Di Emilio Prados Such, María Zambrano coglie l’aspetto essenziale e remoto:
“A volte si ritirava da solo in un angolo di campagna, come un poeta mistico dell’Islam, come un ‘sufi’, e forse proprio questo era veramente Emilio”.
A dire, forse, di una poesia che ha perseguito l’invisibile e la luce – che ha assegnato alla luce una natura lignea, da toccare, con le spine che ti bucano la mano. Poesie dell’oltreterra ma terrena, quella di Prados, con angeli issati dal fango e una sapienza angolare, che prevede la mungitura, il vello, i capezzoli a pieno latte.
Dice un’altra cosa miliare, María Zambrano. Che il poeta la cui “vocazione” era “abbandonarsi totalmente nella vita e nell’essere” si era rivelato al cospetto della morte. Nato a Malaga nel 1899, studi a Madrid – dove conosce, tra l’altro, Juan Ramón Jiménez –, Prados scrive i primi versi in Svizzera, nel 1921, nel sanatorio di Davos Platz, dove era ricoverato per una tubercolosi polmonare. La malattia lo svuota di sé, consegnandolo alla poesia delle cose ultime – e dunque, per sempre prime, per sempre qui-e-ora. Di qui, una poesia al contempo concreta e trasfigurata, come di figure perfezionate nel riflesso, rovesciate sul lago – superfice irta, dove la verità trova giustificazione nel suo doppio. Poesia, dunque, che va bevuta.
Uscito dal sanatorio, Prados procede a studiare, a Friburgo, Berlino, Parigi. Pur al centro della vita lirica del suo paese, sente l’ordine della solitudine, la divina ordalia: il suo dio si impenna nel grano, il suo occhio reca il panico nell’iride. A Malaga, il poeta apre una tipografia che diventerà il cuore dell’avanguardia spagnola: insieme a Manuel Altolaguirre fonda nel 1926 la rivista “Litoral”, uno dei pilastri della “Generación del 27”. La rivista dura – come le riviste più importanti dell’epoca, che hanno in sé la nitidezza della cometa, la furia in picchiata – quanto una flotta di effimere, tre anni. Vi pubblicano i protagonisti della poesia spagnola, tra i grandi di ogni tempo in quel parlare: Federico García Lorca, Jorge Guillén, Rafael Alberti, Vicente Aleixandre, Luis Cernuda, José Bergamin… Tra i collaboratori amici figurano anche Picasso, Dalí, Juan Gris, Luis Buñuel.
Per natura, Emilio Prados rifugge i club, l’avanguardia che si fa milizia: preferisce accompagnarsi ai pescatori; ama il sole. La guerra civile lo vede tra le fila degli antifascisti: Prados si sposta da Malaga a Madrid, poi a Barcellona.
“La società gli era intollerabile e non soltanto perché era ingiusta, ma perché anzi tutto non era il mezzo di comunione fra gli uomini. Sant’Agostino lo ossessionò da allora in poi, sempre. Negli ultimi giorni di Barcellona, quando la fine della guerra, e certissima la disfatta, si avvicinava, parlavamo quasi soltanto di lui che passeggiava di notte, tra le macerie, presso la fiamma degli incendi. Era comparso improvvisamente a Valencia quand’era caduta Malaga, poi andò a Barcellona. Voleva rimanere lì, tranquillo, in un atto di abbandono totale al destino, al ‘Dio che nasce’, come diceva e scrisse. Qualcuno andò a cercarlo e lo portò in Francia”.
María Zambrano
Da Parigi, nel 1939, il poeta prende la via del Messico. Morirà nell’aprile del 1962, costellando la sua vita di raccolte poetiche sempre più fatue (Memoria del olvido; Minima muerte; Penumbras; Dormido en la yerba; Circuncisión del sueño; Transparencias). Insegnò presso il Colegio Luis Vives a Città del Messico, che ospitava gli esuli; visse di stenti e di sogni, con i soldi che il fratello gli inviava dal Canada. Aveva il volto di un uomo in perenne stato di estasi, che legge le foglie come un volto, chiromante di nubi. Dalla strada, aveva raccolto due orfani, che adottò e a cui consegnò la sua non scarsa libreria.
Un tempo, di Emilio Prados si aveva notizia anche in Italia: nel 1966, per la mitica collana ‘bianca’ Einaudi, Francesco Tentori Montalto traduce Memoria dell’oblio, libro da tempo finito fuori catalogo. Una sparizione che forse a Prados piacerebbe: disavvezzo al pollaio, egli è poeta che devi andare a cacciare, che devi scoprire dopo lunga, serrata posta.
Da Roma, nel marzo del 1963, María Zambrano, che gli fu sempre amica, scrive un ricordo, Morte e vita di un poeta: Emilio Prados, pubblicato su “L’Europa Letteraria”, la rivista diretta da Giancarlo Vigorelli. Nel pensiero, di pervicace profondità, la filosofa dice, tra l’altro:
“La sua figura, la sua vita e la sua morte, rappresentano insieme quella del poeta, poeta così solitario, e quella dell’esule puro; tale era la sua semplicità; povero, da solo creava l’amicizia e più che l’amicizia, la fraternità come per incanto; viveva di nulla, o quasi nulla, senza nessuno, senza luogo, quasi, poiché appartato o malato sin dalla gioventù, non prendeva parte alla vita attiva. E viveva, in realtà, con tutto e con tutti; con i suoi innumerevoli amici e con il primo sconosciuto con il quale per caso scambiasse parola, con quelli che al mercato gli vendevano i suoi scarsi alimenti, con il cartolaio che gli vendeva la carta, con il mendicante che soltanto lui sapeva far parlare, con i bambini che lo picchiavano senza sapere chi fosse… La solitudine di Emilio Prados era forse quella dell’esule totale, di colui che si allontana dal proprio luogo per rimanere alle intemperie, tra il cielo e la terra, senza classe sociale di origine, e senza nessun’altra, senza appiglio, come se cominciasse a nascere tutti i giorni”.
Forse è questo il codice del poeta: vivere di quasi nulla, con tutti, da esule, tra cielo e terra, senza appigli. In ogni giorno, riconoscere l’Eden – e incenerire i propri versi, perché ne risalti l’argenteo frutto, l’albero che è poco meno di una mano.
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Nuovo amore
Questo corpo che Dio mi pone tra le braccia per insegnarmi a varcare l’oblio ignoro di chi sia.
Finché non lo ha conosciuto un angelo nero, ombra colosso prossima ai miei occhi: vi è entrato come un fiume silenzioso e tenace.
La sua corrente tutto ha distrutto: gli intimi luoghi, i più nascosti, ha visitato e contorto; è cresciuto violento e dolce, ha flagellato e fatto scempio dell’altro mondo, ai margini del bacio: unico fiore che ancora vive nello spazio e muta l’assenza in più fecondo ardore. Nella carne ha aperto le sue vaste ali ha infilato le piume nel mio petto tutto un fremito, annuncio di altri dubbi…
Non so a quale vita possa farmi accedere l’ingresso di questo angelo. Sono solo un tempio rovinato da quando a me è giunto: lume vacuo porta chiusa presso l’eterno.
Chi fui non so: lo saprò quando questo corpo mi abbandonerà e rinascerò da labbra distaccate dal calore che le ha create…
Ma oggi, finalmente, ho frenato il giorno ho spezzato il cuore del tempo anche se dentro me, come un pugnale, sento l’angelo che cresce, che mi tormenta.
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Ho chiuso la mia porta al mondo ho perso la carne per il sogno… Sono rimasto magico, invisibile nudo come un cieco.
In piena, fino al bordo degli occhi mi sono illuminato da dentro.
Tremulo, trasparente sono restato nel vento proprio come un bicchiere d’acqua, come un angelo di vetro in uno specchio.
*
Possessione luminosa
Proprio questo vento – questo – è la figura del mio essere che, lentamente, penetra e riposa nel tuo corpo estivo; mi avvicino senza che tu mi veda; ti avvolgo, come l’aperto polso dell’aria; sono la figura del mio pensiero su di te alla sua presenza; aperta carne del vento soggiorno dell’amore nell’anima.
Tu – lieve marmo del sogno, neve di carne quiete palmeto, luna silenziosa – immobile, dormi nel pieno della stanza. E io faccio ingresso come l’acqua inondo il tuo corpo e ti copro, completamente e tu resti dentro di me come il fiato nel faro ti vedo tremare e brillare nel mio intimo illumini il mio corpo sei radiosa nella mia carne, che è ormai la carne del vento.
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Nel transito
Che bello quando in me precipiti con tale cautela penetri caldo, vivo, nel mio corpo che per te fluisce: sei una fontana di fuoco.
Sei arrivato nascosto nel vento nudo e nelle mie palpebre raddoppi il tuo volo. Sei ardore! Il tuo braccio mi brucia sul petto.
Hai disarmato i miei occhi li hai rovesciati. Sei già dentro la mia carne, sotto l’albero del cuore, all’ombra del suo sogno: quando riposo sono certo che domini nel tuo regno.
…eppure mi salvo, salto, mi libro fuori di me, fuggo, mi libero del sangue che filtri con arti da mago ti lascio ancora al vento per sempre solo, alla ricerca di altre prigioni per il tuo corpo.
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Vega in estasi
Cielo grigio terra rossa… Da un olivo all’altro vola il tordo.
Nel pomeriggio c’era un rospo di cenere e d’oro.
Terra grigia cielo rosso…
La luna tra i grovigli dell’oliveto.
Ciò che ci resta: una luna dimentica di sé.
*
Vieni, metti la mano nell’oscura e profonda fessura della mia carne. Il tuo braccio si accartoccerà nella mia ombra; di notte, diventerà pietra secca radice del sangue.
La fonte del petto è deserta: per chiedere aiuto deve rampicare alla gola.
Se è vita, negala! Stringi il braccio, più forte taglialo! attraversami!
Ho scansato l’albero del mio corpo mi consegno a te, morte.
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Il mio Dio
Il Dio in cui credo palpita nella coscienza saggi e giusti sono i suoi sacerdoti cieli e mari i papiri della sua esistenza il bene la sola dottrina, la creazione il suo tempio.
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Ma il mio silenzio non è mera crudeltà, occultata tra lapidarie vesti non potevo prevedere la luce al di là di me stesso ho conosciuto ogni cosa il mare e il branco dei nudi corpi ma mi divorava il sangue sulle mani chiedere perdono è come ricordare una poesia e se scrivo è solo perché non sono ancora morto emanciparsi dai sensi significa ritrovare la parola l’abbecedario delle nostre antiche storie.