare le vecchine ad attraversare la strada. Orrore. Che mondo triste quello che crede di tenere a bada il giaguaro con una fiction. La strategia di Gorra, comunque, ha dato i suoi frutti: Faulkner – per il momento – occupa ancora il posto preminente nel canone letterario americano. Eppure, pare indecente anche soltanto mettere in questione la sapienza narrativa di un tale titano. Come esempio – tra i più equilibrati, per altro – di quanto accade nel mondo culturale americano, del livello del dibattito critico, abbiamo tradotto (grazie a Francesca Biagi) una vasta recensione al libro di Gorra firmata da Drew Gilpin Faust su “The Atlantic”, dal titolo eclatante: “What to Do About William Faulkner?”. La tesi, denunciata dal sottotitolo, è cerchiobottista e vile: “non riuscì a sottrarsi dal ‘fardello della razza’, ma ne seppe trarre forza creativa”. Lo stile è sonoro, puntuale, imbarazzante. Insomma, Faulkner è uomo modesto scrittore eccelso. Tra poco ci verrà chiesta la patente ‘morale’ per poterci esprimere su qualsiasi cosa. Vomiteremo. Daremo di rutto. Già accade, in effetti: l’autocensura è a livelli didascalici. Ci opporremo.
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Nel giugno del 2005 Oprah Winfrey sorprese tutti annunciando la 55° selezione del suo prestigioso Book Club. Proclamò, per i mesi a seguire, una “Estate Faulkner”, incentrata su tre suoi romanzi – Mentre morivo, L’urlo e il furore e Luce d’agosto – disponibili in uno speciale cofanetto di 1.100 pagine e del peso di quasi un chilo. Il sito web di Oprah pubblicò i video di tre brevi lezioni tenute da professori di letteratura per aiutare i lettori a venire a capo della prosa, notoriamente molto impegnativa, dello scrittore. La trilogia di Faulkner scalò presto la classifica di Amazon dei libri più venduti, piazzandosi al secondo posto. Alcuni critici acclamarono Winfrey per aver restituito a William Faulkner un posto nella coscienza comune, mentre altri contestarono qualsiasi idea di recupero o ritorno, chiedendosi, di rimando, se fosse mai, davvero, andato via.
Nei quindici anni trascorsi da allora, le questioni della razza e della storia, così centrali nell’opera di Faulkner, sono diventate sempre più urgenti. Dovremmo chiederci come si debba considerare, oggi, questo rivoluzionario scrittore, insignito del Nobel, che ha affrontato la tragedia delle persecuzioni razziali nella nostra nazione in modi che sono insieme illuminanti e sconcertanti, in modi cioè che rivelano sia sorprendenti capacità di penetrazione della natura umana sia i limiti di un uomo bianco del Sud, nato nel 1897 nell’atmosfera soffocante della società chiusa e segregazionista del Mississippi. Oggi, di fronte a una resa dei conti sulla questione razziale, i tempi sono senza dubbio maturi per una rigorosa indagine su Faulkner.
Michael Gorra, professore di inglese allo Smith College, considera Faulkner il romanziere più importante del ventesimo secolo. Nel suo ricco, complesso e pregnante ultimo libro, The Saddest Words: William Faulkner’s Civil War, spiega perché e in che modo bisogna leggere Faulkner nel ventunesimo secolo, proponendo una rivisitazione della sua narrativa dal punto di vista della Guerra civile, “il conflitto centrale nella storia della nostra nazione”. Raramente trattata in modo esplicito, “mai enfatizzata, e nemmeno evocata”, la Guerra civile è, nella sua opera, “ovunque” e al tempo stesso “da nessuna parte”. Faulkner non può sfuggire alla guerra, alle sue conseguenze, o a ciò che significa e, sostiene Gorra, nemmeno noi. Come osserva Ringo, l’ex-schiavo di Gli invitti (1938), durante il conflitto sul diritto di voto nell’era della Ricostruzione, “Questa guerra non è finita. È appena cominciata per davvero”. Ecco perché ai nostri occhi, come per Jason e Quentin Compson di L’urlo e il furore (1929), è stata e ancora sono le “parole più tristi”: “Ciò che è stato non è mai finito”, spiega Gorra.
Nel prepararsi a esplorare ciò che Faulkner può dirci della Guerra civile e ciò che la Guerra civile può dirci di Faulkner, Gorra si mette in gioco, sia come storico sia come critico letterario. Confessa però che il suo scrivere è anche un “gesto di appartenenza”; il libro rappresenta infatti la sua riflessione sul significato della “guerra per sempre” della razza, non solo nella storia e nella letteratura americana, ma nei nostri tempi inquieti. Ritiene che quello che pensiamo oggi della Guerra civile “serva soprattutto a dirci che cosa pensiamo di noi stessi, in quale sistema politico viviamo e che tipo di storia abbiamo alle spalle”.
Il nucleo del libro è un racconto della Guerra civile che Gorra ha creato estraendo dall’intera opera narrativa di Faulkner le pagine in cui la guerra compare, e riorganizzandole “in una forma in qualche modo lineare”. Districandosi tra le sovrapposizioni, le circolarità, le ricorrenze e le inversioni presenti nei diciannove romanzi e nei più di cento racconti di Faulkner, Gorra ha costruito una narrazione cronologica della guerra nella contea di Yoknapatawpha, degli eventi e dei personaggi che compaiono nell’ampia cronaca che lo scrittore fa del suo fittizio “francobollo di mondo”. Faulkner si era preso delle libertà riguardo all’ordine storico-cronologico degli eventi, perché quello che cercava di rappresentare era “la verità psicologica del fronte interno confederato” e il periodo post-bellico. Gorra sostiene che sarebbe difficile fare questo lavoro sulla base degli effettivi documenti dell’epoca, e che Faulkner di certo non sarebbe arrivato a quella verità psicologica grazie allo studio della storiografia razzista del tempo, che sosteneva di non avere mai nemmeno letto. Questa visione è invece il risultato di un preciso atteggiamento da parte di Faulkner, che Toni Morrison una volta ha definito come “il rifiuto di distogliere lo sguardo” dal fardello del crudele passato della sua terra.
Faulkner mette in atto questo rifiuto attraverso il suo continuo tornare a guardare, la sua continua rivisitazione degli stessi personaggi e delle stesse storie, e ancora attraverso i prequel, i sequel e gli spin-off delle storie che ha già raccontato, scavando così nel profondo delle verità nascoste e spesso sconvolgenti del Sud che ritrae. Gorra cerca di dipanare e chiarire l’opera di Faulkner facendone, lui stesso, una ricostruzione, ma il suo gesto di chiarificazione letteraria è anche un atto di partecipazione, un confluire nel processo faulkneriano. Gorra ri-narra i racconti della Guerra civile cercando di scendere a patti, da un lato con il doloroso lascito americano legato alla questione razziale, dall’altro con William Faulkner stesso.
Forse il più potente dei racconti di Faulkner sulla Guerra civile è Assalonne, Assalonne! (1936), un romanzo costruito intorno al rifiuto di Quentin Compson di distogliere lo sguardo. Sebbene Faulkner sostenesse che Quentin non parlava a suo nome, Gorra scrive di non avergli mai davvero creduto. L’indagine che fa Quentin, nel tentativo di capire perché Charles Bon sia stato assassinato proprio durante gli ultimi giorni della guerra, si sviluppa attraverso una successione di racconti che Quentin elabora in modo non diverso da quello di Faulkner stesso.
Insoddisfatto, ogni volta, della versione della storia che ha svelato, Quentin torna a guardare, e arriva, attraverso rivelazioni sempre più inquietanti, al peccato originale del Sud: il potere deformante e disumanizzante della razza. È la razza che preme il grilletto. “Dunque è il sangue meticcio, non l’incesto, che non potete sopportare” dice Bon un attimo prima che Henry, allo stesso tempo suo fratello e il fratello della sua fidanzata, gli spari.
È sorprendente pensare che questo romanzo sia uscito nello stesso anno di Via col vento. Furono i chiari di luna e le magnolie a conquistare il plauso del pubblico, e non il bruciante ritratto della persistente eredità della schiavitù: fu Margaret Mitchell a vincere il Premio Pulitzer per la narrativa nel 1937, non Faulkner. Ma il periodo di “produttività esplosiva” di Faulkner, cominciato nel 1929 – tredici libri in tredici anni – attirò un diverso tipo di attenzione, per via delle innovazioni formali e dello sperimentalismo letterario, e non solo per la sua cruda rappresentazione della questione razziale. In un saggio del 1939, Jean-Paul Sartre lo ha paragonato a Proust, così Faulkner diventò un idolo agli occhi dei giovani intellettuali francesi e dei critici di tutto il mondo. Poteva non aver vinto il Pulitzer, ma si avviava sulla strada che nel 1949 lo avrebbe condotto al Nobel.
Gorra fa notare “l’importanza sempre maggiore che assume il problema razziale” nella narrativa di Faulkner; tuttavia le abitudini e gli atteggiamenti della società rispetto alla questione razziale si evolvevano in modo ancora più rapido rispetto a quelli di Faulkner. Mentre il movimento per i diritti civili, alla fine della Seconda guerra mondiale, acquistava slancio, Faulkner si impegnava in commenti pubblici più espliciti sulle divisioni e diseguaglianze insite nella società americana. Come i critici all’epoca, e ancora oggi, anche Gorra cerca in tutti i modi di venire a patti con le sconvolgenti opinioni che Faulkner non di rado esprimeva sulle questioni del progresso e della giustizia razziale. Gorra non distoglie lo guardo dalle sue inquietanti dichiarazioni pubbliche o da certi sconcertanti stereotipi e assiomi presenti nella sua opera, e diventati di recente, man mano che l’atteggiamento sociale è mutato, sempre più stridenti.
Per Gorra la posta in gioco è alta. Viviamo in tempi in cui si ribalta la reputazione di uno scrittore, si cancellano le sue opere dalle liste delle letture consigliate e si svalutano i suoi successi per non aver saputo capire problemi che oggi vediamo con occhi diversi. In apertura al libro, Gorra ci ricorda i dibattiti ancora in corso su Joseph Conrad, inizialmente sollecitati da un saggio del 1977 di Chinua Achebe che definiva lo scrittore un apologeta dell’imperialismo. Secondo Gorra, oggi Faulkner “è, rispetto a noi, nella stessa posizione di Conrad”, la sua opera ha bisogno di un riesame e di una rinnovata interpretazione che possa misurarsi con i suoi limiti rispetto alla questione razziale.
Gorra riconosce che Faulkner “rimase un uomo bianco che apparteneva al Sud delle leggi Jim Crow, e non sempre riuscì ad andare oltre quel limite”. A volte le sue parole possono – e devono – metterci a disagio. La sua narrativa offre “una rappresentazione fin troppo indulgente del paternalismo schiavista”; i suoi romanzi e racconti non rendono le crudeltà fisiche insite nella schiavitù; non contengono la descrizione di un’asta, di una famiglia smembrata dalla vendita, o delle frustate. Molti dei suoi personaggi neri sembrano incompleti, sebbene non siano affatto le caricature stereotipate tipiche di tanta letteratura bianca del Sud dell’epoca. Faulkner parlava dei bianchi che avevano “il coraggio e la forza di resistere (…) alla Ricostruzione”. Gli invitti mostra l’ammirevole determinazione di John Sartoris, leader del Ku Klux Klan locale, che si batte “per impedire ai politicanti del Nord di incitare i negri alla rivolta”, che era proprio l’idea che Sartoris aveva della rivendicazione del diritto di voto per i neri. Gorra fa notare che la visione di Faulkner degli “elettori neri come necessariamente ignoranti e corruttibili non è che una ripetizione pappagallesca dell’idea della Ricostruzione diffusa ai tempi dell’infanzia dello scrittore, e che rimase inalterata per alcuni decenni successivi”. In un racconto del 1943, scritto per «The Saturday Evening Post», Faulkner raffigura il mercante di schiavi e generale confederato Nathan Bedford Forrest con una generosità che Gorra trova “difficile da digerire”. Al tempo stesso, però, sottolinea Gorra, il racconto degli schiavi che fuggono verso la libertà e l’emancipazione trascende i dati storiografici dell’epoca di Faulkner e anticipa la nostra. Dunque Faulkner non è un apologeta del Vecchio Sud, ed evita in ogni modo di esaltare la guerra, a differenza della maggior parte dei bianchi del Sud suoi contemporanei.
Le dichiarazioni pubbliche di Faulkner sulla razza, mentre il movimento per i diritti civili procedeva nel suo cammino, sono sotto molti aspetti persino più inquietanti dei difetti che Gorra individua nella sua opera. In un spaventosa intervista del 1956 al quotidiano britannico «Sunday Times», rilasciata mentre era in stato di ubriachezza, Faulkner invocò lo spettro della guerra razziale se il Sud fosse stato costretto all’integrazione, ma di fronte alle numerose repliche ingiuriose che le sue parole attrassero, negò di averle mai pronunciate. Mentre da un lato si schierava sempre in modo netto contro il linciaggio, e nel 1955 condannò l’assassinio di Emmett Till, dichiarando che qualsiasi società che ammazza i bambini “non merita di sopravvivere, e probabilmente non sopravvivrà”, dall’altro asserì una volta che la folla “come le nostre giurie… ha, a suo modo, ragione”. Gorra sottolinea la “incoerenza” della posizione di Faulkner sia come critico sia come difensore della resistenza del Sud bianco al cambiamento.
Sotto molti aspetti rappresentava la quintessenza dell’uomo “moderato” bianco del Sud, figura che fu sottoposta a un esame molto attento man mano che il movimento per i diritti civili accelerava il passo. Condannava la violenza e riconosceva la necessità di porre fine alla segregazione, ma respingeva ciò che Martin Luther King Jr. avrebbe più tardi descritto “la feroce urgenza dell’adesso”. E fu proprio contro i fallimenti morali di questi moderati che King si scagliò nel 1963 con la sua “Lettera dal carcere di Birmingham”. Mentre Faulkner esortava alla pazienza e spingeva a temporeggiare, disapprovando apertamente la coercizione imposta dal governo federale al Sud bianco, i suoi critici pensavano che avrebbe dovuto saper giudicare le cose in modo diverso. Come spiegò James Baldwin in un saggio del 1956 in cui condannava le opinioni dello scrittore sull’abolizione della segregazione razziale, Faulkner sperava di dare ai bianchi del Sud il tempo e l’opportunità di salvarsi, di recuperare la propria identità morale. Ma la loro salvezza poteva arrivare, semmai, solo a costo di rimandare la giustizia per i neri americani, cosa che secondo Baldwin non era più concepibile.
Gorra redige una lista di difetti, che risaltano in particolare se si guarda Faulkner con gli occhi di oggi, più che con quelli di allora. E tuttavia, dopo aver attestato ognuna di quelle mancanze in modo meticoloso, Gorra, rimproverando il Faulkner uomo, si pronuncia a favore del Faulkner scrittore. “Quando scriveva”, Faulkner “diventava migliore di quello che era”. Secondo Gorra, aveva una straordinaria capacità di “penetrare, col pensiero, negli altri”, di abitare il loro essere, così che l’atto stesso di ritrarre la loro mente e la loro anima risultava scevro di preconcetti e pregiudizi. Quando scrive, Faulkner riesce a “stare fuori dalla sua Oxford – la sua Jefferson – e a riconoscere gli atteggiamenti che la sua gente dà per scontati, senza nemmeno metterli in dubbio”. Per come la vede Gorra, l’atto di scrivere conferiva allo scrittore una lucidità quasi mistica. Tuttavia quella chiarezza era sempre messa alla prova dall’aria fetida del Mississippi che Faulkner, come tutti i suoi personaggi, si trovava a respirare. Ed è proprio quella tensione, la combinazione di imperfezione e genialità che, secondo Gorra, rappresenta l’elemento a suo favore.
A questo punto potremmo chiederci se questa interpretazione, che vede nei punti deboli di Faulkner l’origine della sua forza, non sia solo una mossa di jujitsu interpretativo, oppure ancora un ritorno all’idea romantica di genio redentore. Potremmo anche domandarci se Gorra non sia influenzato da ciò che Faulkner stesso sollecitava presso la posterità: che la sua vita venisse “cancellata ed eliminata dalla storia”, per lasciare solo “i libri stampati”. Dopotutto, Faulkner una volta disse come doveva essere il suo epitaffio: “Scrisse libri e morì”.
Ma Gorra insiste sull’importanza dell’opposizione narratore/storia narrata, e sulla forza creativa che Faulkner traeva dal fardello della razza, a cui non poteva sfuggire. È per le mancanze di Faulkner – non a dispetto di esse – che dobbiamo continuare a leggere la sua opera: questi difetti sono il prodotto e l’emblema dell’eredità di ingiustizia razziale che ci plasma tutti. Nel suo discorso di accettazione del Nobel nel 1950 Faulkner dichiarò che l’unica cosa che vale la pena di scrivere è “il cuore umano in conflitto con se stesso”. Quel conflitto, lui, lo viveva anche mentre ne scriveva. Le sue lotte lo costrinsero a sperimentare e a innovare, e da ciò scaturì la sua penetrante visione etica ed estetica. E sono proprio quelle difficoltà – “il dramma e (…) la potenza del suo tentativo di penetrare nella nostra storia per salvarla strappandole un significato” – che fanno di Faulkner uno scrittore che merita di essere letto. Lo leggiamo perché ci porta con sé nel cuore di tenebra della nostra nazione, in una piega vergognosa della nostra storia, che ancora non abbiamo capito o con cui ancora dobbiamo fare i conti. Il passato, Gorra e Faulkner concordano, “non è mai finito”. O, certamente, non ancora.
Drew Gilpin Faust