“Io non sono M.M.”: Marilyn Monroe, poeta
Poesia
Elisa Gonzalez
Il 1 gennaio 1940, Eleanor Copenhaver Anderson, nel suo diario, fotografa l’immagine del marito Sherwood che “scrive all’impazzata”. Aveva cominciato ad abbozzare un ritratto di John Emerson, poi bruscamente interrotto per dedicarsi alla stesura del racconto “Italian poet in America”, portato a compimento in una manciata di giorni. Il ritratto, stavolta, è dedicato al poeta Emanuel Carnevali.
Anderson lo conosce a Chicago alla fine degli anni Dieci e resta folgorato dallo spirito autodistruttivo dell’italiano. “Giacevo a letto, straordinariamente tetro, e un giorno mi venne a trovare Sherwood Anderson con la sua bellissima moglie; mi portarono della frutta, uno splendido pompelmo. Ricevere un regalo da un tale uomo mi sembrò una cosa sconvolgente e, con loro, mi stordii di chiacchiere. Ma per tutto il tempo che continuai a chiacchierare, mi accorsi che loro due non prestavano molto credito al mio strano modo di essere. Mi giudicavano melodrammatico, un commediante, sconveniente in tutto” – ricorda il poeta ne Il primo Dio.
Nel ritratto da lui tratteggiato, Anderson – come racconta Walter B. Rideout in Sherwood Anderson, A Writer in America, Volume 2 (Univ of Wisconsin Press, 2007) – lo dipinge come un uomo ossessionato dalla poesia e dalle donne, che al contempo attrae e spaventa, necessarie ai suoi sfoghi poetici e sessuali – “Sapevo che avrei potuto amare fino alla violenza, che avrei potuto stringere una donna fino a farle uscire l’anima”. Ma a scuoterne le poetiche viscere è anche il feroce odio verso il padre – motivo nodale della sua fuga transoceanica. Solo l’amore di una donna, però, gli consente di sentirsi ‘un grande poeta’ – afferma. Afflitto dalla sifilide – assiduo frequentatore di case di piacere –, Carnevali s’ossessiona con la percezione di una morte prossima e l’idea che nella sua esigua esistenza “non avrebbe mai scritto la poesia perfetta”.
Nel folto di una notte vetrificata dalla neve, si presenta “malvestito” a casa Anderson e, mentre rifiuta l’offerta di un cappotto, corre a immergersi nella tempesta, fuori di sé, per poi essere rinvenuto in ginocchio, imbiancato, sulla soglia della casa dove lavorava la sua amante, gridando a Dio di salvare l’anima di entrambi. Viene così tradotto in ospedale, esonerandosi materialmente dalla vita dello scrittore americano, ma mai dalla sua memoria; Anderson si convince infatti che in questa “avventura” notturna, Carnevali abbia imbracciato “la via del suicidio”.
L’autore che ispirerà poi la narrativa di Faulkner e Hemingway, con i suoi ritratti collegati di Carnevali ed Emerson, voleva presumibilmente mettere in scena – avanzò la moglie Eleanor – l’idea dell’ossessione artistica che muta in sfumatura grottesca, arrivando a sospingere l’uomo verso la perdita del proprio talento e di se stesso.
“Mi vennero a trovare Tennessee Mitchell e suo marito, e Sherwood Anderson, ma io non riuscivo a pensare ad altro che alla notte in cui mi aveva cacciato di casa” – al capitolo Convalescenza dello stesso romanzo, Carnevali propone la sua versione di quella notte. E ancora, una volta fuori dalla casa di cura privata in cui gli amici sovvenzionavano il suo soggiorno: “La primavera era tutto un lievito, tutta un movimento, tutta una frenesia di danze e di ritmi, tutta nuova e pulita. Indossavo un bel cappotto, dono di Sherwood Anderson, che mi conferiva un’aria romantica. Anderson mi diede anche un bastone, che mi serviva per stare in piedi e per camminare, e col quale mi divertivo a far l’elegante” – del poeta fiorentino, roso dall’encefalite ed emigrato in America, fino ad approdare al prestigio di Poetry, l’editore readerforblindpubblica la silloge L’ultimo maledetto, che vede insieme Il primo Dio, un florilegio di racconti e alcune lettere indirizzate a Benedetto Croce, Giovanni Papini e Carlo Linati.
Credeva ‘nel verso libero’ e voleva diventare un poeta americano, Emanuel Carnevali. Come l’amico William Carlos Williams, che nella propria autobiografia renderà omaggio a ‘Em’ con alcuni aneddoti. Dell’italiano che guadagnava da vivere come lavapiatti in un locale newyorkese – prima d’involarsi sulla rotta poetica di Chicago e abbandonare la devota moglie, Emily, con la quale dimorava in un’angusta stanza sulla Tenth Avenue – ricorda una cena a base di polentae baccalà, insieme alle rispettive consorti, con ipnotico affaccio su uno scalo merci e sul volto scarno di Em. “Lui era longilineo, magro, un brillante giovane uomo, di un’intelligenza acuta – chiaramente un’anima persa” – scrive in The Autobiography of William Carlos Williams (New Directions, New York, 1967):
“Era la New York al suo meglio, il miglior potenziale in circolazione, da osservare con un groppo in gola, sapendo che quasi certamente era destinato alla distruzione”.
Come Anderson, anche Williams tende ad accostarlo, nelle sue memorie, ad una seconda figura, in questo caso un ‘one-book man’ come lui – i due autori più promettenti di NY. Ne intreccia infatti i ricordi a quelli di John Herrmann. Entrambi avevano dato alle stampe un unico libro – Carnevali, la raccolta di racconti Tales of an Hurried Man (Contact Editions, 1925; nel 2005 Fazi li pubblica in Italia come Racconti di un uomo che ha fretta), suo testamento letterario – mentre Herrmann, per il medesimo editore, il romanzo What Happens (Contact Editions, 1926).
“Erano entrambi giovani, entrambi scrittori nati, entrambi conoscevano le incerte possibilità del narratore in un gioco con cifre a pochi zeri”.
E Carnevali, nella fragilità dell’attimo, accecato dal sogno americano, scia di una cometa, ne confermò a suo modo le impressioni. Alla fine di agosto del 1919, scriveva da Chicago a Giovanni Papini:
“Gli artisti qui non esistono. Uomini solamente. I poeti – un genus scomparso! Incidentally, il poeta è il più perfetto business man!”.
Solo un anno prima, agli stessi, inconsueti ‘business men’, aveva consacrato una manciata di versi, Ai poeti:
Essenze di ogni bellezza popolare,
violini dalle corde vibranti
lunghe, soffici, delicate armonie –
anche se sfiorati dalle ruvide dita del mondo,
anche se sfiorati dalle fredde dita del dolore –
pensate al giorno in cui, dormendo nelle vostre tombe,
sarete svegliati dal tuono delle vostre voci
e dal vento forte e gelido della vostra musica:
poiché nel suolo fertile degli anni
le vostre voci fioriranno mutando in tuono,
la vostra musica muterà in vento che monda e genera.
Fabrizia Sabbatini