11 Aprile 2020

Nuovo Vocabolario del Virus: “distanza” è una parola meravigliosa pressata nell’acido burocratico. “Task force” non fa che denunciare la nostra implacabile debolezza

“Distanza”: Distanza è parola magnifica, che magnetizza l’ascesi; distanziamento sociale è il suo imbarbarimento, nell’implacabile acetone burocratico. La distanza prevede la congiunzione, è “la lunghezza del percorso fra due luoghi, due oggetti, due persone”. Prendere le distanze da qualcosa vuol dire celebrarla. Il prefisso greco dis– non va dissipato ma tenuto sotto la lingua come cosa sacra: è l’amara, dolce distanza che ci separa da dio.

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Dal divino, in effetti, bisogna stare distanti. Infrangere la distanza porta a una perdita ineluttabile. “Quando Tiresia, un giorno, sorprese Atena per caso intenta a fare il bagno, essa gli posò le mani sugli occhi e lo accecò, compensandolo tuttavia col dono della chiaroveggenza” (Robert Graves). La veggenza di Tiresia – ammantata di rispettosa incredulità – è replicata a contrario da Edipo. La prossimità ai genitori di Edipo è letale, tocca uccidendo il padre e ingravidando la madre: accecarsi non fa che rendere più visibile la sua colpa. Quando Atteone gode guardando Artemide nuda, vincendo la distanza, lei lo tramuta in cervo, lo fa inseguire da una muta di cani rabbiosi, che lo squartano. Per questo è necessario l’amor de lonh, l’amore di lontano, a distanza: se il poeta si unisse alla sua donna, si inaridirebbe il canto, il poeta sarebbe gratificato dalla morte. La donna è emblema della dea: Jaufré Rudel, si narra, raggiunge la fatale “contessa di Tripoli”, a cui ha dedicato uno stuolo di “canzoni con miracolose melodie”, in punto di morte. Lei lo abbraccia, la distanza è rotta, il poeta spira, spalancandosi uno spiraglio di eternità.

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Ci si tiene distanti dall’appestato come dal dio: equivalente è il contagio. Mosè non può guardare in volto Dio, ne morirebbe; “I miei amici/ si allontanano dalle mie piaghe/ i parenti prendono distanza” (Sal 38, 12).  Noli me tangere dice Gesù risorto alla Maddalena (Gv 20, 17). La Maddalena è la prima, “mentre era ancora buio” (Gv 20, 1), ad accorgersi che la pietra del sepolcro è smossa. Mentre Pietro e “l’altro discepolo”, avvisati, corrono verso la tomba, compiono una indagine, “se ne tornarono di nuovo a casa” (Gv 20, 10), la Maddalena resta “presso il sepolcro, in pianto”. Gesù è il Figlio che rompe la distanza tra Dio e uomo, che riannoda il legame di carne. Nel Corano questa distanza resta abissale, per questo nella Sura della resurrezione il rimprovero ha veridicità e clangore: “Ma voi amate l’effimero – e trascurate l’Oltre!”. La Maddalena vuole il corpo di Gesù, vuole adorare il cadavere – “Se lo hai portato via, dimmi dove e io lo andrà a prendere”, Gv 20, 15 –, con felina ostinazione: pensa, forse, con oli, di potergli dare la lucidità di un versetto. Così Gesù appare proprio a lei per dirle, Noli me tangere, non trattenermi. Dopo la prossimità, è il momento della distanza.

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Eppure, a garanzia della nostra esistenza, qualcuno deve toccarci, vincendo l’oracolo del contagio. Tommaso scava nelle ferite di Gesù risorto, esplica coerenza e carne. Noi esistiamo se un altro, toccandoci, ci fa il calco, dà un corpo al nostro corpo interrogativo. Il corpo va addestrato per uno scopo – la ginnastica in casa non fa che ricordarci che siamo una immagine, perfezioniamo il pensiero che abbiamo della nostra carne, fine effimero.

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Linji, buddhista estremista (IX secolo), insegnava a prendere le distanze da sé, dal maestro, dal Buddha, da tutto. “Ogni cosa con cui siete in contatto vi illude. Non avete un criterio di percezione… Le parole che dico non hanno fondamento, sono disegni tracciati una sola volta nello spazio. Non fate del Buddha un criterio assoluto. Per quanto mi riguarda, l’idea che abbiamo del Buddha è la fossa della latrina, e in questo senso è solo uno che vi tiene in catene… Se aspirate al Buddha, perderete il Buddha. Se aspirate alla via, perderete la via. Se aspirate a essere il maestro, perderete il maestro” (in: Thich Nhat Hanh, Nulla da cercare. Un commento alla Raccolta di Linji, Astrolabio, 2010).

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Distanti dal buon senso grammaticale, i parolieri della politica parlano continuamente di “task force”. Gergo militare il cui utilizzo misura la debolezza di chi ne fa uso e la distanza dalla realtà concreta, al di là dell’irreale elettorale. Esiste una “task force” su tutto: sul contrasto al virus, sulla ripartenza (sostantivo che abbrutisce ogni energia di genio), contro le notizie ritenute false (dette fake news); c’è anche una “task force” tecnologica. Una volontà di potenza multitasking, l’estensione del dominio dell’idiozia. Le parole, si sa, abbagliano, sono l’abbaino per le allodole, si usano per abbaiare più forte. Ma il mare, in questi giorni, non è mai stato così azzurro, sembra la reincarnazione di Giotto. Sono tornate le rondini. Hanno colonizzato le giunture di cemento di un cavalcavia. Si muovono rapide, come accette che feriscono il cielo. Incrocio una donna, non mi saluta. Siamo su un nuovo mondo, alieno. (d.b.)

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