C’è chi trotta col cane – che con mefistofelica abilità riproduce le fattezze del proprio padrone –, chi ha la passione per i pappagalli o va col falco al polso; chi s’intenerisce per i criceti, chi si fa ipnotizzare dalla sagace malizia dei gatti; c’è chi in casa ha un varano o un serpente, icona delle antiche divinità della terra, e chi si vanta d’avere una tigre nel garage. Ma chi può dire di andare vagando con un drago al guinzaglio?
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Rewind. Carlo Mollino è stato un talento esorbitante, tanto che non sai come definirlo. Morì sulla soglia dell’opera per cui passa alla storia: la ricostruzione del Teatro Regio di Torino, corrotto dall’incendio del 1936. Dopo il tran tran di concorsi banditi & falliti, l’opera è affidata a Mollino nel 1965. Il 10 aprile del 1973 il teatro è varato, alla presenza dell’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone, con I vespri siciliani pensati dal duo Callas+Di Stefano. Mollino morì quell’anno, in agosto. L’altro capolavoro, realizzato un trentennio prima, è l’edificio della Società Ippica Torinese.
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Mollino, tuttavia, fu altro, “incorreggibile ragazzaccio”, secondo Bruno Zevi: torinese, nato nel 1905 da Eugenio Mollino, amava l’audacia e la velocità. Guidava gli aerei, sciava con furibonda ispirazione, era sedotto dalle auto da corsa: nel 1955 progettò la Bisiluro 750, “il bolide asimmetrico” pronto a correre a Le Mans. L’automobile pareva uno shuttle, qualcosa a metà tra l’era futurista e la profezia di 2001: Odissea nello spazio. Fece della sua casa un antro egizio, d’esoterismo chic, Mollino, progettò case montane, a Cervinia, a Salice d’Ulzio, ad Aosta, era famoso, tra l’altro, per le “fotografie blasfeme”: donne velate, tra Iside e geisha, mostrano, per allusione, in enigma, le forme. Amava la notte e dormiva di giorno, Mollino, per questo tutta la sua opera ha qualcosa di sonnambulo, di licantropo. A suo dire “l’architetto oltreché un poeta e matematico, dev’essere anche un meccanico, ragioniere, avvocato, becero, maestro di belle maniere, ingoiatore di rospi e charmeur, danzatore con vecchia signora, incantatore di serpenti; pena la morte se rifiuta”.
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La creazione più originale, originaria, inafferrabile, allo stesso tempo leggiadra e aggressiva, di Mollino è il “drago da passeggio”. Un ventaglio di carta, con adeguato guinzaglio, di raffinatezza esagerata, roba da architetto-samurai. Nel 1963 Mollino s’inventa il drago, redige un “Libretto d’Uso e Manutenzione” (custodito nell’Archivio Carlo Mollino al Politecnico torinese e ora edito da De Piante come Del drago da passeggio), lo regala a pochissimi amici (uno di questi animali da favola andò a Carol Rama). Il “Libretto” è adornato da due fotografie, di ambrata bellezza, in cui una favolosa strega, tra trasparenze, mostra dal vivo come s’usa il drago. “Aveva comperato alla Settimana del Giappone svolta a La Rinascente di Milano nel 1963 una dozzina di candidi e stupidi origami in carta di riso, pregustandosi progettista, in un inedito shintoismo sabaudo, di offerta augurale di fine d’anno agli amici ‘più cari e spiritualmente preparati’”, ricorda Fulvio Ferrari in Postfazione.
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Tanto per capirci, ecco uno sketch dal fatidico libretto: “In generale il drago appare presso tutti i popoli in epoche e latitudini diverse, necessario allo spirito. Ignorare il senso del drago è come ignorare il senso dell’Universo: se non esistesse occorrerebbe inventarlo. Nell’I-Ching, il «Libro dei Mutamenti», il drago s’identifica con il saggio. Il drago da passeggio che offro agli amici, originario dell’India, è il noto drago del Panjab, di piccola taglia, di singolare intelligenza e vago aspetto. Il mantello, sempre di prestigiosa decorazione, si adatta congenialmente e all’istante con il paesaggio interiore di ciascun proprietario, dirò meglio compagno, in quanto il drago del Panjab non è né servile, né ribelle e sostituisce senza timor di confronto il cane e particolarmente il cane da signora, il pechinese, forse il più cretino e disgustoso del creato. Al ritmo alterno e plastico del trarre di guinzaglio, in uno col passo, il drago procederà solerte al fianco con dolce frinìre, avvertendo ogni disarmonia d’incesso con particolare ansito; ansito che diverrà sibilo rantolante, caratteristica del drago irritato, quando questi oscillasse appeso per insulsa fretta o addirittura per la pretesa di fargli salire le scale (invece di prenderlo in braccio, come si deve). Le scale, per contro, le scenderà da solo con disinvolta scioltezza e senza saltare stupidamente i gradini. Come la sua precisa velocità, questo apparente contrasto di addestramento fu calcolato ad hoc onde infondere al compagno uno stato d’animo alieno da qualsiasi ansia di rapidità. Il drago ha facoltà altresì di circuitare in loco con armoniosi arabeschi, favorendo così soste e pretesti per ogni discreto volger di sguardo e ancora per avviare «casuali» conoscenze”.
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Fin qui c’è da ridere, certo. Infine, però, c’è poco da ridere. Il “drago da passeggio”, oggetto aristocratico che prescinde da ogni moda, è arma di rivolta, va cavalcato per alterare l’ordine del mondo, che precipita verso l’osceno, il feroce, lo scemo. “L’idiozia di massa continua ad essere il grande obiettivo clandestino del secolo, di ogni secolo”, ci ricorda Mollino. Per questo, la contemplazione, la creatività istintuale, il bramito di follia sono salvifici. “Passeggiare in solitudine oggi, dopo esser scesi fortunosamente dalla tigre in corsa, può apparire allo sprovveduto sconcertante se non pauroso, ciò anche a causa della diffusa incapacità attuale dell’uomo di saper star solo con se stesso. Il passeggio puro implica contemplazione e meditazione in sintesi, senza fini e mete predisposte. Il ritmo dolce del passo, così come quello della versificazione con o senza rima, sollecita armonicamente il moto del nostro spirito e lo beatifica, mentre l’Universo si ridimensiona nella sfera di intelligente serenità del saggio”. Così, basta un gioco, il ruggito di carta di un drago, a sovvertire la iena del tempo presente. (d.b.)
*In copertina: un drago disegnato nel 1806 da Friedrich Justin Bertuch