“Oh se tu capissi:
chi soffre
chi soffre non è profondo.”
Sobborghi di Torino. Estate. Ormai
c’è poca acqua nel fiume, l’edicola è chiusa.
“Cambia, non aspettare più.”
Vicino al muro c’è solo qualche macchina.
Non passa nessuno. Restiamo seduti
sopra il parapetto “Forse puoi ancora
diventare solo, puoi
ancora sentire senza pagare, puoi entrare
in una profondità che non
commemora: non aspettare nessuno
non aspettarmi, se soffro, non aspettarmi.”
E fissiamo l’acqua scura, questo poco vento
che la muove
e le dà piccole venature, come un legno.
Mi tocca il viso.
“Quando uscirai, quando non avrai
alternative? Non aggrapparti, accetta
accetta
di perdere qualcosa.”
Milo De Angelis
Viene la prima, da Somiglianze, Guanda, 1976
*
Somiglianze apparve come una rivoluzione. Si era in pieni anni di piombo, nel 1976, quando per la vita sociale della Nazione sembrava impossibile trovare immagini che non fossero funebri. Tutto aveva un sapore di ferro e di sangue. Milo De Angelis aveva venticinque anni – solo un ragazzo – ma sapeva già di cosa voleva riappropriarsi. Era la volontà di sentirla, quella vita, e pure di esprimerla, perché ne percepiva dentro l’urgenza, la forza esplosiva e sorgiva. Per il De Angelis di Somiglianze la poesia era esattamente questo cercare il punto di tensione massima in cui la vita apre un varco, una feritoia – e cambia. Quel cambiamento, come la nascita, è l’enigma più grande che si nasconde in tutto il libro; un cambiamento che esplode in versi che hanno il tono di una sentenza, o di verità rivelate attraverso un dialogo spinto al limite, sorto, si direbbe, da un accumulo, una saturazione di energia pronta a sbocciare, a esplodere. Si potrebbero fare molti esempi – ma basta leggere questi pochi versi presi da diverse poesie: «la festa in cui si può/ perdere ogni cosa, o nascere nel sì/ impreparabile»; «dove questa morte non è solo svanire/ ma insieme, un poco, esserci/ alla periferia della gioia/ che si apre»; «l’inizio non è uno scopo/ non è quello che cerca, è più in là/ dell’arrivo». E lo stesso vale per questa poesia, che come molte della raccolta si costruisce in maniera, appunto, dialogica. Qualcuno – una donna – è il mezzo del cambiamento. Ma per cambiare, come scrive spesso, occorre accettare di perdere qualcosa. Ma cosa si perde se non la propria stessa vita? Ecco, De Angelis, in questo suo esordio folgorante, ha raccontato come la vita, per essere vissuta, per essere anche espressa, deve perdere se stessa per ritrovarsi, per essere vissuta pienamente, nella sua energia nascente. Si è scritto, per De Angelis, di orfismo, ma credo che al fondo ci sia un errore dietro questa comune interpretazione. De Angelis ha parlato, in tutta la sua opera, attraverso il tono stesso della sua poesia, di resurrezione. Ma come se quella resurrezione fosse possibile solo qui e non altrove. È questa nostra vita che, nel momento in cui si accetta di perderla, nel momento in cui si accetta di lasciarla morire, si spalanca a una realtà nuova (si legge in un’altra lirica, Fioritura: «quando un corpo vuole risorgere non importa il luogo/ […] Anche un filo di gioia/ nelle mani, è tutta la gioia».). De Angelis quel cambiamento, quella resurrezione tanto agognata in Somiglianze, la affermerà nei suoi libri successivi, con una luce e con un tono a volte più sottile altre più malinconico o tragico, da Millimetri (1983) a Distante un padre (1989) e Biografia sommaria (1999), fino a quel canto straziante che è Tema dell’addio (2005), dedicato alla compagna di una vita, Giovanna Sicari, e alla sua precoce scomparsa. E allora anche una città, quella città che De Angelis sembra abitare da solo e che è sempre una Milano periferica, pure se pare una metropoli spettrale, sporcata dal colore di un asfalto liquefatto, dilatata nell’attesa di un tram in una fermata, non è che lo spazio di un sogno realissimo in cui la vita è già vissuta dentro quella perdita, compiuta dentro il suo destino.
Andrea Caterini
*
Credo che non sia agevole per nessuno un approccio critico sicuro alla poesia di Milo De Angelis. Soprattutto quello “primo”, etichettato, per cercare d’afferrarlo, con l’aggettivo “orfico”. L’idea che mi sono fatto, rileggendo Somiglianze del 1976 (il suo esordio), è che con quell’“orfico” si è voluto sottolineare una resa critica di fronte alle oggettive difficoltà che presenta quell’opera, tra le più verticali della poesia italiana del secondo Novecento. La cosa che mi colpisce molto di queste poesie è il continuo riferimento a luoghi, persone, voci e situazioni estremamente concrete, che però sopravvivono nell’intuizione poetica sotto forma di lacerti, echi, frammenti, frantumi. Più che di un poeta in diretto contatto con una verità posta in un’altura, a me De Angelis sembra un poeta che si pone in ascolto estremo della realtà – provo a dirla così – al termine della realtà, ovvero nella sua massima estensione possibile (cos’è, veramente, la realtà?). Se c’è mistero, in De Angelis, è tutto della realtà e del sentire, mai di un “altrove” di natura misteriosofica. È più novecentesco di quanto sembri, De Angelis: novecentesche le disarticolazioni del discorso, novecentesche l’oscurità dei nessi, novecentesco la sensazione d’insieme di una lingua frantumata da un cataclisma, che attraverso la poesia tenta di rifarsi canto, discorso, unità della realtà. Dico questo anche pensando alle opere successive, che effettivamente recuperano chiarezza, discorso, coerenza “narrativa” – e penso a quel vertice assoluto che è Tema dell’addio, e non solo per l’argomento trattato, anzi. Lo stile delle sue poesie è sempre caldo, passionale, febbricitante – scapigliato, si vorrebbe dire. Si farebbe torto a considerarlo un sapiente, un “santone”, come pure qualche epigono, e sono tanti, tende a fare. Non so quale sia la filosofia di De Angelis, ma sento che a muoverlo è una bruciante fraternità, e sento che tutte le sue “oscurità” sono buone, non cattive, mai aggressive. Io penso che De Angelis abbia percorso fino in fondo (“fino al margine della coscienza”), almeno agli inizi, una poesia che non poggia su niente, se non sulla “fede” per la stessa poesia. I versi di Somiglianze sono continuamente spezzati da sbalzi di significato e da accostamenti inauditi, per cui spesso il lettore si ritrova smarrito, sospeso, senza appoggi. Inutile stare lì a isolare versi che affermano chiaramente un pensiero, un’immagine: è un lenimento che dura poco; immediatamente prevale la sensazione di non sapere dove ci si trova, cosa si sta dicendo, a che punto è “il discorso”. Nella poesia di De Angelis non “c’è niente di intero”, “si fallisce sempre / a un soffio dalla sintesi”, tuttavia il poeta continua a cercare la realtà, continua a parlare agli altri, continua a esortare, anche se non si sa mai bene cosa. La sua è una lotta, ecco: una lotta per riacciuffare la realtà al termine della realtà. Credo che nessuno abbia mai usato la parola “realista” a proposito della poesia di De Angelis, eppure io sono convinto che De Angelis stia pienamente nella realtà, anche se il suo modo di restituirla in poesia è di una tensione e di un sentire vertiginoso – di chi, molto semplicemente, vorrebbe che la poesia fosse il luogo più profondo e concentrato della percezione del reale. La Musa di De Angelis è più terrena di quanto si pensi: è nascosta nell’asfalto, tra le lenzuola di un albergo, in un parco urbano, in un corpo amato. È tutta nell’“aldiquà” la sua poesia, anche se il suo canto ammalia – inutile negarlo – come chi parrebbe possedere le combinazioni giuste, le giuste parole per spalancare le porte dell’“aldilà”.
Andrea Di Consoli
*In copertina: Milo De Angelis in un ritratto fotografico di Viviana Nicodemo, 2017
**“Mentre tutto cade” ha raccontato una poesia di: