“Con tutta l’anima”. Irène Némirovsky mette alla gogna i vizi e le viltà degli scrittori di ogni tempo
Letterature
Paolo Ferrucci
Torno subito, disse Dylan Thomas. Aveva trascorso tutta la notte rinchiuso con Liz, la sua amante americana, in una stanza d’albergo, dopo una sbronza colossale di tre giorni. La notte precedente aveva avuto la fortuna poetica di vedere un topo, forse un ratto. Uscì, entrò in un bar, ordinò diciotto whisky lisci e se li bevve; al suo ritorno disse alla ragazza che, se non si era sbagliato, aveva appena battuto un record. Morì cinque giorni dopo, avvolto dai fulgori e dal caos di un delirium tremens. Poe, sobrio, lasciò Richmond e sbarcò a Baltimora il 2 ottobre 1849; qualcosa accadde in quel tragitto e nei giorni seguenti ma nessuno sa cosa. Il 7 agonizzava quasi come se naufragasse in un letto d’ospedale invocando la sua anima e chiamando a gran voce l’esploratore Reynolds, il navigatore che raggiunse il Polo. Malcom Lowry riunì alcuni amici e disse loro che non avrebbe più bevuto: alzò il bicchiere e fece un brindisi. Morì all’istante, per un infarto alcolico. I primi due aneddoti sono più o meno verosimili, l’ultimo è tremendamente falso. Lowry si suicidò, da solo, dopo un litigio con la moglie. In quanto a Poe, il primario del Washington Medical College disse che era morto di freddo e di fame. Ma si sa, un aneddoto biografico non deve essere per forza fedele, basta che assomigli al suo protagonista. L’orecchio tagliato di Van Gogh, l’oppio di De Quincey, la delinquenza e l’omosessualità di Genet, gli allucinogeni di Artaud sono altre forme di una stessa leggenda: la malattia essenziale del grande artista, la sua fragilità essenziale. Io penso che parlino piuttosto della loro salute. Se, come pensava probabilmente Nietzsche, la salute e il giudizio si misurano in base alla quantità di malattie e pazzie che possiamo sopportare, la vita di certi uomini sorprende per il vigore. Mi ubriacai la prima volta all’età di cinque anni, confessava Jack London. Bisogna avere fegato, cuore, cervello e tanti altri organi molto ben messi per sopravvivere a certe diete.
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Cercare una spiegazione all’alcolismo di alcuni grandi artisti è psicoanalisi o tautologia. È lo stesso che chiedersi perché questi uomini, prima di diventare degli alcolizzati, avessero già scelto il mondo immaginario della letteratura o dell’arte invece di dedicarsi alla politica e agli affari. (Non scarto il fatto che anche questi mondi siano un po’ irreali e che anche in questi si beva molto; mi fermo, faccio una distinzione probabilmente aristocratica tra un alcolizzato e un mero ubriaco con il potere). In qualsiasi modo, esiste un problema più importante che il legame tra la creazione estetica e l’alcolismo. Quello dell’alcolismo e basta; quello dell’alcolismo come problema etico della società.
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L’ho già scritto da qualche parte. In Argentina ci sono due milioni di alcolizzati. E non si tratta di due milioni di festaioli ma di due milioni di malati. L’alcol in un paese sottosviluppato come il nostro, uccide e rende inutile più gente di quanto non faccia la malattia di Chagas, il cancro o l’AIDS. Solo che ci sono malattie e malattie. L’alcolismo è una malattia culturale, acquisita per abitudine, e come la fame e l’analfabetismo è promossa dal potere. Qualche anno fa, ai tempi non così remoti ma sempre più evanescenti della dittatura, un’amica psicoanalista immaginò uno studio sulle assuefazioni in Argentina. Ne parlò con un colonnello, ispettore in una cantina (l’analogia inversa sorge da sola: un oste o un ebbro che comandano una divisione di carri armati e questo può accadere nella nostra realtà). La mia amica sollevò il problema dal punto di vista scientifico. Il colonnello rispose che non avrebbe permesso nessuna ricerca. Le disse inoltre se non si rendesse conto che alla cantina, e forse anche all’economia del paese, conveniva che ci fossero alcolizzati. Non so cosa potrebbe pensare questo patriota della lebbra o della elefantiasi, ma sospetto che potrebbe trovarvi un’utilità nazionale, per lo meno per esercitare il tiro al bersaglio.
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Arrivato a questo punto, devo chiarire una cosa. L’ho già fatto un’altra volta: la mia intenzione non è morale ma etica e per etica intendo la legge che governa la specie, non l’individuo. L’alcolismo o la droga, pensati in modo individuale, non mi commuovono né mi inquietano. Ogni uomo ha la libertà e persino il dovere di scegliere la sua vita e, in qualsiasi caso, ha il diritto di uccidersi come meglio crede. Non mi piace ripetermi, ma se voglio essere breve non vedo un’altra strada. L’alcolismo a cui alludo è quello dei due milioni di argentini il cui numero opprime quanto i numeri di un campo di concentramento. In modo analogo, quando scrivo la parola ‘droga’ non penso all’assenzio di Baudelaire, alle anfetamine di Sartre, alla cocaina di Freud o alle melodiche siringate della Holliday, bensì al bambino che infila la testa in un sacchetto pieno di colla, alle ragazze e ai ragazzi inebetiti e prostituiti dai magnacci della pazzia. È in questa zona che l’alcol acquisisce la sua perfetta dimensione infernale.
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L’altro, la mia esperienza personale con l’alcolismo, appartiene al mito, alla leggenda nera dello scrittore e, da più di un punto di vista, appartiene alla letteratura, bene o male. L’altro è il mondo agonico e splendido che conosco in quanto romanziere che aprì una porta proibita e ne uscì con un libro sotto il braccio. Di questo ne ho già parlato fino al narcisismo in El que tiene sed. Mi è stato detto che quel romanzo giustifica l’inferno privato che lo originò. Quando avevo vent’anni mi sarebbe piaciuto credere a questo tipo di idiozia. Oggi so che niente, tanto meno un’opera estetica, giustifica l’aver vissuto o il vivere come un animale. Non credo alle leggende dell’artista pazzo o sonnambulo. So, e lo so positivamente, che nessuno scrive veramente quando è ubriaco, come nessuno scrive quando sta facendo l’amore o qualsiasi altra cosa. In certi esseri privilegiati, l’alcol, la droga, la pazzia sono il prezzo di un’opera che, come tutte le opere dell’uomo, è effimera e non vale tanta sofferenza; ma anche per scrivere su questi argomenti occorrono lucidità e sobrietà. In definitiva, ciò che voglio dire è che in Argentina ci sono due milioni di malati alcolizzati, non due milioni di poeti maledetti.
*Abelardo Castillo (1935-2017; in copertina) è tra i grandi protagonisti della letteratura argentina degli ultimi decenni. Qui si è tradotto il testo, inedito in Italia, “Días con huella”, per la cura di Mercedes Ariza; il romanzo cui si riferisce l’autore, “El que tiene sed”, è pubblico nel 1985. Di Abelardo Castillo è stato tradotto, in italiano, “Il vangelo secondo Van Hutten” (Crocetti, 2003) e “I mondi reali” (Del Vecchio Editore, 2015).