Aveva 34 anni, si era trasferita da poco a Roma – nel 1955 il padre era stato chiamato a dirigere il conservatorio di Santa Cecilia. L’anno prima, aveva pubblicato le poesie come “Passo d’addio”, con Scheiwiller. Stava traducendo William Carlos Williams. Allora – è il 1957 – insorge l’epidemia, “l’asiatica”, e Cristina Campo, “come una belva in gabbia”, esce per Roma la notte. Frequenta Ernest Bernhard, il discepolo di Jung, Ignazio Silone, Curzio Malaparte. Questa lettera, dal gorgo dell’epidemia, inviata a Margherita Pieracci, è tratta dalle “Lettere a Mita” (Adelphi, 1999).
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27 settembre 1957
Mia cara, avrei voluto scriverle, anzi credo di avere cominciato, una volta. Ma non era il caso di farlo, in questi giorni di smania, in cui non so chi sono, di dove vengo, dove vado e che cosa si aspetta (o non si aspetta) da me. E poiché devo guadagnare denaro sono come una belva in gabbia –, ma non concludo niente – i libri volano contro la parete, le carte si trascinano per terra, ci faccio giocare il gatto. Solo la sera esco sola e percorro la città fino a tardi; ma poiché ho promesso ai miei di non mescolarmi al mio prossimo finché dura l’epidemia, non posso più chiedere alla folla il grande aiuto che mi dava nei giorni neri. Non esco mai dall’auto (solo iersera, verso le 12, sedetti sotto la statua di Marco Aurelio – c’erano due inglesi della mia età, uomo e donna, che avrebbero voluto parlare, si vedeva – e l’orologio che batteva limpido, nella grande conchiglia rosa. E ogni tanto una grande macchina che strisciava tutto intorno, come in una sala da ballo, e scompariva). Ho visto tante strade, verso il Testaccio, tra Porta San Paolo e il Ponte Palatino – ho assistito dall’auto a tante strane scene – dovevo avere anche la febbre – e ho meditato sul destino dei solitari, dei vagabondi quali io sono (e gli altri che erano là, senza dubbio). La notte sto quasi sempre male; sogno Malaparte (quasi ogni notte, perché?), la mattina mi sveglio come esangue, e, digiuna, con la testa che mi duole selvaggiamente, scrivo quel che mi capita, per pura disperazione (ieri una nota sul nuovo libro di Risi – mano sinistra – l’ha visto?).
Ma la sua lettera mi ha fatto tanto piacere. Anch’io, se resisto in qualche modo, lo devo a lei. Da quando è partita, non ho più scambiato con nessuno una parola. Il signore di cui le dissi è partito per la Scandinavia e mi ha scritto una cartolina (corale) dove mi dà del tu. Troverà al ritorno un libro sui Piaroa (che riceverà anche lei), ma non me – o sarei costretta a fargli pagare a caro prezzo la sua innocenza. Tutto questo glielo racconto per divertirla. Che m’importa di simili sciocchezze. Così, per Firenze, non so proprio quale messaggio affidarle. Che il libro era bello, in complesso, importante ecc. Che scrivere è impossibile (o ci si scrive sempre o non ci si scrive mai – questa può darla come sua considerazione). Che sulla bilancia di questo genere di rapporti può pesare anche sapere che lui è stato qui – a Capodanno – senza avvertirmi. Si può credere di disturbare, poi, con una lettera o altro. (Anche questo come sopra). Nel complesso tutta la storia – anche questa – mi sembra sia stata un grande equivoco: non ci credo più. Un bell’equivoco, certo – come tutti gli altri. Ma l’amicizia mi piacerebbe ancora – fargli vedere certe cose – ma è capace la gente di amicizia? Ciao, Mita, mi scriva ancora.
Cristina Campo