“Da giovane le mie ali erano forti e instancabili / ma non conoscevo le montagne. / Da vecchio conoscevo le montagne / ma le mie ali stanche non potevano tener dietro alla visione. / Il genio è saggezza e gioventù”. Edgar Lee Masters, Alexander Throckmorton.
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Capisci che appartieni a un’altra generazione quando ti capita di leggere che ha compiuto 50 anni, che lo hai attraversato – perché i libri si attraversano, non ci sono altre modalità dialogiche – quando eri piccolo o giovane. E che oggi non ne parla più nessuno. Volato via, come nella sua natura.
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Ha spiccato il volo nel 1970. Breve come un battito d’ali (ma ampie come un abbraccio) nella sua semplicità strutturale ha insegnato che la vita ha due direttrici parallele e distinte che, comunque, dialogano: una di natura morale e una più spirituale. Mezzo secolo. Pare ieri, ma è già passato mezzo secolo.
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Una fiaba, ma solo in apparenza. Lo è quando sei adolescente – quando tutto è una favola, quando ogni oggetto e un simbolo e una promessa – ma non quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che inizi ad avere i primi capelli bianchi. Non è la vecchiaia: è la metamorfosi. Ti stai trasformando in lui.
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Bianco, quasi albino. Ma anche nero come Calimero: se guardi le punte delle sue ali, ti accorgi che riassume il Tao. Yin e Yang, la dualità e il dualismo tra il giorno e la notte. In un corpo solo, bellissimo, perfetto. E controcorrente, come ci si sente quando contesti il tuo corpo che sta cambiando. Un salmone in un fiume di cliché.
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Mentre tutti i suoi simili si affannano per trovare il cibo e sopravvivere, lui adora volare e si allena per diventare perfetto nel volo. Stile e forma, apparenza ed estetica. Ma non estetismo: JL è poesia e forma, ricerca dell’autoperfezionamento. Anche per ammirarsi. La bellezza è fascino e mistero. E non va spiegata: va vissuta.
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Un erratico guascone errante, Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach. Anche lui appartiene a una comunità sociale, lo Stormo Buonappetito, che inizialmente lo dissuade: si vola per mangiare, non per fare acrobazie. E lui, per evitare di essere escluso, si adegua. Poi però quella vocina che ha dentro si fa risentire, dapprima come un bisbiglio, poi con tonalità baritonale: insegui l’estremo, disegna acrobazie rinascimentali, osa.
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L’invidia la impari non da piccolissimo ma da piccolo quando chi ti è vicino si accorge che non sei allineato. Il Consiglio degli Anziani decide così di esiliarlo: ha tradito (e quindi tradotto) l’essenza, la natura del gruppo. Ha lasciato da parte il richiamo della natura per inseguire il suo. Con tenacia e caparbietà, Jonathan dà ascolto alla sua necessità e si trova a frequentare le scogliere solitarie dove va a lezione da Eolo e impara a conoscere il vento. Per migliorarsi, certo, ma anche per vivere. Divenuto anziano dopo gli altri – è questo il potere della libertà – viene raggiunto da due gabbiani, forse più lievi e acrobatici di lui nell’arte estetica del volo, che lo invitano a lasciare la sua tela: oltre l’orizzonte, lì dove finisce lo sguardo e inizia la fantasia e l’immaginazione, esiste un luogo dove potrà volare meglio. Il vecchio Jonathan accetta: la giovinezza lo contagia e quasi per incanto torna a essere bianco e splendente come la luna.
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Il paradiso iniziatico è un’apparenza: come tutte le novità, si presenta al meglio. Poi però si rivela nella sua interezza: lì Jonathan – che intanto è spirato – incontra tanti altri gabbiani che come lui. Tanti simili che hanno vissuto da eremiti a causa del loro sogno di volare per volare. Il gabbiano Sullivan gli apre gli occhi: quello che vede non è l’Eden ma solamente una dimensione transitoria di mezzo, qualcosa di più nobile del Purgatorio ma che non ha ancora la luce del paradiso. Per accedervi, deve migliorare la tecnica del volo. Jonathan capisce che per quanto ci si possa impegnare, non si arriverà mai a essere perfetti e veloci perché il corpo è un limite. Per poter volare liberamente e con estrema rapidità occorre allenare il pensiero.
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Non si sa se Giorgio Gaber l’abbia letto. Di certo l’ha fatto suo, e l’ha fatto planare con maestria unica, sovrapponendo il gabbiano all’impegno politico della sua generazione, finito con l’età. Perché le rivoluzioni si fanno da giovani, in piazza e non seduti su una sedia dopo aver raggiunto il potere. “Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra, il senso di appartenenza a una razza, che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita. No, niente rimpianti. Forse anche allora molti, avevano aperto le ali, senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora, ci si sente come in due. Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra, il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo”.
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Il gabbiano Jonathan Livingston è una ninna nanna. Non per dormire. Semplicemente per sognare.
Alessandro Carli
*In copertina: un disegno di Mervyn Peake