Elsa Triolet era di una bellezza inquietante, pronta alla vendetta, all’erta, di chi ha tutto per non accontentarsene. Nata a Mosca nel 1896, fu baciata da una vita eccezionale, esemplare; si può dire che con aggressiva grazia Elsa ha fatto la Storia – per lo meno, ne ha sentito da vicino il fetore da drago in fiamme. Si chiamava Ella Kagan, userà, ogni tanto, lo pseudonimo di Laurent Daniel, era figlia di una pianista di talento, Elena Berman, e di un avvocato, Yuri, esperto in diritto d’autore. Ispirata alla rivolta, aristocratica della rivoluzione, in Russia conobbe tutti: fu amica di Boris Pasternak e di Roman Jakobson, fu avviata alla scrittura da Maksim Gork’ij. Stava alle calcagna della sorella più grande, Lili, sposata a Ossip Brik, con cui spesso si scambiava amori e amanti. Il primo, deflagrante, fu Vladimir Majakovskij – lo conobbe nel 1911, ci voleva poco per innamorarsi della superstar della letteratura russa. Il poeta, tuttavia, dopo anni di flirt, preferì a Elsa la sorella, Lili, che incontrò nel 1915. Lei, allora, ripiegò per André Triolet, alto ufficiale francese di stanza a Mosca, erede di una ricca famiglia di Limoges, con cui si trasferisce a Parigi, poco dopo la Rivoluzione. In Fratelli separati. Drieu-Aragon-Malraux (riedito da Settecolori, 2021), Maurizio Serra offre un ritratto inciso su bronzo di Elsa: “Senza possedere la bellezza leggendaria della sorella, ammaliò da giovane e da vecchia molti interlocutori: uno sguardo di ghiaccio in un viso di porcellana, un commissario politico avvolto in abiti di taglio severo ma elegante. Al di là dell’anima russa, che tanto ha turbato l’Occidente negli ultimi due secoli, giocava in lei l’appartenenza all’intellighenzia ebraica, elemento motore della rivoluzione e del legame tra bolscevismo e avanguardia”.
Dopo un anno a Thaiti, il matrimonio di Elsa, canonicamente, sfumò: divorziò dal marito nel ’21, voleva la fama, mirare alla gola della vita, ai templi dell’arte. Ci riuscì. Rifiutò molti – tra cui le avance di Viktor Šklovskij, all’epoca inviso al regime sovietico – fino ad arpionare Louis Aragon, con cui ‘fondò’, si può dire, una delle coppie più influenti, invidiate, inviolabili del secolo. Si conobbero nel ’28, convolarono a nozze nel ’39: li legò, in assoluto, l’impegno, letterario e politico. Furono gli alti papaveri della sinistra alla francese, sovietizzata: negli anni Trenta compirono il viaggio ‘di regime’ in Unione Sovietica – ma lei, dal 1938 comincia a scrivere in francese, visto che i suoi libri in Russia non passano –; neanche nel 1952, dopo l’ennesima gita nei paesi socialisti (conditi da melliflue onorificenze pubbliche), quando tutto si sapeva dello stalinismo, mostrò di indignarsi, se non in privato (“Eppure, sono così estranea a queste inquietanti celebrazioni: continuo il mio viaggio interiore, guardo cose diverse da quelle che mi mostrano”). Alcuni dicevano che fosse una spia, visto il granitico credo nelle sorti dell’Urss; altri malignavano che faceva moda.
Aveva tradotto in russo Viaggio al termine della notte di Céline insieme ai libri del marito; in francese voltò, per Gallimard, molti libri di Čechov, autore che gli era particolarmente congeniale, Šklovskij, una antologia di poemi di Marina Cvetaeva, e soprattutto Majakovskij. Fu per lui, probabilmente, a difesa del destino di un rivoluzionario maciullato dalla Rivoluzione, che ebbe qualche tentennamento. Nel 1957 pubblicò Le Monument, un libro in cui, pur travisate dalla finzione romanzesca, Elsa avanza diverse critiche verso l’utopia sovietica: l’ipotesi che l’artista sia la voce della “nuova società” vacilla. Fatto è che quell’anno Elsa si ‘licenzia’ dal Comité national des écrivains, gruppo culturale organico al Partito comunista francese, lavora per far pubblicare Aleksandr Solženicyn in Francia, appoggia le denunce antisovietiche di Andrej Sacharov.
Donna totale, totalitaria e inarginabile, fu tra i ranghi della resistenza, durante la Seconda guerra; nel ’46 seguì, per “Les Lettres françaises”, la rivista fondata da Jean Paulhan, il Processo di Norimberga; l’anno prima, con Le premier accroc coûte deux cents francs, era stata la prima donna a vincere il Goncourt (dieci anni dopo sarà la volta di Simone de Beauvoir). Morì nel 1970, poco prima dell’estate; Aragon la seguì molto dopo, nel Natale del 1982. Riposano insieme, a Moulin de Villeneuve, la dimora privata, nell’Île-de-France: sulla tomba c’è una lunga frase di Elsa, che dice, tra l’altro, “I morti sono indifesi. Allora resteranno i nostri libri, incrociati, nero su bianco, mano nella mano, a opporsi a chi vuole separarci”. Pare una minaccia.
Elsa scrisse moltissimo, “non è stata una cattiva scrittrice” (Serra), e molto è ancora nel catalogo Gallimard. In Italia non è mai passata: nel 1948, più per dovere di cronaca (politica) che altro, Einaudi pubblica come Gli amanti d’Avignone una raccolta di racconti; nel 2000 Archinto ha stampato come Ti bacio una due tre volte l’epistolario di Elsa con Majakovskij, l’amatissimo. Eppure, i suoi libri (Les Manigances, per dire, il Journal d’une égoïste) sanno sedurre, irti di enigmi, di maculate provocazioni. Con il trittico “L’âge de nylon” – topos francese: fare di un’era l’idolo e definirne per sempre il turbamento, battaglia nata persa –, edito tra il 1959 e il ’63, cercò di definire la modernità, l’amore consunto dell’epoca consumista, la donna “pronta al rischio come un uomo, un Icaro femmina”. In verità, l’epoca l’aveva già superata, altre coppie – Sartre-De Beauvoir – resero anacronistico il primato della bella russa e di Aragon. Invecchiò scrivendo – nel 1966 Agnès Varda la onorò con un documentario agiografico, Elsa la rose – morì pronta a tutte le rivoluzioni.
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Si pubblica l’incipit di “Luna-Park” (1959)
Vendevano la casa già arredata. C’erano lillà nel giardino, masse di lillà, a grappoli, pesanti come tralci d’uva. Il droghiere del paese, che aveva le chiavi, litigò con la serratura. L’acquirente lo fissava. Poi gli si fece dietro, entrò in un piccolo androne, varcò la sala da pranzo; le persiane erano chiuse, “Va bene, la compro”, disse, arrivato in cucina.
L’uomo era piuttosto grosso, sarebbe stato anche piuttosto biondo se i capelli avessero potuto urlare la loro tinta: ne aveva quel tanto, intorno alla testa, da disegnare un’aureola. Il blu gli riempiva gli occhi, occhi nuovi, nativi, e l’insignificanza delle ciglia rendeva quel blu illimitato. Naso piccolo, piccoli denti bianchi, bocca morbida. Questo era l’acquirente che non aveva tempo per pensare; soltanto un droghiere di paese avrebbe potuto non riconoscere in lui Justin Merlin, il regista. Di solito, un regista è un nome più che un volto, ma Justin Merlin era tanto famoso da diventare inequivocabile: statura possente, aureola dorata, sguardo blu. Aveva appena finito un film. Ancora stordito dai suoni dello studio, con la testa piena di voci, gli occhi che lampeggiavano inquadrature, era fuggito. Disperato come sempre, si domandava come avrebbe potuto trasformare quella storia così poco interessante, quell’argomento sottile da cui non c’era nulla da imparare, quando il mondo era pieno di cose tanto meravigliose da fare… Chissà cosa gli era preso, cosa gli era preso…
Voleva quella casa, a patto che potesse trasferirsi subito, prima di concludere le formalità dell’acquisto. “Parla di formalità, e paga milioni per questa baracca”, pensò il droghiere. Justin si consultava con uno scaltro uomo d’affari: il giorno dopo riuscì a trasferirsi nella casa immersa tra i lillà.
Di sera, scoprì una stanza, il letto era stato preparato dal droghiere: dormì, si svegliò di notte. L’aria, fresca, entrava da una porta, sul patio. Si infilò la vestaglia sopra il pigiama e uscì all’aria aperta. Justin Merlin fece qualche passo sulla terrazza, avvolta in un bitume nebbioso che si trasformava in notte. Domani, domani. Justin andò a letto, si addormentò di nuovo.
Al risveglio, si chiese dove fosse, aveva la spiacevole sensazione di essere capitato per sbaglio nella casa di un estraneo. Forse aveva bevuto troppo. Poi gli tornò in mente la sera, i lillà, il droghiere. L’auto nel garage. La casa che aveva appena comprato. Sdraiato sul letto, Justin guardò la stanza. Calda, tranquilla, la camera sembrava respirare. Chi ha dormito in questo letto per molte notti? Senza dubbio, era la stanza di una donna. La delicatezza delle lenzuola. Lettere. Non riuscì a leggerle.
Elsa Triolet