Piuttosto, prendere questo articolo come un viaggio.
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Torno al rapporto tra Cristina Campo e Alejandra Pizarnik, rileggendo il carteggio tradotto da Stefanie Golisch, ancora inedito, è pazzia. Lo scambio comincia nel 1963: l’anno in cui Garzanti pubblica I mistici – poi I mistici dell’Occidente nelle edizioni Rizzoli e Adelphi – l’opera immensa di Elémire Zolla, per cui la Campo traduce John Donne e Giovanni della Croce. Ha già tradotto, insieme a Vittorio Sereni, le poesie di William Carlos Williams (Einaudi, 1961), sta lavorando dentro Simone Weil, che trova affine (Venezia salva esce nel 1963), “conosce Ezra Pound” (Arturo Donati). Nella prima lettera che scrive alla poetessa Alejandra Pizarnik, la Campo, nel febbraio del 1963, parla di una forma austera, metropolitana di ascesi. Scrive: “nessuno ha degli amici a Roma. È una città di una crudeltà incredibile, proprio perché è bonaria. Sono le savane che ti inghiottono. Bisogna viverci soli, in un ascetismo pressoché totale, per rimanere intatti, o, più semplicemente, per rimanere”. Ascesi è esercizio di ascesa: bisogna fare deserto di sé e del mondo, per vivere nel mondo – essere deserto in faccia agli uomini. Ci vedono, ma non vedono: effetto morgana. Per fare l’ascesi, bisogna calarsi nel sottosuolo di sé.
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Le ultime lettere di cui sappiamo tra le due, sono del 1970. Nel settembre del 1972, Alejandra si uccide. L’anno dopo, per Rusconi, escono i Racconti di un pellegrino russo, con l’introduzione di Cristina Campo. “Che questo libro supremamente indifeso esista, infine, che qualcuno abbia pensato di scriverlo e l’abbia scritto così. E, per converso, che proprio in questa forma letteraria così candidamente determinata, così inconsapevolmente adorabile, si sia avvolto il grande segreto spirituale dell’Oriente cristiano”. Vanno ritagliate, credo, queste parole: supremamente indifeso e inconsapevolmente adorabile. Supremazia sempre inconsapevole, adorazione dell’indifeso.
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Del cristianesimo ci sono due stazioni: chi s’installa nella città, facendo ombra ai palazzi, tentando alla conversione; e chi s’immerge nel nulla, babele di sale, dando lotta ai propri demoni, viandante verso Dio. Chi guarda loro, gli uomini, e chi guarda Lui, il Potente. Nel Nazareno sono riassunte entrambe le visioni: Gesù prega da solo, per i monti e nei deserti, ha urgenza di desertificare; ma poi va nei paesi, porta il deserto a Gerusalemme. La Croce svela che la città è morgana, che si commercia in illusioni, che illustre è l’abiura del mondo, del tempo.
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Il russo in pellegrinaggio verso Dio si fa sedurre da ciò che scrive Paolo ai Tessalonicesi: “Siate sempre lieti, pregate incessantemente, di ogni cosa rendete grazie” (1 Ts 5, 17). La formula della preghiera incessante – sussurrata sempre, come sangue – rende giustizia al fiato e orienta le ossa. Tempo fa, studiai il carisma dei messaliani, gli ‘oranti’: vivevano in rare comunità, spesso soli, pensando, tramite la preghiera incessante, di avere un contatto fisico, qui, ora, con lo Spirito. Il sinodo di Side del 390 li disse eretici – da noi la preghiera è un blabla che inquina l’ugola, verbo che non è più rabdomanzia del dio ma radiografia della nostra assenza da Lui.
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La ricerca d’ascesi intellettuale di Cristina Campo trova scintillio nei Detti e Fatti dei Padri del Deserto, la raccolta, di molteplice bellezza, edita da Rusconi nel 1975. Infine, mi pare il lavoro più alto, riassuntivo – anche a mo’ di poetica – della Campo. Anche in questo caso, i testi sono di anonimi, vagano da nulla a nulla, voci miracolose al fuoco (vale la pena, dunque, riannodare i diversi eteronimi di Vittoria Guerrini, e la ritrosia alla scrittura: come se scrivere fosse annientare lo scritto e se stessi in esso, come se rivelarsi sia nascondersi). La Campo soggiorna nel cristianesimo originario, agonistico, alieno al mondano – parla di “stagionatura incomparabile delle catacombe”. Rendere ‘lecito’ l’illecito cristiano, dopo Costantino, significa fare dell’assurdo di Cristo una buona morale: “Mentre i cristiani di Alessandria, di Costantinopoli, di Roma, rientravano nella normalità dei giorni e dei diritti, alcuni aceti, atterriti da quel possibile accordo col mondo, ne uscivano correndo, affondavano nei deserti di Scete e di Nitria, di Palestina e di Siria. Affondavano nel radicale silenzio che alcuni loro detti avrebbero solcato, bolidi infuocati in un cielo insondabile. In realtà, la maggior parte di quei detti fu pronunciata per non rivelar nulla, così come la vita di quegli uomini volle essere tutta quanta la vita di ‘un uomo che non esiste’”.
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Di questo fascino verso l’esistenza inesistente, verso la fuga stanziale, il deserto sulla propria scrivania – direi: Amherst come Scete, la ‘torre’ di casa Zimmer come il deserto d’Egitto – il candore dell’assenza, la Campo fu emblema. Vivere per smarrire le tracce della propria vita; leggere in sottomissione; scrivere dando lo scalpo.
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Questo è il testo che Cristina Campo dice essere “una delle più brevi e grandi prose che mano abbia tracciato”:
Vi era nel deserto un anacoreta che pasceva coi bufali. Rivolse a Dio questa preghiera: “Signore, insegnami ciò che mi manca”. E una voce gli disse: “Entra nel tal cenobio e fai quel che ti diranno”. Egli entrò dunque nel cenobio e vi rimase. E non conosceva nulla del lavoro dei monaci, sicché i monaci cominciarono a insegnargli i vari lavori e gli dicevano: “Fa’ questo, idiota! Fa’ quello, vecchio stolto”. E, afflitto, egli disse a Dio: “Signore, il lavoro degli uomini io non lo capisco, rimandami dai bufali”. Dio glielo consentì ed egli ritornò alla campagna a pascere con i bufali. Laggiù, gli uomini avevano teso delle reti. Alcuni bufali vi caddero dentro e, a sua volta, vi cadde dentro l’anziano. Gli venne il pensiero: “Tu hai le mani, sciogliti dalle reti”. Ma poi rispose a quel pensiero: “Se sei un uomo, ti sciogli e vai a vivere con gli uomini. Ma se sei un bufalo, allora non hai mani”. E restò nelle reti sino al mattino. Quando gli uomini vennero a prendere i bufali, alla vista del vecchio furono colti da terrore. Lui non disse parola. Lo sciolsero e lo lasciarono partire. Fuggì correndo dietro i bufali.
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Forse qualcosa del senso sta tra i verbi sciogliere e legare: se ti sciogli ti leghi agli uomini. Obbedire alla rete come a una preghiera. Forse è nel terrore, tutto – piuttosto, occorre imparare, da eretti, la virtù di fuggire a quattro zampe, facendo delle mani cosa rovinosa. (d.b.)
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Venerdì, 22.2.63
Cara Alejandra,
grazie della Sua generosissima lettera. Stamani la vita pesa un poco più del solito, al suo posto, vicino al letto, dove l’ho lasciata ieri sera. L’inverno non finisce più, del resto, non può non finire e questo momento di distacco prolungato è senza dubbio straziante per il corpo e per l’anima. Di colpo non si riesce a fare più nulla. Ho letto, durante la mia malattia che dura da più di un mese (oppure da quando sono nata) 15 o 20 volumi, forse di più. Tutti i russi; gli antichi italiani del XIV° e XIX° secolo (cara amica, la patria è la lingua) e la mia bibbia, il mio dizionario. Mi sono immersa un’altra volta nella grande moralità autobiografica: Bach e Chopin, i miei precettori. Ma oggi, più nulla. La vita, qualche volta, si ritira come un ragno; e bisogna resistere alla cattiva ispirazione di raccogliere le conchiglie. Grazie dunque per avermi scritto. Credo di aver indovinato tutto ciò che mi scrive, in qualche modo, nel momento in cui ho visto la busta che conteneva il Suo libro. La Sua lettera, d’altronde, è così lucida che si pensa di vederla libera da tutti gli incantesimi che La incatenano, con un semplice tocco di mano. Ma era proprio quello che non poteva essere realizzato prima dell’ora prescritta. Cosa Le posso dire? Lei sa tutto. Senza dubbio sa anche che la Sua fuga disperata verso “ciò che non vuole dire” è una fuga inversa, come quelle fughe d’amore che sono delle cacce. In principio, tutto questo è l’assurdo, perché sia la poesia, sia l’amore cominciano solamente nel momento in cui si abbandona ogni lotta. Ma questo succede soltanto nell’ora prestabilita, come il risveglio alla fine di un sogno. Dal canto nostro, l’unica cosa che possiamo fare è di comprendere che siamo spaventati e che sono gli spettri a spaventarci. Degli spettri interiori, sì, e molto difficili da vincere; ma soprattutto degli spettri al di fuori di noi, che sono le vere guardie alla nostra porta e che si possono distruggere, gettando ai loro piedi un semplice pezzo di pane (di verità). Le posso svelare qualche spettro che mi sembra di intravedere vicino a lei? Rimbaud – questa malattia d’infanzia –, i surrealisti francesi, una certa avanguardia, non solo letteraria, che è, del resto, la giovinezza stessa, ma al contempo una pesante catena, come tutte le libertà minori. Alejandra, Lei possiede le opere della Günderode? Intendo i suoi saggi, le sue lettere? Conosce “La pesantezza e la grazia”? I saggi di Hofmannsthal? Veda, io penso che Lei dovrebbe dedicarsi per un certo tempo alla prosa – non si può fuggire in un saggio, bisogna rimanere al proprio posto, seguire un’idea fino in fondo, collegarla a tante altre per riportarla a se stessa ecc. – questo Le darà molta forza. Nelle righe che mi ha spedito ci sono immagini di incredibile bellezza (vorrei dire, classica). Si vorrebbe vedere tutte queste scintille bruciare nella durata, nella continuità del Suo fuoco. No, nessuno ha degli amici a Roma. È una città di una crudeltà incredibile, proprio perché è bonaria. Sono le savane che ti inghiottono. Bisogna viverci soli, in un ascetismo pressoché totale, per rimanere intatti, o, più semplicemente, per rimanere. Frequento soltanto le persone della mia famiglia, che è, glielo confesso, molto amabile. Ma, del resto, ci dà anche molte preoccupazioni. Anch’io ho poco tempo e me ne serve parecchio perché cominci ad avere l’idea di scrivere. Mi spavento anch’io, più di Lei, davanti al foglio di carta. Ho cominciato a scrivere una specie di saggio, il cui titolo segreto è Viaticum peregrinationis (bisognerà dargli comunque un altro titolo, La noce d’oro, per esempio) che è, in un certo senso, la continuazione di In medio coeli e mi dà tutto il male del mondo. Esiste un problema tecnico (una forma del genere non esiste in Italia), ma è soprattutto lo spavento – quello dell’attrazione, quello dell’orrore sacro, che è strettissimamente legato a tutto ciò che tocca la nostra vita troppo da vicino. Spero che incontrerà Calveyra. La morte di sua madre condiziona ancora tutta la sua vita. Non temo nulla per lui, è un diamante, ma vorrei saperlo molto amato in questo momento. È strana, l’Argentina…. Perfino prima di conoscerla, me ne occupavo molto. Hector Murena è il nostro unico amico. Calveyra – come definirlo? Me lo abbracci. E Lei ora, cara Alejandra: vede com’è lunga la mia lettera? Grazie.
La Sua amica Cristina