“Ma dov’è l’uomo? Dove si è nascosto?”. Sia lode a Oblomov, un genio
Letterature
Livia Di Vona
Ho appena finito di rileggere il Faust, il primo Faust, in una serata di mezza estate. In giardino ho visto una lucciola, davvero luminosa e grande che quasi mi sembra doppia. E così, nell’immaginazione, mi si è accesa una fiammella bicorne. Mi prendo licenza di immaginare che sia la prigione di due anime: quella di Ulisse e quella di Faust. Lingue di fuoco che si guizzano e parlano.
Così favilla Ulisse, lo maggior corno della fiamma antica:
“… non vogliate negar l’esperienza
di retro al sol del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Così invece si lamenta Faust, il corno minore di una lingua più moderna:
“Ahimé! ho studiato a fondo e con ardente zelo,
filosofia, giurisprudenza e medicina e, purtroppo,
anche teologia.
Eccomi qua, povero pazzo, e ne so quanto prima!
Vengo chiamato Maestro, anzi dottore e già da dieci anni
meno in qua e in là i miei scolari.
E scopro che non possiamo sapere nulla.
Ciò mi brucia quasi il cuore”.
La lingua di Ulisse racconta del suo ultimo viaggio, dal letto di Circe al sonno eterno nel grembo di Oceano. Sempre più remoto da Itaca, il grande avventuriero dello spirito umano navigherà per oltre cinque mesi oltre le Colonne d’Ercole, prima di naufragare in vista di una montagna “bruna per la distanza”. La lingua di Faust invece racconta i patimenti della sua anima gotica, di notte, alla vigilia di un altro celebre viaggio. Egli volerà sul mantello di Mefistofele, volerà oltre le incerte colonne della ragione umana, sino al pentimento che però lo salverà dal naufragio finale. Così, in grazia di un pentimento della ragione ma non del cuore, il vecchio dottore del Collegium Logicum sarà assunto nel cielo di Goethe, in virtù di una finzione poetica.
Ulisse è un mito e Faust è un mago. Perché mai accostare lo strano caso del dottor Faust all’epico volo di Ulisse? Perché accomunare nel fuoco questo greco volante a quel tedesco un po’ pesante? Faust è l’attore principale di un poema drammatico, ma Ulisse è una reliquia di fuoco del “poema sacro”. In Ulisse c’è l’ardore e la freschezza di uno spirito antico, mentre in Faust c’è l’odore e la stanchezza di uno spirito moderno. Senza contare che Ulisse scruta il cielo a occhio puro, mentre Faust cerca la sua stella attraverso il cannocchiale di Galileo. Perché, allora, incatenarli alla stessa fiamma? Perché, credo, medesima è la condizione umana, vista dal sorgere del sole al crepuscolo che porta la notte negli occhi di ciascuno. Perché Ulisse e Faust sono il dritto e il rovescio della stessa carne umana che si consuma in un lampo che abbraccia i millenni, vista nel fiore dei suoi peccati e nell’appassire della ragione, contemporaneamente. Millenni di vagabondaggio dello spirito, nella speranza di cogliere qualcosa sotto la crosta delle cose. Quel che resta è l’amaro in bocca al dottor Faust e la mano tremante di Goethe. Quel che resta è l’acqua salata in bocca a Ulisse e i versi di Dante nel cuore.
Ispirato da un’immagine delle metamorfosi di Ovidio, in un guizzo del suo inferno poetico, Dante immagina Ulisse in una fiamma: un fuoco sacro più che una dannazione. Per quanto Dante ami e rispetti Ulisse, non può salvarlo da Malebolge.
Ispirato al Faustbuch e alla leggenda popolare, Goethe immagina la vicenda umana e ultramondana del dottor Faust. Prima della scommessa tra Dio e Mefistofele, prima del patto tra il diavolo e il dottor Faust, prima di tutto forse avvenne un altro patto: un patto invisibile tra lo spirito di un negromante e il poeta Goethe. Quantunque Goethe non ami il suo Faust (nell’Urfaust si tratta del tipico innamoramento giovanile), però lo salva.
In principio era il Verbo di Ulisse, non l’Azione scenica di Faust. L’orazion picciola di Ulisse mette le ali al cuore dei suoi compagni:
“… che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino”.
Il monologo del dottor Faust invece convince a stento persino se stesso:
“Sta scritto: In principio era il Verbo!
Son già bell’e fermo!
Chi mi aiuta a proseguire?
Lo Spirito mi aiuta!
Improvvisamente mi si fa luce dentro:
In principio era l’Azione!”
E così Faust sceglie l’Azione, salvo il pentirsi, alla ricerca di una scialuppa alla quale aggrapparsi, quando la barca della vita affonderà nel mare della vecchiaia. Ulisse invece incarna la dignità epica, a bordo del suo “legno” che varca le Colonne d’Ercole, e conserva una dignità tragica sulla barca di Caronte, di fronte al giudizio di Minosse, anche se poi, tra un mare di fiammelle, parla del suo ultimo viaggio come di un “folle volo”. Nel Faust l’unica dignità tragica è quella di Margherita. Nella cucina della strega il dottor Faust tracanna la pozione dell’incerta giovinezza. Nell’isola di Circe, Ulisse non cade nel tranello d’erbe della maga, perché la sua pozione trasformerebbe anche la sua parola in strida e grugniti.
Ulisse e Faust sono agli antipodi, ma le piante dei piedi sono come incollate. Sono creature della poesia. E nella creazione poetica vale lo stesso principio della Creazione divina: i personaggi sono creati liberi, esiste il libero arbitrio. Le creature del piccolo teatro del mondo sono libere di scegliere, libere di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male e persino di fare un patto con quel buon diavolo di Mefistofele, libere di ritornare a Itaca o di varcare le Colonne d’Ercole. In fondo, l’anima di Faust era un mistero per lo stesso Goethe, come insondabile era lo spirito di Ulisse per Dante Alighieri. Fra tanto mistero, a me lettore arde nell’animo solo una fiammella bicorne: lo spirito di Ulisse e lo spirito di Faust.
Enzo Fontana
*In copertina: Rembrandt, Faust, 1652 ca.