Anne Sexton è morta 45 anni fa, e come tutti i poeti amava gli amori impossibili, quelli incarnati all’incarnato del cielo. Questa storia, appunto, comincia dalla fine, dalla morte. La morte, per un poeta, coincide con l’ultimo libro. The Awful Rowing Toward God. Il libro uscì nel 1975, postumo. L’aveva scritto in due settimane e un tot, due anni prima. Durante la gita in un ospedale psichiatrico, la Sexton incontra un prete cattolico. Dice che non vuole andare in Chiesa. “Non so pregare, io. Vorrei che Lui fosse il mio Dio. Ma non voglio saperne di Lui. Lo voglio inventare”. Il prete la prende in simpatia, legge le poesie, dice quella frase che si ripete ritualmente tra i fan della Sexton: “La tua macchina da scrivere è il tuo altare”.
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La storia comincia dalla dedica a quell’ultimo libro. For Brother Dennis, wherever he is. Chi è frate Dennis, che fine ha fatto? In questa storia ci sono due dati da dire. L’amore come consegna ferina all’impossibile. E la lingua, il linguaggio, come scandaglio dell’impossibile, la millimetrica faina che perimetra ciò che non ha parola, il muto che abbacina.
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La storia la racconta, con una certa verve, Nick Ripatrazone sull’ultimo numero di “Literary Hub”. Titolo: The Poet and the Monk: An Anne Sexton Love Story. Più che una specie di Uccelli di rovo del patetico poetico, però, qui siamo nel gorgo di una vicenda dal clangore medioevale. Dentro un poeta, in effetti, c’è sempre qualcuno che vuole rovinare le sacre verità, che vuole, con miele verbale, rompere i patti.
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Nel 1961 la poetessa ha pubblicato To Bedlam and Party Way Back. Le arriva una lettera. La colpisce, tra le tante. L’ha scritta un monaco. “Non so molto della vita di un monaco, mi piacerebbe”. La Sexton non crede in Dio come chi lo desidera ardentemente. Parla al monaco di Romano Guardini. Ritaglia una citazione. La userà per All My Pretty Horses (1962).
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L’epistolario sale d’intensità quando il monaco invia alla poetessa una sua fotografia. Lei non gliel’ha chiesta. “Ora che ti vedo, mi pare che tu sia un matador più che un monaco”. Poi, febbraio 1962, “sei terribilmente bello per essere un monaco, hai degli occhi incredibili”. La bellezza, però, è nella distanza irreparabile, nel fatto di flirtare con Dio attraverso il monaco, di vincerlo. Sedurre Dio. Costringerlo a preferire ancora la carne per unirsi a una donna.
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Del monaco non si sa nulla. “Non ne conosciamo il nome. La figlia della Sexton, collezionando le sue lettere, lo chiama con lo pseudonimo di Padre Dennis Farrell. Era giovane. Insegnava. Si era innamorato?”. In una lettera, il monaco invia alla poetessa un crocefisso. Lei lo indossa. Gli scrive. “Quando me lo metto al collo, sono presa da un senso di umiltà, di certezza”. E poi. “Ho bisogno di te in un modo che non so spiegare. Ho bisogno del tuo amore, per ciò che di esso vi è di vero, gentile, compassionevole”.
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La Sexton vede in questo rapporto, dispari – non vogliamo chi ci è eguale, chi ci rispecchia, ma chi ci si offre a contrasto – una risorsa estetica: “Le tue lettere influiscono nel mio stile, non puoi immaginare quanto” (17 maggio 1962). E alcune settimane dopo: “Le tue lettere mi donano molte cose… l’aura di te stesso, di Dio, di una vita differente, di una amicizia costante. Ti amo. So che mi ami. Ma ti perderò. Perché continuo a perdere ciò che amo…”. Gli invia una poesia, For Eleanor Boylan Talking With God. In un distico vede Dio “enorme, che copre il cielo/ come una gigantesca medusa che si dilata”.
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La Sexton agisce come una serpe nella vita del monaco, a poco a poco lo svela, ne perfora le liminali resistenze. “Improvvisamente, avverto una relazione umana di cui ho spesso sognato, ma che pensavo impossibile”, le scrive lui. Già nel 1963, dopo due anni di scambi epistolari, annuncia di voler “saltare oltre il muro”, e di lasciare il monastero. La Sexton è terrorizzata. “Le nostre lettere… non possono essere paragonate a una relazione. In una lettera – non importa se è stata scritta di getto, onestamente, liberamente o amorevolmente – è possibile essere più amabili che nella vita reale, non ci sono muri né oggetti né persone in una lettera, le parole volano dal cuore, attraverso le dita… In qualche modo credo di averti ingannato se ti ho fatto credere che questa fosse una relazione”. La poetessa non vuole il monaco: se il monaco non sarà più monaco lei non raggiungerà più Dio. Continua. “Se lasciassi il monastero e ti sposassi, nessuna moglie ti consentirebbe di scrivermi”. Di certo non è lei, Anne, a volerlo sposare. Infine cita le lettere a Milena di Kafka, che vanno sempre bene.
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Questo ignoto monaco fa ciò che ha promesso. Lascia il monastero. Agosto 1963. Per anni, più nulla. Il 10 dicembre del 1966, ritorna. Lei è arrabbiata. “Non dovevi lasciarmi in questo silenzio”. Lui le dice di essere stato a Chicago, dove lei aveva una lettura pubblica. “Avremmo potuto vederci, potremmo parlare, ma non so dove sei”, fa lei. “Forse si sono incontrati a Chicago. Forse lui le ha stretto la mano, anche solo per un istante. Forse non diciamo mai la verità nelle nostre lettere, nei pensieri”, scrive, con sfoggio d’enfasi, il giornalista. Infine, il poeta ha vinto sulla fede, si ha fede nel poeta più che nella divinità. Del monaco ora ex non sappiamo più niente – e lei non vuole saperne: se sei così debole da rifiutare Dio, cosa vuoi da me?
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Per Le Lettere è uscita una nuova edizione delle Poesie d’amore di Anne Sexton, pubblicata in origine 50 anni fa, per la cura di Rosaria Lo Russo. Lo stesso editore ha pubblicato nel 2003 le Poesie su Dio. I documenti di Anne Sexton sono catalogati presso l’Harry Ransom Center dell’University of Texas a Austin. Sono raccolte più di 800 lettere, a Saul Bellow, Elizabeth Bishop, Ted Hughes, Marianne Moore, Joyce Carol Oates, Sylvia Plath e John Updike, tra gli altri. Giocò a essere una Maddalena, e qualcuno preferì sacrificare Dio – senza farle sentire il peso. Occhi che crocefiggono, parole che insinuano stimmate, si dirà. (d.b.)