Bisognerebbe mettere al bando Dostoevskij! Non tanto perché russo (sebbene, coi tempi che corrono, qualcuno lo potrebbe considerare un’aggravante), quanto perché in Delitto e castigo si rivela scandalosamente comprensivo nei confronti di Raskol’nikov, studente fuoricorso e fuori di testa, colpevole di duplice omicidio a scopo di rapina. Due aggravanti, la premeditazione e i motivi abietti, che nella patria di Cesare Beccaria gli costerebbero di sicuro l’ergastolo. Eppure Dostoevskij, “il gran veggente dello spirito” (Thomas Mann), finisce col credere alla possibile resurrezione di Raskol’nikov, che si è perduto nel labirinto della vita, salvo, alla fine, trovare una via d’uscita al tormento nel denunciare se stesso. Dostoevskij, per tramite di un tribunale zarista, lo condanna a soli otto anni in tutto, anziché a morte, o almeno all’ergastolo, meglio se ostativo, in 41 bis, anzi tris. Ma, com’è noto, i tribunali e i grandi scrittori della Russia zarista, come Dostoevskij, come Tolstoj (“il gran veggente della carne”) e altri ancora erano vergognosamente teneri nei confronti della delinquenza. Il risultato poi si è visto: “I dieci giorni che fecero tremare il mondo”, la Rivoluzione d’Ottobre, lo zaricidio!
Questi pensieri assurdi (all’ironia ho sempre preferito l’autoironia), mi sono venuti l’altra sera al Teatro di Meano, presso Trento, dopo aver assistito alla messa in scena della condizione umana. Si tratta di uno spettacolo dal titolo Cattivo, adattamento di un romanzo che non ho letto ma che mi riprometto di leggere, Cattivi, di Maurizio Torchio. Si tratta della storia di un detenuto condannato al “fine pena mai”. Così veniva vergata la condanna, in rosso, quando il registro del carcere era ancora cartaceo, nell’era Gutenberg. Col progresso, immagino, la condanna all’ergastolo verrà comunicata al detenuto pericoloso tramite sms, “in remoto”, cioè nella cella di un carcere quanto più remoto, come vuole l’articolo 41 bis. Un’idea così genialmente afflittiva, e cioè che un imputato non possa presenziare fisicamente al proprio processo e non abbia il diritto di vedere i suoi giudici in carne ed ossa, o chi lo accusa, un’idea simile non sarebbe venuta in mentre nemmeno al Grande Inquisitore, e non solo perché a quei tempi ovviamente non c’erano i mezzi per attuarla. Con questo tipo di procedura penale, a questo tipo di pena aggiuntiva è condannato a sopravvivere il Cattivo ergastolano, in una cella di un carcere-isola. La scena è nuda e cruda, come deve apparire una cella di isolamento e un uomo in questa condizione. Giusta la scelta registica (Giuliana Musso) e scenografica (Francesco Fassone).
Ma ciò che ho trovato di ancor più degno in questa pièce teatrale, prima ancora dei meriti artistici, è il solo fatto di averla messa in scena. Definirla una scelta controcorrente è dir poco. Di questi tempi poi! Se c’è un tempo per ogni cosa, come scriveva il vecchio Salomone (in arte Qoelet o Ecclesiaste), questa è l’ora delle carogne: “Certezza del diritto, certezza della pena!”. Il che significa certezza di farla franca per chi ne ha i mezzi e per tutti gli altri invece la galera, retta soprattutto col manganello, come nei gloriosi tempi “del più grande statista del secolo”. Forse nessuno sa essere più cattivo e spietato e vile verso gli altri come chi ha la coscienza sporca e pensa di ingannare se stesso e gli altri aizzando al linciaggio. Non è questo il caso del Cattivo interpretato da Tommaso Banfi. L’attore rende giustizia al condannato, con grande bravura e grande intensità, e lo fa vivere, e gli da voce, la giusta voce, col fluire della sua coscienza e anche della sua incoscienza. Riesce a leggere quest’anima meglio di quanto non siano riusciti a fare gli inquirenti. (Naturalmente, nel “Gran teatro del mondo”, i ruoli sono diversi!) Ma si tratta poi di un’anima sola? Perché a me è parso di udire anche altre voci, “diverse lingue, orribili favelle,/ parole di dolore, accenti d’ira,/ voci alte e fioche, e suon di man con elle/ facevano un tumulto…”. Tutta un’umanità di “dannati della terra” per cui tutta la vita è veramente un inferno senza uscita, e forse non c’è un inferno più infernale di questo. Al mondo non c’è solo l’ergastolo e il 41 bis. C’è di peggio. Nel nostro mondo civile si è sdoganata la tortura, la pena di morte senza processo e senza sentenza, “il diritto di uccidere” sulla base di elenchi stilati dai servizi segreti, le detenzioni illegali rese permanenti e la cui unica base giuridica è la forza nuda e crudele.
C’è poco da fare la morale al Cattivo ergastolano. Ma si sa come va il mondo, come ragiona la gente: da una parte i reprobi e dall’altra gli onesti. Il che è storicamente dimostrato dal certificato penale dei partecipanti alla cosiddetta “conferenza di Wannsee” dove, nel 1942, una quindicina di onesti galantuomini si riunirono in una splendida villa sul lago omonimo, presso Berlino, per fare il punto e per definire una volta per tutte le linee generali della “soluzione finale della questione ebraica”, forse il peggior crimine della storia umana (lo sterminio delle popolazioni del Nuovo Mondo fu ben maggiore in termini numerici, ma non così freddo e ragionato). Ovviamente quegli onesti funzionari erano tutti incensurati e col certificato di buona condotta, altro che quel delinquente di Cattivo.
Enzo Fontana