22 Febbraio 2018

Emanuele Ricucci: “Stanno castrando il pensiero critico”. Il manifesto contro l’arte imbecille

Di fronte a certe manifestazioni dell’arte contemporanea vi sentite ingannati? Il perbenismo che porta alla censura di certe opere, come successo nei casi di Schiele, Balthus, e la Carmen, vi dà l’orticaria? Vedere centri quali Pompei che si sgretolano giorno dopo giorno, nell’incuria generale dello Stato, vi risulta insopportabile? Non siete i soli. Dalla vostra parte avete anche tre studiosi, Vitaldo Conte, Dalmazio Frau, ed Emanuele Ricucci che, esasperati come tutti, hanno fatto la sola cosa che – forse ancora per poco – è permesso fare a degli intellettuali indignati: scrivere un libro contro i mali imperanti che attanagliano il circuito artistico attuale. La miscellanea in questione si intitola Antico Futuro – Richiami dell’Origine, Solfanelli Editore, 2018. Titolo impegnativo, quasi ossimorico, per un testo denso, dal piglio iconoclasta e antagonista, alieno alle reticenze del politicamente corretto. Abbiamo intervistato a tal proposito Emanuele Ricucci, coautore del testo e già giornalista presso Il Giornale e Il Tempo. Una cosa è certa, ha parlato fuori dai denti, senza mandarla a dire. Perché “l’arte non è portare la famiglia al museo la domenica, è racconto della vita di tutti, fotografia del nostro tempo”.

Partiamo dal concetto di antico futuro che dà anche il titolo all’opera.

antico futuro.inddAntico futuro è un’antica provocazione, un modo per creare un ponte tra più dimensioni: presente, passato, futuro (quelle in cui viviamo, abbiamo vissuto e vivremo per sempre). Antico futuro è una sorta di richiamo a uno stadio del ritorno verso una dimensione umana più sostenibile, in questa fase in cui stiamo precipitosamente andando verso un auto annullamento. Antico futuro è un modo di considerare il passato nel futuro, non in maniera conservatrice, archeologica, ma da esploratori. Si tratta di andare verso ciò che sarà come barbari sognanti, come degli avanguardisti stronzi (stronzi perché sanno cosa troveranno, ma lo faranno lo stesso). Noi vogliamo quindi andare avanti avendo cognizione di tutte le dimensioni che ci riguardano, non solo della presente, ma di tutte quelle trascorse. Non si tratta di un’accettazione aprioristica di ciò che è stato. Non ci può essere progresso senza una revisione di noi stessi, senza una conservazione intelligente ed elastica. Antico futuro è lo stato del ritorno e la via d’accesso, allo stesso tempo. Antico futuro è un ponte, un angulus oraziano in cui riscoprire il pensiero critico, rallentare la velocità siderale di questi tempi. Un augurio e una meta, in cui ritrovare il significato dei gesti, delle parole, dell’estasi, della felicità.

Vorrei giungere alla questione dell’arte, che mi sembra capitale nella discussione portata avanti nel saggio. Tu tracci uno spartiacque, per cui questa diventa altro da ciò che è sempre stata. A che punto della storia avviene ciò?

La mia tesi, condivisa da tanti più grandi di me, fa risalire tutto ai primi anni del ’900 e a opere quali L’orinatoio di Duchamp. Da allora l’arte non è più il luogo, ma un luogo. In precedenza era stata l’ambito della Bellezza, dell’Armonia, anche della disarmonia, ma con una giustificazione storica e culturale. Era il luogo del sacro e della trasgressione, dei linguaggi sminuzzati da riproiettare per essere il tempo, continuo, eterno. Così vi era il rito, la carnalità, l’eros, la paura, il corpo, Dio. Era un luogo di prossimità tra il mondo onirico e il mondo umano, era tante bellissime cose. Non c’era il capriccio elevato a sistema. Non c’era l’art system che ha portato a un matrimoney tra arte e commercio.

Eccoci al punto! A un certo momento, l’arte subisce un influsso nefasto, il mercato. Non è più legata alla società e all’influenza che ha su di essa, se non per suo tramite. Dico bene?

Citando Angelo Crespi: “l’arte oggi vale perché costa e non costa perché vale”. Così ti ritrovi, come è successo anche a me qualche volta a un vernissage, con i radical chic intenti a bere vino, per vedere un’opera di cui non capisci un cazzo. Oppure, il significato di questa è semplicissimo, ma l’autore è sormontato dall’art system che ne avvalora l’operato, lo eleva senza merito, lo ammanta di silicone e prestigio, di mignotte, amplifica il suo vuoto. È una caratteristica di questo tempo che alleva ogni capriccio e lo innalza a diritto. Sì tratta di solito di un’arte che dura poco, per cui non si sarà ricordati, che segna il distacco dalla società e dai suoi linguaggi, per mezzo del mercato. Quest’arte contemporanea è tutto e niente, è legata soprattutto al processo di godimento immediato, come una bustina che si scioglie nell’acqua e ti dà un piacere istantaneo.

L’arte, oramai, è niente di più che la proposizione al pubblico del proprio narcisismo?

foto 2 (6)Non sempre. Anche se, purtroppo, la contemporanea in massima parte è diventata questo. Poi, ci sono alcuni artisti menzionati nel libro, come Giovanni Gasparro (capace di proporre soggetti sacri, corpi, archetipi, metafore, il tutto in una chiave pittorica moderna, con linguaggi di ieri e il dinamismo di oggi, praticamente un antico futurista), o lo scultore Jago, che sono invece da prendere d’esempio, perché stanno salvando l’arte. Attraverso loro, essa si rinnova riconnettendosi con il tempo che fu.

Un altro aspetto che mi ha colpito molto nel tuo saggio, rimandandomi al John Dewey di Arte come esperienza, è la questione “museo”. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, ovvero che il museo semplicemente salvaguardi l’arte, in realtà la estromette anche dal contesto urbano e sociale, rendendola di nicchia. Mi sembra sia, in parte, quello che dicevi anche tu?

Certamente. Il discorso si riconnette alla necessità dell’arte di essere il luogo e non un luogo. Basterebbe anche guardare alla bruttezza, per esempio, delle nuove chiese di oggi, rispetto a quelle costruite in passato. Assomigliano più a un museo che a un luogo di culto, in ciò sottolineando il distacco dell’uomo dal sacro, dalla tradizione cristiana e dalla sua simbologia. Ancora nel ’68, con la fantasia al potere, l’avversione all’autorità, e nel parlare a una generazione, l’arte poteva avere una connessione con il sociale. Dall’altra parte, però, il ’68 ha generato quel movimento radical chic che oggi la sta relegando nei musei, la sta “nicchiando”, usandola come arredo per un ghetto. Certamente, soprattutto per l’arte antica, la conservazione è fondamentale. Anzi, l’effetto museo molte volte sarebbe necessario, se pensiamo per esempio a Pompei e a tante altre realtà italiane abbandonate che si sgretolano lentamente, come castelli, chiese, roccaforti e tante situazioni artistiche a cui non si riesce più a stare dietro. Però, in senso più ampio, questa necessità di musealizzare, non sta aiutando l’arte a riprendersi il suo ruolo in società, riducendola a un qualcosa da andare a vedere la domenica. L’arte è storia degli uomini, attraverso cui si produce un significato che deve andare bene per il mondo e non qualcosa che alimenta il proprio narcisismo e che sia quindi unicamente destinato a finire in un museo, creando un distacco, arredando un ghetto. Specie oggi in cui si cerca di tagliare le teste di uomini e donne, nel tentativo di annullare un pensiero critico individuale e collettivo.

Che strategia suggerisci per uscire da questa impasse?

cattelanIo e gli altri autori, in questo testo che è manifesto, invettiva, j’accuse, non abbiamo trascurato di proporre anche una pars construens. La nostra idea è un ritorno alla bellezza e all’armonia, alla bottega artigianale, al sacro, al contatto degli uomini con il loro spazio, con la comunità. Noi, oggi, viviamo una sorta di surrogato nascosto dal velo di Maya, per cui si ha il Pollock da una parte, Guttuso dall’altra, il vernissage, il cesso d’oro che si chiama America di Maurizio Cattelan, un esempio di arte imbecille, una cosa molto semplice, di una semplicità destrutturante, superficiale. In un’opera del genere si perde il contatto con tutti quegli aspetti quali la tradizione, il sacro, l’amore, l’eros. Nella realtà contemporanea, è palese l’assenza di un’effettiva direzione. Pensa alla volontà di mutare il finale della Carmen, un gesto attraverso cui l’uomo narcisista contemporaneo voleva mettere la sua virgolina nel grandissimo libro della storia, non inventandosi un’opera che parla del disagio di questo tempo, ma prendendo un capolavoro riconosciuto e cambiandogli il finale, per adattarlo alla noia dei problemi di quest’epoca del cazzo. Al contrario, l’arte sarà una strada per l’antico futuro se recupererà il suo senso archetipico, metaforico. L’arte deve tornare a essere un luogo, un significato. Deve tornare a costituire un ponte dall’antico verso ciò che sarà, per una strada di ritorno a noi stessi, cosa che non accade nel momento in cui Facebook o i musei censurano l’arte, nel momento in cui l’arte censura la religiosità. Bisogna necessariamente andare contro questa corrente.

Per realizzare quello che giustamente tu proponi, per salvare e farci salvare dall’arte, ci vuole l’intervento dello Stato o dei privati?

Ci vuole una cooperazione. I privati hanno salvato tantissime volte l’arte in Italia (vedi il caso della scalinata di Piazza di Spagna). Naturalmente, lo Stato non dovrebbe porre tutti i soliti freni, con una lunga processione burocratica. Che si salvi quella piazza, quel monumento, simbolo da secoli di una comunità e intorno al quale questa si ritrova, è un’urgenza antropologica e culturale per la quale non si può attendere. Quindi, se non ha i soldi per intervenire nel vastissimo patrimonio artistico culturale, deve per forza lasciare spazio ai privati – che sarebbe il caso di smettere di vedere come demoni. Se poi investono dei soldi, è bene anche che ne guadagnino. Certo, l’importante è che, parliamoci chiaro, non si restauri il Colosseo per metterci dentro un ristorante – siamo già sottoposti abbastanza alle peggiori leggi del mercato, del capitalismo, del globalismo. La mia risposta comunque, ribadisco, è una cooperazione regolamentata da un governo intelligente. E qui mi vien da ridere, perché adesso sarà difficile trovare un governo intelligente e, soprattutto, un governo. A ogni modo, tale sinergia farebbe bene, in particolare in tutti quei piccoli centri di provincia, lì dove un certo bene culturale è anche il centro della comunità. Ecco questa è l’idea di arte che ho io: un luogo all’interno del quale vive la comunità.

Quanto risente l’arte di questa mentalità imperante del politicamente corretto?

Spaventosamente. Il politicamente corretto, in quanto regime, agisce sui significati, agisce sulle cose più semplici, individualmente, culturalmente e collettivamente, depotenziando la capacità degli uomini di essere sempre migliori. Il politicamente corretto, poi, parla di progresso, quindi una condizione di miglioramento generalizzato, che ovviamente non c’è. Portando la fibra nel paesino in cui prima c’era il castello non è detto che vi sia un ammodernamento delle condizioni di vita. Se il castello, che era il centro della comunità, va a puttane, ma c’è la fibra, il rapporto è comunque sbilanciato. Il politicamente corretto sta irreggimentando l’arte, portandola alla castrazione. Questa censura pesa sulle riforme istituzionali, culturali, sulle opere censurate nei musei, nel metrò di Londra, all’Opera (penso sempre al finale della Carmen), sui social e così via. La stanno sterilizzando l’arte, mentre cercano di sopprimere la necessità dello sviluppo di un pensiero critico individuale, di un pensiero collettivo. La cosa più grave è che noi non stiamo rispondendo con il pugno duro, non ci stiamo contro-organizzando, non stiamo cercando di sovvertire questo sistema imperante. Dovremmo organizzare mostre alternative contro la censura. Dovremmo capire che non c’è soltanto l’accettazione acritica di un destino già scritto.

Matteo Fais

Gruppo MAGOG