30 Marzo 2023

Un mondo di grilli e di dèi. Il provincialismo di chi odia la cultura popolare. Ovvero: l’auto-razzismo degli italiani

L’aria di simpatia macchiettistica intorno alla cultura popolare. Profumo di ragù, muri in sasso con sbuffi di piante e fiori instagrammabili, i dialetti tiktokabili dell’anziano con bestemmie, il “si mangia bene lì” (lì dove, lì cosa: ovunque, tutto, ‘nduja, porceddu, pizzoccheri, arrosticini, castagna cruda riccio incluso). E la chimera del buen retiro, del rustico da comprare-ristrutturare-arredare con sedie di vimini o cassapanche in noce. E il mito del pensiero meridiano, della lentezza, del laconico pastore da inseguire causa ricotte, degli zii e nonni che abbiamo, abbiamo avuto, avremmo voluto avere. 

La simpatia per la cultura popolare è appunto vaga perché fatta di stereotipi e macchiette. Nasconde un’antipatia. 

Ci sono mille ragioni per cui la cultura popolare non si sopporta. Molti che pure ci sono cresciuti in mezzo la rinnegano. Nello specifico: la cultura italiana è nata centralista e ha in odio i regionalismi: la presa in giro del contadino o “satira del villano” è un genere letterario che esiste dal quattordicesimo secolo; perfino Dante è stato accusato di avere usato troppe forme regionali. 

Anche la ripresa romantica del popolare è avvenuta in modi strani: gli studiosi dell’Ottocento raccoglievano proverbi e canzoni, spesso sbagliando la grafia, o facendo somigliare le formule musicali e poetiche a quelle già canonizzate. Anche gli scrittori e studiosi che nel Dopoguerra si sono occupati di Sud e paesi non sono usciti dall’equivoco: per loro il popolare era un oggetto sentimentale, da studiare e poi da superare in vista di una redenzione sociale, civile, conoscitiva, come si nota nella reinterpretazione del tarantismo fatta da Ernesto De Martino, dove tutto viene riportato al dato psicopatologico.

Gli ultimi arrivati, quelli da una parte del pensiero meridiano, dall’altra dei festival di musica etnica, sono rimasti anche loro nella pégola della genericità. Chi scrive si ricorda una Notte della Taranta con il batterista dei Police che suonava entusiasta una pizzica, sbagliando ritmo. Stewart Copeland, uno dei più grandi percussionisti viventi, conosce perfettamente il ritmo reggae, ma non sapeva suonare una pizzica. Atterrato in Puglia, nessuno era stato in grado di dirgli: gli accenti sono questi. Popolare non vuol dire semplice e senza regole. Vuol dire che le regole sono altre. E bisogna conoscerle, perché non sono affatto semplici. 

Si potrebbe riassumere tutto con il sostantivo provincialismo: l’orrore di sé che fa guardare ad altro. Il provinciale non è il paesano, che ha chiarissimi i canoni del suo mondo piccolo, è il bovarista che per rassicurarsi deve cercare dei canoni altrove, il fare riferimento a un “fuori” che sarebbe il vero centro: sia la lingua aulica e curiale o i sistemi di pensiero illuministi, romantici, idealisti, o il mainstream. La cultura popolare è un po’ la zia vecchia e sdentata, che magari avremo voluto avere, ma che teniamo in cucina. Il suo rifiuto è l’espressione del razzismo che l’italiano medio cova verso se stesso.

Perfino il cattolicesimo, nella versione post Vaticano II, ha messo in moto un implacabile scontro di civiltà verso la cultura popolare, paragonabile solo a quello contro la liturgia tradizionale: il no alla messa in latino equivale al no ai canti in dialetto. Il culto dei Santi, spesso scoraggiato esplicitamente, la minore enfasi possibile sul culto delle reliquie. Come dare torto alla chiesa e al mondo laico? La cultura popolare non conosce le cose in base al metodo scientifico. Non è integrabile nel sistema economico. Socialmente è un’aristocrazia tribale. Dal punto di vista delle credenze si basa sul corpo (mistico) prima che sulla razionalità. Usa un concetto di rappresentazione non mimetico ma metessico: non imita, ricorda. Presuppone un concetto di tempo ciclico, quindi non è comprensibile (al massimo è sfiduciabile) in base all’idea di progresso.

Qui c’è un prezioso Cd con un affilatissimo booklet che arriva a ristabilire almeno un paio di cose. “Intrecci sonori. Tracce di un ecosistema acustico in Calabria”, curato per Squilibri (casa editrice da sempre attenta al popolare e al suo significato antropologico e storico-culturale) da Valentino Santagati. Trenta fulminei minuti di suoni della natura, dalle fiumare alle cicale, di suonate su strumenti tradizionali: flauto di corteccia, doppio flauto di canna, zampogna “a la moderna”, tamburelli, organetto, canti secondo il sistema armonico mediterraneo, non tonale ma modale. 

Suoni che potrebbero sembrare pièce di avanguardia. Basta ascoltare Domenica (Mica) Cozzucoli. Timbro inarrivabile. Quando la ascoltò Fabrizio De André disse: “se sapessi cantare così me ne fotterei di fare il cantautore”. Cozzucoli inserisce tra una strofa e l’altra di un canto narrativo centoni che si riferiscono a tutt’altro, spesso semplici modi di dire che disarticolano il racconto (ci sono i testi puntualmente trascritti da Santagati). Lo stesso vale per Pietro Romeo e Peppino Romano, accompagnati alla zampogna da Totò Caracciolo. Non testi ma formule. Non armonie ma melodie variate, microtonali, imprendibili per chi ha l’orecchio troppo abituato alle dodici note del wohltemperierte Klavier.

La cosa particolare è che nel popolare le suonate non sono suonate, le canzoni non sono canzoni, i suoni del fiume, dei grilli e le cicale non sono suoni. Il canto non serve a intrattenere, e nemmeno precisamente a comunicare. Serve a essere. Essere cosa? I fiumi, i grilli, le cicale, i morti, i santi.

Così funziona l’ontologia dei suoni nella cultura tradizionale: o è identificazione totale o non è. Nel suono non esiste distacco riflessivo. Charlie Parker con i suoi gruppi irregolari, le sue note acute improvvise, non stava affatto giocando con le forme della rappresentazione (come avrebbe potuto fare un surrealista), stava letteralmente suonando il suo essere totemico, l’uccello. Il soprannome di Parker era Bird, i suoi fraseggi derivavano, come è stato ben documentato, dal verso del tordo americano. Nel suono popolare anche la totale libertà formale non è sberleffo alle forme, è risposta a una ontologia plurima, dislocata anche temporalmente. È presenza, a garanzia delle forme, di diverse divinità in diversi momenti. Tra le avanguardie occidentali e il popolare c’è qualche differenza: un bel po’ di demoni e dei. 

La dimensione del sonoro è molto diversa da quella del visivo a cui siamo abituati per lunga tradizione occidentale. Vive non di osservazione né di critica, ma di presenza immediata. Così la spiega Walter J. Ong ne La presenza della parola (il Mulino): 

“L’abitudine alla sintesi uditiva dà luogo anche a uno speciale senso dello spazio, che ha qualità caratteristiche. Non è disteso davanti a noi come un campo visivo, ma è diffuso intorno a noi. L’uditore è situato nel centro di un campo acustico, non di fronte ad esso”. 

Ancora Ong:

“I rumori che si sentono, ad esempio, in un bosco di notte, sono percepiti dall’immaginazione assai più come presenze […] che come movimenti che ci si limita a vedere. Lo spazio acustico non è precisamente spazio “puro”. È spazio abitato […] Lo spazio puro entra piuttosto tardi nell’esperienza conoscitiva dell’uomo, quando il suo sensorio è stato riorganizzato, almeno in certe culture, in modo da minimizzare l’udito e massimizzare la vista”.

Ong racconta in parole semplici una totale opposizione alla cultura moderna, che a sua volta privilegia il visivo rispetto all’acustico. Un visivo astratto, misurabile. Ma, anche, rende ragione di qualche millennio di tradizioni sì esoteriche, ma conosciutissime. Sibille che affidano i messaggi alla voce, come nel sesto libro dell’Eneide. Suoni che evocano e curano (oggi abbiamo la musicoterapia, pallido ricalco del tarantismo, del gospel, dei muezzin, dei tamburi parlanti), ma soprattutto un “sistema” sonoro che non è propriamente musica. “È” le cose stesse. 

È chiaro che quello descritto è tutto un insieme: ontologico, rituale, rappresentativo che è facile guardare con simpatia macchiettistica vagamente razzista. E auto-razzista.

Ma visto che di suono e spirito dell’epoca si va parlando chiudiamo con una citazione di R. M. Schafer, Il paesaggio sonoro, Ricordi-Lim 1985:

“Il motore a combustione interna rappresenta oggi il suono fondamentale della civiltà contemporanea. Ne è la tonalità, nello stesso modo in cui l’acqua era la tonalità delle civiltà il cui potere e la cui esistenza si fondavano sul mare, e il vento è la tonalità della steppa… Intensità sonora a parte, il rumore organico che maggiormente si avvicina al rumore d’un motore a combustione interna è la scorreggia”.

Ecco. 

Bruno Giurato

*In copertina e nel testo: gruppo di satiri di Giovanni Battista Tiepolo dal Metropolitan Museum of Art

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