Tradurre si chiama il modo con cui i poeti dialogano con i morti, dunque con se stessi. Trapiantare quella lingua che fu in questa, la mia – così la morte vivifica la vita, e un bagliore verbale vergato secoli fa rivive, oggi, bruciante – che gesto di sedizione alle mode, di dedizione. Il poeta, infine, raffina la propria identità linguistica irrompendo – con delicatezza o con ferocia, come una gazza o come una fiera – nella lingua di un altro. Dante rifà Ovidio e Virgilio come Ezra Pound e Thomas S. Eliot rimasticano Dante, come Seamus Heaney, magnificamente, medita Virgilio, come Iosif Brodskij riconosce in Orazio un padre. Il linguaggio, in fondo, è una concatenazione di alfabeti, per questo, quando si ama un poeta, se ne seguono le tracce tra le alberature di chi ha tradotto. Non soltanto i lirici di Salvatore Quasimodo, ormai memorabili: è bello leggere Pasolini attraverso la sua versione di Eschilo e di Plauto, capire Edoardo Sanguineti attraverso il suo Euripide e il suo Petronio, valutare le coincidenze tra Mario Luzi e William Shakespeare, tra Giovanni Giudici e Aleksandr Puskin, tra Giuseppe Ungaretti e William Blake. In questo convegno, un ruolo del tutto particolare svolge Alessandro Fo, che è poeta – esordio organico con Otto febbraio, per Scheiwiller, nel 1995; con Mancanze, Einaudi 2014, ottiene il ‘Viareggio’ – e latinista (per l’Università di Siena), pratica, cioè, la traduzione non solo come palestra linguistica (le traduzioni dei poeti spesso sono folgoranti, ma troppo spesso restano vaghe e in fondo filologicamente dimenticabili) ma con perizia ‘professionale’. Per dirla in altri termini: all’ispirazione del poeta unisce la sapienza del latinista. Così, grazie a Fo abbiamo una indimenticabile traduzione del Ritorno di Rutilio Namaziano (Einaudi, 1992) e soprattutto una versione magistrale dell’Eneide di Virgilio (Einaudi, 2012). A questa scalata, micidiale, Fo ne somma un’altra: per Einaudi, nella ‘Nuova Universale’, ha appena licenziato la traduzione delle Poesie di Catullo. Si tratta, nello stesso tempo, di un lavoro immane (1320 pagine di testo e di annotazioni – contando che le poesie, in sé, con testo a fronte, occupano 327 pagine – più 150 di Introduzione, Nota al testo e Nota metrica), ‘affettuosamente’ coinvolgente (“Ognuno, si sa, ha i suoi poeti. E non posso non riconoscere che Catullo occupa un posto importante fra i miei”), avveniristico (Catullo è stato tradotto da tantissimi: da Quasimodo a Ramous, da Ceronetti a Paduano e Canali…). Dopo tutto, è Catullo, inafferrabile come l’ossessione di cui scrive – l’alchimia d’amare – a parlarci ancora, toccando, “È difficile, un lungo amore, deporlo all’istante./ È difficile: eppure, sia come sia, devi farcela./ Questa è la sola salvezza, per vincere fino in fondo”. Tra le tante ipotesi felici di questo libro che è un vero avvenimento culturale, segnalo l’intuizione intorno alla poesia 51, costruita come un ‘botta e risposta’, secondo Fo, tra Catullo e la sua amata leggendaria, Lesbia (“a mio parere la ‘strofa dell’otium’ non va – o per lo meno non va pienamente – assegnata a Catullo, ma va pensata nella prospettiva di un frammento – l’unico – di Clodia-Lesbia”), che lo rimprovera, “L’ozio a te, Catullo, procura danno,/ l’ozio troppo ti esalta e fa smaniare…”. (d.b.)
In sede introduttiva dici, in fondo, che Catullo è il ‘tuo’ poeta. Come mai? Quando è nata l’impresa di tradurlo e come si è sviluppata, visto che parliamo di un tomo ‘mostruoso’ di oltre 1300 pagine, dove il poeta si alterna al certosino latinista?
Ho sempre amato Catullo, fino dai banchi del ginnasio, sui quali mi sembrava una delle poche voci che schiudesse un po’ di umanità in mezzo alla selva di compiti grammaticali e altri grigiori. Via via nel tempo, per puro piacere personale, ho tentato qualche traduzione. Poi, nel 2012, subito dopo la pubblicazione dell’Eneide presso Einaudi, mi trovai alle prese con un grave incidente di salute. Mi ripromisi che, se fossi riuscito a uscirne, avrei tentato questa piccola ‘impresa’. Mi riservavo anche di curarne personalmente le note, per cogliere l’occasione di esporre alcune mie idee personali. Poi, strada facendo, mi sono accorto che la mole di problemi era immensa – e ne è scaturita di conseguenza la parallela mole degli apparati.
Catullo è la donna che canta, Lesbia, e l’esperienza d’amore come definitiva, centrale, assoluta (“Catullo, tu, infelice, la follia lascia/ e, ciò che vedi perso, dàllo per perso”), pur con tutta la retorica ironia del caso. Che tipo di innovazione lirica porta Catullo, tanto da renderlo indimenticabile, ancora oggi, mitico, direi?
Non è facile dirlo in due parole, specialmente alla luce del complesso dibattito che si è sviluppato sulla sua figura e che ho cercato di ripercorrere nell’introduzione. Al di là delle varie posizioni di maggiore o minore prudenza che si possono prendere rispetto al testo che abbiamo di fronte, direi che in queste poesie si impone con straordinaria autenticità e immediatezza una voce che – oltre a rappresentare con brillante vivacità vari altri aspetti della vita – tocca con singolare penetrazione psicologica tutti i tratti essenziali di un’esperienza cruciale per tutti, in tutti i tempi, come quella amorosa. Il suo passo ‘diretto’ e direi confidenziale nei riguardi del ‘pubblico’ (un tempo la cerchia degli amici, ora ciascuno di noi lettori personalmente preso) riduce con naturalezza ogni distanza, e ce lo mette accanto come un intelligente, simpatico, affidabile, compagno dei giorni, antico e nel contempo ‘come noi’.
Entro nel lavoro del traduttore. Che lingua hai trovato per il ‘tuo’ Catullo? Intendo. Al di là del tuo linguaggio lirico specifico e della perizia degli studi, hai trovato una tesoreria linguistica in altri poeti? Ricordo che per tradurre alcune parole dei Salmi mi servì molto il confronto con una lingua sporca e arcana come quella di Albino Pierro, ad esempio…
Non ho seguito, in realtà, una particolare strategia prefissata, ma mi sono affidato alla corrente dei carmi e alle loro escursioni lessicali e tonali (dalla brutale scurrilità – ma adibita sempre con intelligenza – alla più lambiccata raffinatezza), tentando soprattutto di non tradire troppo. Ogni traduzione è una rosa di compromessi. Ho cercato di mantenere il più possibile il testo d’arrivo nell’orbita di un italiano di oggi che non suonasse troppo letterario (e, più in particolare, di rimanere nei binari di una metrica impervia senza che il linguaggio venisse sacrificato a ragioni appunto prosodico-metriche).
In cosa consiste l’attualità della coscienza d’amore di Catullo? In che modo, intendo, dilata la nostra conoscenza dell’amore?
Non so dire se davvero la dilati; certo – a mio modo di vedere – il sismogramma della sua storia d’amore, per come ci viene consegnato dalle sue poesie, spazia su tutti i nodi principali di qualunque storia: innamoramento e dedizione totalizzante, ebbrezza dei momenti di una felicità priva di incrinature, screzi, separazioni, l’inatteso dono di una ripresa ormai impensabile, l’investimento sia di proiezione erotica che di affetto, e ancora idealizzazione e delusione, gelosia, incapacità di continuare in una situazione divenuta troppo asimmetrica, dolore paralizzante. In ciascuno di questi poli, e in tutti globalmente presi, qualunque essere umano può trovare – credo – uno spazio in cui rispecchiarsi e trovare detto, in poesia, ciò che ‘avrebbe voluto’ egli stesso sapere esprimere così precisamente, così ‘bene’.
Leggendo i brani più licenziosi di Catullo – per non dire di Marziale – si pensa a una maggiore spavalderia nel dire la nudità, nel raccontare con gioia il corpo in era romana: era davvero così?
Non saprei dire se se ne possa tirare una conclusione antropologica così impegnativa; vi sarebbero molti distinguo da operare guardando a tradizioni di generi poetici, e a orizzonte sociale di osservazione: che nei poeti d’amore romani tende per lo più a concentrarsi su una vita galante di relazioni fra figure di secondo rango, come amasii o amate di condizione servile, prostitute, liberte, staniere in cerca di fortuna nella capitale, e così via. Una certa ‘libertina’ libertà è da mettere in conto (basta pensare anche a Ovidio); ma anche, nel contempo, da osservare nel suo specifico contesto ‘genetico’, senza farsi tentare da troppo rapide generalizzazioni (basta pensare alla relegazione con cui Augusto colpì Ovidio – fosse o meno un pretesto per nascondere altre sue ‘colpe’).
Vorrei domandarti qualcosa sull’eredità della tradizione. Charles Wright, tra i grandi poeti viventi, ricorderai, si scopre poeta leggendo Pound a Sirmione, dove Catullo aveva la villa di famiglia. Insomma, la forza della parola poetica è senza tempo e i poeti del passato ancora agiscono, con brio, nel presente (ennesimo esempio è il Virgilio di Seamus Heaney): è così? A volte mi pare che i poeti contemporanei fuggano il contatto con i grandi ‘classici’, ma forse il mio sguardo è distorto. Nella domanda è implicito un giudizio sulla cultura italiana attuale.
Non credo si possa davvero fare un discorso generale in merito. Inclino a ritenere che qualunque poeta dotato di una certa cultura non possa evitare di fare i conti con certi archetipi e certi motivi che i classici hanno comunque depositato. E poiché ciascuno di noi è innanzitutto ciò che ha letto e che legge, una traccia dei classici, anche come ‘rumore di fondo’ (per dirla con Calvino), prima o poi non può fare a meno di affiorare. Poi le singole voci possono lasciarle più o meno spazio. Quanto osservi è per certi aspetti abbastanza vero, ma nell’Italia di oggi ci sono anche voci che invece rivelano, magari per singoli bagliori, un contatto continuo con quella lezione (anche pensando alla fortuna di Catullo, cito le prime che mi vengono in mente: Fernando Acitelli, Anna Cascella, Paolo Lanaro, Claudio Pasi, Silvio Ramat…)
Estrapola un verso di Catullo che ti pare esemplare, dimmi perché?
Compito difficile, anche perché bisognerebbe intendersi sulla direzione di questa esemplarità. Tornando al discorso delle traversie amorose, potrei forse scegliere una ‘massima’ del carme 76 (v. 13): difficile est longum subito deponere amorem (che ho tradotto “È difficile, un lungo amore, deporlo all’istante”). La trovo icastica, perentoria nella sua elegante formulazione (con l’attrito di quel longum accostato a subito), profondamente vera. (E riguarda anche un po’ il mio personale amore per Catullo, quello che mi ha sorretto nell’occuparmene, appunto, così a lungo).
…dopo Rutilio, dopo Virgilio, dopo Catullo, cosa desideri tradurre?
Al momento mi sento abbastanza ‘esaurito’. Comunque, in prospettiva, e chissà se, come e quanto, un altro testo con il quale mi piacerebbe misurarmi è di nuovo in Virgilio, e sono le Bucoliche.
*In copertina: John William Godward, “When the Heart is Young”, 1902