C’era una volta in Egitto un certo Giuseppe detto il Sognatore che si ritrovò in prigione con la falsa accusa di tentato stupro della moglie del suo padrone. Con Giuseppe vennero a trovarsi imprigionati due cortigiani del faraone che gli si rivolsero affinché interpretasse i loro sogni. Giuseppe li ascoltò, lesse nei loro sogni e disse ad uno che sarebbe stato impiccato, mentre all’altro disse che sarebbe ritornato a porgere il calice al suo signore. Giuseppe pregò costui di non dimenticarlo, una volta ritornato libero e felice, e il coppiere del faraone, in qualche modo, lo promise. Le cose andarono proprio come Giuseppe aveva svelato, ma il coppiere del faraone dimenticò la promessa. Così sono fatti gli uomini: per la maggior parte dimenticano le promesse. Però non tutti gli uomini, grazie a Dio. Non Giuseppe lo Scrittore. Lo scrittore Giuseppe Culicchia infatti ha mantenuto la promessa che fece da bambino, quando il giovane brigatista Walter Alasia, suo amato cugino, di più, suo fratello maggiore, fu ucciso: la promessa di diventare uno scrittore per scrivere un libro su di lui, per ricostruirne i lineamenti umani che gli avvoltoi della stampa e della televisione avevano sfigurato più della morte. In genere i parenti scomodi si rimuovono, si occultano, si finge di dimenticarli. Altri, una volta diventati scrittori di successo, si sarebbero ben guardati dal rischio di compromettere la propria immagine. Altri avrebbero finto di dimenticare la promessa. Giuseppe lo Scrittore invece non ha l’animo dei cortigiani del faraone o dei salotti letterari e non si è dimenticato la promessa, non tanto per via del senso dell’onore, penso, ma per amore. E ne è venuto fuori un libro vero. Uno dei rari libri su quegli anni che valga la pena di leggere, e non solo perché Giuseppe Culicchia ha familiarità con la tragedia.
Aprire questo libro per me è stato doloroso. L’ho letto d’un fiato e mi ha tolto il sonno, anche questa notte in cui ho ritrovato la forza per scriverne. È stato come riaprire una ferita, come viaggiare sulla macchina del tempo e ritrovarmi nella Milano degli anni ’70, “nel fiore dei miei peccati”. Non farò il benché minimo tentativo di fingermi uno scrittore o un critico al di sopra delle parti, semplicemente perché da ragazzo stavo dalla stessa parte di Walter Alasia, dalla stessa parte della barricata, intendo dire, anche se non nello stesso gruppo. Noi si scelse, eccome, la parte per cui batterci. Era la parte dei “dannati della terra”, come scriveva il terzomondista Franz Fanon, o degli “ultimi”, come più saggiamente dice anche il più terzomondista dei successori del Pescatore del Mar di Galilea (papa Francesco, che propone però ben altri mezzi per curare i mali del mondo, e raccoglie comunque gli sputi e l’odio “urbi et orbi” di tutti i fascisti, razzisti, suprematisti, nonché le lodi di tanti ipocriti, anche sinistri, ai quali dei poveri non gliene frega niente, il che è peggio). Era la parte degli operai, degli sfruttati, a cominciare dalla parte più sfruttata dell’umanità, la parte femminile. Insomma, noi si fece una scelta di campo. Dico questo per fare subito chiarezza, non certo con un fine apologetico, affinché nessuno possa dire, se non in malafede: “Certo, di buone intenzioni sono piene le fosse…”
Allora, secondo molti santi storici degli anni successivi, secondo sociologi, psicologi, scrittori di successo e, peggio di tutto, secondo tanti piccoli inquisitori o giornalisti dell’eretica pravità, l’Italia era percorsa e posseduta dai demoni, in tutto e per tutto simili a quelli descritti da Dostoevskij. Questi demoni avevano smesso le insegne dei guelfi e dei ghibellini, e, per essere al passo con la moda del tempo, si erano travestiti da guelfi neri o da guelfi rossi. Questi ultimi avevano tracciato persino la stella a cinque punte, pensando di copiarla dai Tupamaros, mentre i diritti d’autore del Pentacolo andrebbero attribuiti a Salomone. Così, evocati, i demoni erano apparsi a legioni e si erano impossessati di migliaia e migliaia di giovani. La visione di Dostoevskij pareva essersi avverata anche in Italia, non solo un secolo prima nella Russia zarista. Solo che questi giovani – dei quali, ripeto, faceva parte anche chi va scrivendo queste righe – non erano angeli caduti, ma perlopiù semplicemente giovani che desideravano di tutto cuore un mondo nuovo, come lo desiderava Walter Alasia. Giovani tipo quelli di cui il grande scrittore de I demoni aveva fatto delle caricature destinate alla deportazione in Siberia. Ovviamente c’erano anche dei vecchi, pochi ma c’erano, soprattutto del tipo intellettuale, e questi erano un po’ più rassomiglianti ai padri spirituali dei demoni di Dostoevskij, in genere del tipo parolaio e un po’ vigliacco. Ignoro se esistesse davvero un Grande Vecchio. In buona fede posso dire e affermare solo di aver visto il Grande Vecchio coi lunghi capelli e la barba bianca affrescato sulla volta della Cappella Sistina. Però ha un alibi: è lì da secoli, dai tempi di Michelangelo.
A Dostoevskij aveva risposto un altro grande scrittore, Tolstoj, dicendogli che non era bello quello che aveva scritto dei rivoluzionari, e che in essi egli vedeva e isolava solo il momento della violenza, e che se avesse guardato nel loro animo ci avrebbe trovato anche l’abnegazione e la sete di giustizia, e, in fondo al tunnel, avrebbe visto Dio. Ora io non so se nel buio tunnel si potesse intravedere anche qualche traccia di zoccolo caprino, ma certo un demonietto nel cuore doveva avercelo anche Dostoevskij. In quanto a Tolstoj, cui un giovane semisconosciuto avvocato indiano di nome Gandhi scriveva dal Sudafrica come al maestro della “non resistenza al male”, in quanto a Tolstoj dicevo le tracce erano piuttosto evidenti e da lui stesso dichiarate. Nelle Confessioni egli scrive di avere ucciso degli uomini (probabilmente nelle incursioni caucasiche) e di avere sfidato altri uomini a duello, al fine di ucciderli. Ciononostante nel suo ambiente, racconta Tolstoj, era considerato un uomo “relativamente morale”. Con ciò voglio dire che il male, che noi vediamo e cerchiamo soprattutto negli altri, è anche in noi stessi, latente, pronto a cogliere la prima occasione. E questo vale per i santi, i santoni e persino per i grandi scrittori. Vale per ogni essere umano. Ma i falsificatori dicono il contrario. Però io credo e sono convinto che la frode sia più grave della violenza, e che la frode più spiaccia a Dio, “e per questo stan di sotto li frodolenti”, come debitamente spiega Virgilio a Dante nell’XI dell’Inferno. L’attuale, più che allora, è un’epoca fraudolenta, per certi versi più bassa, vile e cattiva, come sempre nei confronti dei più deboli, dei poveri cristi. Non solo è una miserabile epoca fraudolenta, ma è anche più violenta. Basta guardare ad un palmo dal nostro naso, basta guardare alla guerra, che è terrorismo su scala industriale.
Mi si perdoni la digressione, anche se non penso di essere uscito fuor di tema. Qual è il ritratto di Walter Alasia che affiora dal libro? Come una foto d’altri tempi ai sali d’argento, ne è venuto fuori il ritratto umano di Walter Alasia visto con gli occhi di un bambino, che sono gli occhi di Dio, anche se poi, per darcene un’idea, si affida alla mano e alla penna dell’adulto diventato scrittore. Ma la mano che muove questa penna è veramente l’Amore, l’amore che non giudica, l’amore che è più forte della morte. L’amore e il dolore. Ne è emerso un ritratto di Walter Alasia come di un ragazzo fondamentalmente buono e generoso, come certamente era, prima e anche dopo la scelta della lotta armata. L’indole fondamentale di una persona si mantiene anche nelle circostanze più drammatiche. Ma allora che cosa accadde? Come fu possibile che un ragazzo di indole buona e che aveva scelto la parte dei poveri e degli sfruttati bruciasse la sua e un’altra vita? Forse perché visse “al tempo de li dei falsi e bugiardi”? Non più falsi e bugiardi degli idoli dei giovani d’oggi. Forse perché si fece sedurre da una dottrina ingannevole e fallace? Che fosse una dottrina che vale poco è ben dimostrato dagli esiti della Rivoluzione d’Ottobre, rivoluzione in cui tanti spiriti generosi misero tutte le loro speranze. 1917: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!” 1989: “Proletari di tutto il mondo, perdonateci!” 2021: “Mafiosi di tutto il mondo, uniamoci!” A cosa è servito fucilare i Romanov per ritrovarsi, cent’anni dopo, coi Putinov? Tanti sacrifici, tanto dolore per niente. Ma questo è accaduto dal principio del mondo, è accaduto a milioni e milioni di esseri umani, con l’ausilio di molte e differenti dottrine. E anche senza dottrina alcuna. Il tempo di vivere con te di Giuseppe Culicchia non nasce da una scuola di scrittura creativa dove, al massimo, si possono apprendere le tecniche e qualche trucco del mestiere. Questo libro nasce dalla scuola del dolore. Non è scritto per giudicare né per giustificare, ma è una ricerca nel profondo di un’epoca e di un essere umano tanto amato, per capire. Per capire e per sperare che quanto è accaduto non accada ancora.
Ci sono tanti aspetti di questo libro che mi hanno colpito, ma soprattutto la profonda pietà per tutti gli esseri umani coinvolti in questa tragedia. Ciò mi ha ricordato quel rapsòdo cieco che la tradizione tramanda col nome di Omero, che cantò con imparziale pietà le sofferenze dei vinti e dei vincitori.
La lettura di questo libro mi ha confermato nel sentimento che la migliore causa del mondo, la più giusta e santa, non vale la lacrima di un bambino, le lacrime di Giuseppe il bambino che piange l’amatissimo cugino o le lacrime di un orfano che non rivedrà più suo padre. Io vidi una di queste lacrime scendere sul viso di una ragazza tanti e tanti anni fa, durante un’udienza nel corso di un processo. In questo processo c’ero entrato quasi di mia volontà solo per stare accanto a una persona a me cara e dovevo rispondere di un reato minore (detenzione di arma). Per una volta, ero innocente, anche se, come da copione, non lo dissi e non mi difesi. Con mio dispiacere, i giudici, più furbi di me, giustamente mi assolsero, impedendomi così di restare a Milano per l’appello. Era il processo alla “Colonna Walter Alasia”, una colonna oramai allo sbando, una colonna di prigionieri intenti spesso a beccarsi l’un l’altro, come i capponi di Renzo, “come accade troppo sovente tra compagni di sventura”. La ragazza della lacrima sedeva a fianco di un avvocato di parte civile e penso che fosse la figlia di un uomo che era stato ucciso. Questa lacrima caduta in una bolgia processuale mi colpì e mi fece più male di una pallottola. Così, la sera, ritornato nella mia cella, cominciai a scrivere qualcosa. All’udienza del giorno successivo chiesi e ottenni la parola e parlai di un tale che si perdeva in un labirinto come quello di Cnosso, e di come costui, a furia di vagare, forse trovasse infine il Minotauro, e cioè uno specchio, l’immagine di se medesimo. Questo eravamo diventati, chi più chi meno, nessuno escluso. Il cielo ci aveva donato un lume per orientarci nel labirinto del mondo e della vita, ma noi l’avevamo perduto. Sia resa lode agli dèi di Menandro, che avevano caro Walter Alasia e gli risparmiarono lo spettacolo.