04 Marzo 2021

Nel segno di Caino. Dialogo con Alessandro Rivali

La pervicacia lirica di Alessandro Rivali è perturbante – il poeta ha lo sguardo meridiano, millimetrico, marziale dello scultore. È uno straordinario scrittore di epigrafi, Rivali: ha mano che non tentenna, maestria della fede notevole, nel bronzo. Conosco Alessandro da vent’anni, ricordiamo sempre le gite al Museo di storia naturale di Milano, dove l’epica è un diorama e il selvaggio rabbia impagliata. Parlavamo di Tacito, di Isaia, dell’Iliade e di tanti poeti amati; Alessandro conosce la strategia militare io le perizie della mistica – oggi ci intendiamo senza parlare. Ho letto tutte le sue poesie: c’è un clangore simile che lega i primi versi, pubblicati nell’antologia Quattro poeti (Ares, 2003), in cui si racconta “l’Europa delle cattedrali e della luce” e “di Ettore, del suo corpo/ rivoltato nella polvere”, agli ultimi (“Gli aghi di luglio nei polmoni./ E solo ieri leggevamo Omero,/ la schiena di Ettore nella polvere”). Alessandro – più simile a un aedo che a un poeta, in grado di far gravitare falò sul foglio – ha ancora quell’attenzione d’acciaio, ferma, e procede, sempre, per distici o terzine: per un poeta è fondamentale scegliere la ‘marcia’ lirica, che indica la possibilità di altitudine, la prossimità a un equatore. Anche i titoli delle raccolte seguono uno schema speculare, necessario, fin nell’articolo determinativo (La riviera del sangue, 2005; La caduta di Bisanzio, 2010; e ora La terra di Caino, Mondadori, 2021). Rivali sembra compiere lo stesso canto, un canto che ha la gravità della gioia, ed è fedele, in modo imperturbabile, generoso e violento, ai propri padri: Ezra Pound (a cui ha dedicato un libro, Ho cercato di scrivere Paradiso, nel 2018, esito di una lunga conversazione con Mary de Rachewiltz), Giampiero Neri (con cui ha realizzato i libri in forma di dialogo Un maestro in ombra e Ritorno ai classici), Eugenio Corti. È come un uomo che attraversa il deserto con una precisa scorta di cibo e rari attrezzi, e sa dosare la fame e l’utile, il tempo dell’assalto, quello dell’attesa. La terra di Caino è un cantiere lirico durato oltre dieci anni: pur per frammenti, per fulminee lacerazioni verbali (“Gli essiccati vedevano il futuro,/ l’ampio estuario che li separava/ ancora da conoscere e amare”), questo libro è un viaggio, ha il periglio dell’epica. Nel viaggio incontriamo Pound e il Libro dei Morti, “le onde del Tigri e dell’Eufrate”, il cimitero di Staglieno (“il regno delle guglie/ sfida la fiamma dei cipressi”): Rivali concentra l’azione poetica su Caino, l’irredento, il fratricida, che “chiedeva perdono,/ sognava una vita nuova”, e trascina il fardello lungo il requiem della Storia, da “Gilgamesh” a “Hiroshima” (così due sezioni del libro), al sepolcro di Ötzi (a cui è dedicata la parte più possente), dai primordi all’avvenire. Ha la fermezza di chi sa usare il fuoco, di chi non lo scambia per il giorno, e mette sotto la fiamma un viso alla volta, senza farsi prendere dalla frenesia lirica, Rivali. D’altronde, è il poeta dalle passioni potenti – non è poeta, per intenderci, che fa del proprio ombelico un divano; mira alto, oltre sé e i propri meri dilemmi urbani – cristallizzate nell’ambra. Sa, ad esempio, che il poeta vive per rispondere all’appello dei morti, sconosciuti: da qui, il vagabondaggio per i sepolcri, il marmo che sanguina, le pietre che pulsano come vene. Indubbiamente, La terra di Caino è il lavoro importante di Alessandro, miliare, la fatica, come si dice, la foce del fato: è un libro scritto sullo scudo, da imbracciare, di cui essere grati, esito di una ricerca paziente – pervicace, appunto – durata un ventennio. Il Caino del libro giunge, infine, “in un estuario azzurro”, dove si profilano i giardini: ha posto frutteti nella sconfitta, ed è quello il premio. Questa, dunque, è la cima, il punto d’estasi, il bianco barbaro, abbarbicato. Ora, per Rivali, può iniziare l’opera. (d.b.)

Intanto: perché Caino?

Raymond Carver, scrittore che amo molto (e il poeta in particolare), era interessato “a quello che la gente riesce a fare per risollevarsi quando è finita a terra”. È una prospettiva che mi ha sempre affascinato, fin da bambino, quando mio papà la sera mi raccontava le storie di Omero e la sua predilezione uno sconfitto come Ettore. E in tempi recenti potrei dire che la poesia su cui sono tornato di più è stata proprio quella di Adam Zagajewskij sulla sconfitta, in apertura della raccolta Dalla vita degli oggetti (Adelphi), specialmente quando scrive: “Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta, / le amicizie si fanno più profonde, / l’amore solleva attento il capo. / Perfino le cose diventano pure…”. Il mio Caino è invaso dalla nostalgia perché ha perso tutto e tutti, tranne il desiderio del bene. Non ha mai visto l’Eden dei genitori, i suoi doni non sono accolti da Dio, e ha ucciso il fratello Abele a causa del tarlo dell’invidia. È un po’ diverso dal Caino della tradizione: si pente presto del fratricidio e inizia il suo lungo esilio nella storia. Le sue notti insonni sono visitate da molti fantasmi e dalla domanda ossessiva se in qualche modo incontrare il perdono.

Da Gilgamesh a Hiroshima: il tuo Caino è un fuggiasco, un vagabondo, un senzadio? Mi piace però che tu dica del tuo legame con la Storia: che valore ha la poesia che s’impregna della nostra cronaca millenaria?

Sì, il mio Caino è grande vagabondo, un solitario nei deserti spirituali della Storia. Vorrebbe legami stabili, ma è perseguitato dalle “relazioni rauche”, vorrebbe amare, ma non ci riesce. Non è però un senzadio, tutt’altro, nelle sue peregrinazioni cerca proprio le orme del Padre perduto. Diventa come Giobbe che cerca Dio nel dolore. Quando il libro era già in bozze, mi sono imbattuto nel Bordone di Pascoli, poesia stupenda che non conoscevo e che ho voluto inserire nel poema perché mi sembrava perfetta per il mio personaggio: “D’allora ha errato. Seco avea soltanto / Il suo bordone. E qua tese la mano, / e qua la porse. E ha gioito e pianto. / E vide il fiume, il mare, il monte, il piano: / tutto: e a tutto era più presso il cuore / di quanto il piede n’era più lontano. / […] E fu tutto e nessuno”.

Ho avuto sempre una grande passione per la storia, in particolare per quella militare, una disciplina a lungo trascurata in Italia, come se fosse ridotta a un gioco erudito di mappe, soldatini e bandierine. Per me invece studiare la storia degli uomini in battaglia è uno zoom potente sul cuore dell’uomo. Di fronte alla prospettiva della morte vicina, cadono tutte le maschere, conta solo quanto di autentico c’è stato nella vita…

Lui è Alessandro Rivali

Ci sono tanti cimiteri, i cimieri dei morti. Ecco: che rapporto ha il poeta con la morte, con i morti?

Come ha scritto Cees Noteboom (il suo Tumbas per Iperborea è formidabile) “tutti i cimiteri sono romanzi”. Per me i cimiteri sono uno straordinario crocevia di storie: per i monumenti, senz’altro, per le fotografie, ma anche per le lapidi che in qualche modo ridonano un mondo che non c’è più. Una parte importante del libro è dedicata a Staglieno, il cimitero monumentale di Genova che conosco bene perché lì c’è la tomba di famiglia. È un luogo di grande suggestione, con scenari sempre diversi: i porticati coperti ricchi di polvere e statue, colline con le svettanti guglie gotiche, la parte protestante avvolta nella natura, i terrazzamenti erbosi in abbandono, il bosco dedicato agli eroi risorgimentali… Caino interroga sempre le ombre in cerca di risposte sull’origine del male.

Chiudi con Margherita di Brabante: perché?

È un monumento di spiazzante bellezza, l’ultimo capolavoro di Giovanni Pisano custodito nel Museo di Sant’Agostino di Genova. La regina Margherita, moglie di Enrico VII di Lussemburgo, che morì giovane, è ritratta mentre esce dal sepolcro per incontrare Dio. Il ritrovamento del gruppo scultoreo è una spy-story che andrebbe raccontata in un libro (il monumento fu smembrato a fine del 1700, se ne persero le tracce, la parte più bella fu ritrovata per caso nel giardino di una villa genovese a fine Ottocento e in anni recenti sono riemersi nuovi pezzi…). Ho avuto la possibilità di vedere la statua da vicino all’Opificio delle pietre dure di Firenze, dove è ora è in restauro. È stata un’esperienza entusiasmante. Nel libro, Caino trova un riparo all’arsura contemplando la bellezza di questa figura: nasce così la sua preghiera finale per ritrovare le cascate e i giardini dell’Eden di cui aveva sentito parlare dai genitori…

Il tuo poema cauterizzato in frammenti a me pare un immenso viaggio, da Eden, dai primordi, dal male all’amore: è così?

È proprio così, La terra di Caino è un lungo viaggio tra ustioni (le morte improvvise, le radiazioni di Hiroshima…) e improvvisi squarci di paradiso (la bellezza dei ghiacciai, la corrispondenza con una donna…). Alla fine, Caino sogna di essere padre: non vuole arrendersi all’inesorabilità del male. È come il buon ladrone che in extremis, secondo la narrazione del Vangelo di Luca così attento ai colpi di scena (il figliol prodigo come l’apparizione di Emmaus), ruba il paradiso quando tutto sembrava perduto.

Ossessivo torna, come fosse il tuo Virgilio, il nome di Pound: perché?

“Ho cercato di scrivere Paradiso / Non ti muovere, / Lascia parlare il vento / questo è Paradiso”: questi versi di Pound mi hanno accompagnato in tutti i 12 anni di gestazione di Caino, era come un basso continuo di riferimento, anche perché sono gli stessi anni del cantiere del mio libro di conversazioni su Pound con la figlia Mary de Rachewiltz. Il mio amore per Pound è nato quando da ragazzo ho scoperto che continuava a cercare la poesia e la verità anche nella gabbia pisana in cui era stato rinchiuso nel 1945: “Ciò che tu sai amare è il tuo vero retaggio / Ciò che tu sai amare non ti sarà strappato”.

Estrai un distico dalla tua raccolta, spiegami perché è significativo e che senso ha, oggi, ancorarsi alla poesia

“Caino non sia soltanto il sangue / versato, ma che veda il perdono”: siamo in un mondo di relazioni opache, in cui l’altro è visto prima di tutto come un nemico: la consuetudine con la poesia (e con la bellezza in genere) e le sue grandi domande può essere d’aiuto per una dimensione più autentica, più intima con noi stessi, chissà forse anche un antidoto all’individualismo da cui siamo circondati.

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