24 Dicembre 2022

Chi è dunque Sonja? L’amore che tiene in equilibrio il mondo. Variazioni dostoevskijane

“Che cosa avete fatto di voi stesso!” Raskol’nikov sta come un Napoleone mancato davanti alle   parole pronunciate dalla giovanissima Sonja Marmeladova, dopo la confessione del delitto. Non c’è un giudizio moralistico sullo sciagurato e disperato Rodiòn, c’è tutta la pietà di una creatura che ha fin troppa dimestichezza con il dolore, di fronte al dramma peggiore per un uomo: distruggere sé stesso attraverso il male inflitto agli altri. Se Raskol’nikov è un’idea che, nel corso della narrazione, si fa drammaticamente destino attirato dalla perversa forza centripeta del sottosuolo, Sonja è un’irriducibile innocenza che resiste alla violenza dell’ambiente che divora l’uomo, con la sua pretesa di fare strame della grazia.

Ha scritto Romano Guardini a proposito della sua figura, che spetta a lei reggere il peso delle cose incomprensibili. Il mistero del male da un lato, e il mistero di una salvezza totalmente gratuita che agisce incarnandosi negli esseri più umili dall’altro, perfino in una giovane prostituta per necessità che sconta l’infamia del biglietto giallo, lo stigma inflitto dalla società borghesemente, cioè ipocritamente, per bene. Mentre Raskol’nikov si muove dentro un delirio sempre più parossistico, stretto nella morsa di un soffocante aut-aut, o Napoleone o pidocchio, Sonja fa la sua prima comparsa come “racconto nel racconto”, quando il disgraziato padre, un consigliere titolare dedito invincibilmente all’alcool, incontra il giovane ex studente in una bettola. Non ci vuole molto perché Marmeladov rovesci sul tavolo lercio, con la stessa facilità con cui tracanna birra, tutta la sua disgrazia, tra le moleste risate e ingiurie degli altri avventori ubriachi.

Dostoevskij secondo Prisco De Vivo

Così sappiamo del vizio che umilia lui e la sua famiglia; della seconda moglie Katerìna Ivànovna che si dimena tra malattia e fame, dei due bimbi e di Sonja. Costretta una sera dalla matrigna a vendersi per racimolare qualche rublo e che la delazione di qualche vicino ha condotto a separarsi da loro, andando a vivere in un caseggiato poco distante.

In Sonja non c’è mai l’ombra di un giudizio di condanna sugli altri; può mai avere, una giovane forzata a svendere la sua purezza per denaro, il diritto di esprimere con facilità un giudizio di valore sull’operato, peggio ancora: sull’anima degli altri? Forse no, ma più di tutti ha il diritto di pretendere qualcosa da Dio, se Dio stesse lì come ricompensa di un merito. “Cosa fa Dio per te?” le chiede Raskol’nikov, che ha vergogna davanti a lei e per questo vuole tormentarla. Ma non esiste il do ut des nella grazia; ha il bizzarro vezzo di irrompere gratuitamente nel destino personale, completamente al di fuori di logiche di merito e Sonja, dopo un momento di silenzio, oppone un dolce e mistico “tutto” al niente sottinteso da Raskol’nikov. È timido il suo passo nel dolore più profondo del mondo, pronta ad assumerlo su di sé come un Cireneo con la croce, fin dove arriva, intimamente fiduciosa in qualcosa e Qualcuno.

Katerìna Ivànovna non è cattiva – quanta pena per convincerlo – è ammalata, patisce la fame sua e dei suoi bimbi; Raskol’nikov ha ucciso, sì, ma forse era giustificato dalla fame. No, non è questo ma non gli dà dell’assassino. Non lo caccia dalla sua stanza; non gli chiede cosa ha fatto, gli domanda cosa ha fatto di sé. E quando gli dice di andare ad un bivio qualsiasi ad inginocchiarsi davanti alla folla, baciando la terra profanata, a chiedere perdono sta pregando il ragazzo di non rendere il suo dolore un vuoto a perdere. Lo stato di disarmo di fronte a Raskol’nikov in cui sta Sonja non è una resa al mondo; lei non ha il problema di essere Napoleone o un misero pidocchio perché è – usiamo termini berdjaeviani – integralmente persona e non un mero individuo, un organismo biologico che si limita ad esistere, senza mai essere.

Il destino è nel nome di questo ex studente; c’è uno scisma drammatico che lo separa dal consesso umano e da Dio e riconosce nella giovane creatura che si illude di guardare con disprezzo, l’unica in grado di condurlo fuori da quel pantano ontologico in cui si è infilato; di stare insieme a lui nella battaglia campale ingaggiata nella sua anima e che si manifesta nei deliri e nella febbre cerebrale che lo tormentano. Si può ottenere il bene facendo il male? L’assassinio di una vecchia usuraia (e della sua innocente sorella come vittima collaterale) può essere fonte di bene per l’umanità che le sopravvive? No, evidentemente. Raskol’nikov confessa e chiude suo malgrado con le pretese superomistiche, ancora ignorando che risalire la china verso la libertà comporta l’unico assassinio concesso, quello dell’ego che rimesta nel fango della superbia e di uno sterile orgoglio. Lo squarcio del sottosuolo si avrà solo un anno e mezzo dopo la sua condanna definitiva ad otto anni ai lavori forzati in Siberia. Sonja lo ha seguito con la stessa fedeltà totale di un Cristo o di una Madonna di Kazàn.

Così, infatti, veglia su di lui, con discrezione – se ne accorgerà per caso – fuori dall’ospedale in cui è costretto da una malattia a trascorrere la fine della quaresima e la settimana santa. L’epilogo è ben noto: con gesto inatteso, un giorno che sono seduti insieme presso la riva del fiume, si guardano in lacrime e si riconoscono. Raskol’nikov accoglie finalmente l’amore di Sonja ed è a partire da qui che comincia la vita, il vero dies natalis.

Chi è, dunque, Sonja? Forse è lei a mantenere in equilibrio il mondo, senza neanche sospettarlo, muovendosi dentro l’impronta lasciata dal Cristo. Certo è che il mistero dell’Incarnazione, nell’universo dostoevskijano, passa attraverso creature come lei. È nell’apertura all’amore – in tutte le sue gradazioni possibili, anche quelle più sentimentali purché non si esaurisca in queste – che un ex studente assassino può imparare a non barare più con la domanda autentica di libertà che è il suo sigillo nel creato. Scrive Emily Dickinson che un’anima al cospetto di sé stessa è infinità finita. Lungo il filo di questo paradosso metafisico, che può sfociare in una solitudine senza scampo, corre il destino dei Raskol’nikov. E di noi tutti.

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