A vent’anni dalla morte, l’editore Utopia – che ne sta pubblicando, meritoriamente, l’opera – ha ristampato Libro bianco, il capolavoro di Piero Scanziani. È un capolavoro, per così dire, programmato, programmatico, desiderato. Iniziato nel 1952 a Taormina, elaborato a lungo, esce nel 1968 per Elvetica: è la summa del pensiero di Scanziani. Scrivendone, nel 1980, Vittorio Vettori ravvisa, nella composizione del romanzo, il modello dantesco; ne parla come della “prova più ardua” di Scanziani, da avvicinare, per intenzione, per presupposto d’altitudine etica, alle opere di Hermann Broch, di Boris Pasternak, di Solženicyn. A me l’impianto filosofico, la strenua costanza nel sondare i grandi temi della vita e della morte, della colpa e della virtù, ha fatto venire in mente Hermann Hesse. Ad ogni modo, in Libro bianco – titolo bellissimo per un libro fieramente impossibile – un fatto tragico, minimo – “una rivoltella che spara, un uomo che cade” – fa scaturire una vicenda universale: l’immane processo ad Adamo, cioè all’umanità tutta. Il libro, costruito per stazioni, che va avvicinato, per sentore sacro, al Processo a Gesù di Diego Fabbri, è metafisico ed esoterico, ultramondano, difficile; alterna la pura agnizione – “La vita gli appariva bella, pur con i suoi guai, i dolori, le insidie, pur con i parenti, le donne, i debiti, pure la vita era bella” – e il dramma, l’ascesi e il crollo. Alcuni passaggi sono di efferato splendore: quando “lo sciacallo”, un “giovane, ma esile e piccolo… sovente impaurito”, sgozza l’imperatore, ad esempio: “la lingua, enorme, gli riempiva la bocca… così stava, nudo e incorporeo, lontano da tutto”.

L’anno dopo, Scanziani pubblica Entronauti, esito di un pellegrinaggio decennale nei luoghi del sacro, dall’India dei guru alla Persia dei sufi, dal Giappone marziale alla California degli scienziati che vogliono cambiare il mondo, fino al Monte Athos.

Libro bianco inaugurò il breve, intenso rapporto tra Mircea Eliade e Scanziani. Nel suo Diario, il 28 giugno del 1984, Eliade scrive:

“Ho ricevuto oggi, per espresso aereo, tre volumi di Piero Scanziani. Tutti con la stessa dedica: ‘A frate Mircea, frate Piero’. Apro a caso il Libro bianco. Il testo mi conquista subito e leggo, rapito, per alcune ore. La gioia di scoprire, alla mia età, un nuovo scrittore”.

Torno a Scanziani perché le coincidenze, sonore, vanno scandite, chiedono ascolto, hanno venature nel legno. A Roma, dove lo scrittore abita e lavora fino al 1971, Scanziani frequentava Cristina Campo. Il rapporto è testimoniato da brevi, affettuosi biglietti, ma soprattutto dalla fame di sacro che animava entrambi. Sapendo di un prossimo viaggio di Scanziani sull’Athos, la Campo gli chiede di recuperare per lui la reliquia di un anacoreta; in cambio, “per ringraziarlo, gli regalò un quadro che riproduce un Arcangelo… troneggia ancora nella mia camera da letto e me ne giungono dolcissime vibrazioni”, mi dice Magì, gentilissima moglie dello scrittore svizzero. “Erano molto amici, s’incontravano periodicamente a Roma”.

Mi sembra strabiliante l’avventura umana di Scanziani: una fotografia lo ritrae con Audrey Hepburn, sul set di Vacanze romane; poi lo vediamo a passeggio con Cristina Campo; infine, roso dalla disillusione, è nell’aspro romitorio greco, al cospetto di Nicodemo, “che ha una cella a strapiombo sul mare, ci giunge con una carrucola”. Nel dolore, delira, ispirato:

 “Alzo lo sguardo verso una stella. Forse anch’essa è morta, da milioni di anni. Ma la sua luce no, cammina eternamente nello spazio e il nostro occhio l’incontra, viva. La stella non è morta e nulla muore: ciò che muore, cade nella vita”.

Tutto è mondo.

Da qui, dall’opera miliare alle miglia della malinconia, comincia un nuovo dialogo.

Libro bianco. Un titolo potente per un libro che pare il “programmatico” capolavoro di Piero Scanziani. Come mai?

Lo spiega molto bene Vittorio Vettori nella prefazione all’edizione del 1979 di Libro bianco, da lui definita la prova più ardua dello scrittore, paragonandola all’irripetibile capolavoro dantesco per tutta una serie di motivi secondo i quali Scanziani, con l’illustre compagnia di tutti i maggiori esponenti del Novecento letterario, da Claudel e Péguy a Eliot e Pound, da Rilke a Broch e Joseph Roth, da Mandel’štam e Pasternak a Solženicyn e Sinjavskij, si è dovuto impegnare, direttamente o indirettamente, nel più scomodo dei confronti quello appunto con Dante, a partire proprio da una rinnovata considerazione della vita nell’ottica di ciò che sta oltre la vita. Secondo Vettori:

“L’autore di Libro bianco mostra, di sapersi muovere agevolmente sul terreno della tematica più impegnativa con la quale possa cimentarsi uno scrittore creativo. L’impegno sottintende naturalmente una certa dose di ascetismo e in primo luogo si esprime nella serietà e severità del mestiere (di vivere, certo: e poi di rivivere la vita scrivendo), nell’amore del lavoro ben fatto, nella coerenza e continuità di una fatica durata per più di quindici anni”.

Scanziani, infatti, diede inizio all’opera nel 1952, a Taormina, la portò avanti negli anni successivi, a Roma, pubblicandone nel ’58 un ampio estratto intitolato provvisoriamente Giudizio di Adamo e offerto in sole cento copie fuori commercio agli amici della Collana di Lugano (direttore Pino Bernasconi), la portò a termine negli anni 1967 e1968 tra Capri e Roma, per darla finalmente alle stampe nel dicembre del 1968 col titolo definitivo di Libro bianco per i tipi dell’Elvetica. L’anno dopo a Losanna vince il Veillon, premio internazionale per il romanzo. Quest’anno l’opera è stata appena ripubblicata dall’editore Utopia di Milano.

Libro bianco, che si distingue per l’estrema ricchezza della trama, comincia come un giallo, un uomo viene ucciso a colpi di rivoltella dal rivale in amore, cade sul pavimento e si ritrova sdraiato e nudo su un grande prato circondato da innumerevoli esseri umani, tutti nudi come lui, che parlano linguaggi sconosciuti e con i quali non riesce a comunicare. Lo scrittore attraversa con lui l’estrema soglia del vivere e si trova in lui e con lui nel mezzo di uno sterminato paesaggio umano. Su questa invenzione narrativa, già sufficiente da sola a “far tremar le vene e i polsi”, se ne inserisce un’altra e il racconto assume l’aria di ultimo giudizio con cinque personaggi mascherati che hanno ruolo e funzione di giudici, mentre Pablo, il protagonista, insieme ad occasionali compagni, viene misteriosamente sospinto nel luogo del dibattimento. Imputati là sono tutti gli uomini nella persona di Adamo. È il «giudizio di Adamo», condotto dal narratore con rara maestria.

Piero Scanziani (1908-2003) insieme a Magì

Da questo momento in poi la grande storia di Adamo ed Eva si lega e si alterna a quella dei loro difensori e a quella di alcuni personaggi all’esterno dell’edificio, personaggi che Pablo incontra nei momenti d’intervallo del processo e le cui vicende rimangono impresse fortemente nel cuore dei lettori: la recluta che trova il coraggio dell’eroismo per salvare i propri compagni, la vecchia che cerca affannosamente degli abiti per coprire le proprie nudità rese ignobili dalla vecchiaia, il marinaio che non riesce a salvare il figlio dal naufragio in cui egli stesso perisce, e immense turbe d’uomini, bianchi, gialli, neri, uomini e donne, bambini.

Alla fine, qualcosa muta, un incontro, una presenza… Ecco come interpreta Vittori Vettori la conclusione di questa immane vicenda:

“Da qui la conclusione del romanzo, che si compie nella sacralità del ritorno alla condizione più propriamente umana, che è una condizione di gioia pura, riguadagnata attraverso la sofferenza. Tale è l’ultima scena del romanzo: Pablo riscopre giubilando la presenza soccorrevole della madre («alta su tutti, in una luce opulenta di paradiso, tenera e bellissima regina»); e intanto Eva si accorge che dietro le maschere i cinque giudici non esistono (forse condannati all’inesistenza da quello stesso numero cinque che è simbolo di trasmutazione e passaggio e – secondo i Pitagorici – di nuzialità?) e che il grande libro del giudizio è bianco”.

La grande capacità del narratore, ormai totalmente acquisita negli anni della ininterrotta pratica letteraria, si esprime verso l’attenzione raffinata alle caratteristiche strutturali: la struttura di questo romanzo è quadrata con i suoi quattro capitoli di apertura e con i suoi quattro tempi successivi (Tempi di Adamo, Tempi di Eva, Tempi di Caino e Tempi di Set) alternati con altri quattro capitoli intermedi e finali.

Libro bianco è dedicato alla madre dell’autore, ed è alla madre che il personaggio principale, Pablo, dedica un’appassionata apologia nel corso di una immaginaria deposizione resa dinanzi all’immaginario tribunale. Nella sua risposta a Vettori, pubblicata come postfazione nell’edizione del 1979 col titolo di Terza lettera a Vittorio, Scanziani rivela quale sia stata l’istigazione che l’ha mosso a ritroso verso Adamo ed Eva ed esprime con straordinaria attualità il suo sentire verso l’universo femminile, prendendo a pretesto le sue contemplazioni del finimondo di Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto, in cui le donne vengono seviziate dai demoni e trattate con molta severità.

“Adesso, tanti anni dopo l’inverno d’Orvieto, dopo le crudeltà del Signorelli, mentre ormai Libro bianco sta per riapparire in edizione definitiva, ho inaspettata notizia d’un poeta medievale tedesco, Konrad von Würzburg, che ha risolto il suo Finimondo con un gesto: Maria indica a Dio il proprio grembo e ciò basta per la salvezza di ciascuno e di tutti. Credimi, caro Vittorio, l’età del ferro termina fra queste sue ultime convulsioni, albeggia l’oro, nuovo Medio Evo. Sempre con un gesto la donna salva l’universo”.

Ricordo, tra l’altro, che proprio Libro bianco fu l’inizio della breve ma feconda amicizia con Mircea Eliade: è così?

È proprio così. Mircea Eliade lo espresse in una lettera commovente, strappata a fatica ai dolori della malattia reumatica che lo affliggeva: Caro Piero Scanziani, come ringraziarLa? Da due settimane mi sono immerso nei suoi libri. (Una cataratta, per ora inoperabile, limita la mia lettura a tre, quattro ore al giorno). Dopo Aurobindo, l’appassionante Avventura dell’uomo, poi I cinque continenti e gli straordinari incontri di Entronauti! M’inoltro, adesso, meravigliato in Libro bianco… Vorrei parlarle più a lungo. Ahimé! Scrivo con fatica (artrite reumatoide) e non sono capace di dettare (ho provato il dittafono, ma i risultati mi deprimono!) Ancora una volta, grazie! In tutta sincerità e amicizia, il suo Mircea Eliade”.

A proposito di grandi nomi e di grandi ‘fonti’. Quali erano i libri-totem di Scanziani? Da chi si faceva ispirare e chi leggeva dei suoi contemporanei?

Le prime letture significative risalgono intorno ai dodici anni e negli anni a venire. Durante una visita a Piero, che si trovava in collegio, la mamma gli porta L’occhio del fanciullo di Luciano Zuccoli; nell’età del ginnasio al collegio Gallio di Como, un suo compagno esterno riesce a portargli parecchi libri, anche quelli proibiti dai severissimi religiosi che si prendevano cura dei ragazzi, fra essi: Pitigrilli, Mario Mariani, Guido da Verona. In quell’epoca (14/15 anni) Piero stava entrando in confidenza con Schopenhauer e Nietzsche. Nello stesso collegio scopre il De Marchi de L’età preziosa. Il De Marchi consiglia agli adolescenti di segnare su un taccuino gli argomenti che stanno loro a cuore e di collocare sotto ogni argomento i brani inerenti incontrati nel corso delle letture. Piero prepara i suoi quadernetti e sceglie come argomenti: Anima, Amore e Dio. La sua insicurezza lo spinge a leggere Il mondo è tuo di Ellick Morn e Le pouvoir de la volonté di Paul Jagot. S’innamora di Un uomo finito di Papini. Si potrebbe ricordare a questo proposito che in quei medesimi anni, in un’altra terra di confine del mondo neolatino, e cioè in Romania, un coetaneo di Piero, che era il giovane Mircea Eliade, leggeva anche lui con lo stesso entusiasmo le medesime pagine papiniane. Durante il liceo, marina la scuola per andare a immergersi nei libri della vicina Biblioteca dell’Accademia di Brera. Il liceo è il momento delle letture, ma anche quello dell’incontro con l’amicizia: Edoardo Anton, figlio del commediografo Luigi Antonelli e della scrittrice Lucilla. È il primo affacciarsi al mondo letterario. Edoardo è intelligentissimo e nascono con lui le prime chiacchierate ‘fiume’, li accomuna la passione di scrivere e persino la sorte familiare, entrambi, come sono, figli di genitori separati.

Ebbe al Parini come docente di filosofia, Antonio Banfi e il grecista Mario Untersteiner. Fra i compagni il genetista Claudio Barigozzi e un futuro politico, il repubblicano Giuseppe Tramarollo. Il liceo, purtroppo, si conclude con una solenne bocciatura in tutte le materie, che lo precipita in una grave crisi riguardo al suo futuro. Così ne parla in Annali:

“Il liceo, cos’è il liceo, quando sei innamorato tanto da trascorrere giorni interi davanti alla sua casa, per vederla ancora un istante alla finestra? Gli insegnanti, la cattedra? Regole, nozioni, date, formule, irrealtà e invece tu vuoi sapere: sapere chi sei e chi sono gli altri e l’amore e l’infelicità e la vita e la natura. Vuoi sapere tutto. Allora non perdi il tuo tempo al liceo in via Fatebefratelli, corri invece alla sterminata biblioteca di Brera e lì trascorri i tuoi giorni, le settimane e i mesi: lì leggi centinaia di libri, prendi migliaia di appunti, immense confusioni, talune chiarezze, sempre rinascenti curiosità”.

A Berna, nel 1939, Sri Aurobindo diventa il suo Maestro e il suo punto di riferimento: paradossalmente attraverso di lui, indù, torna alla propria radice cristiana e alla spiritualità. Il seme era stato gettato da un amico e poeta francese, Camille Delaux, conosciuto proprio a Berna. Con Delaux aveva visitato per mesi ed anni tutti i monasteri contemplativi dei dintorni e ne aveva tratto grande pace interiore. Delaux afferma che in quel periodo Piero amava Proust, Croce e Ungaretti, ma amava anche Maurice Magre e Georges Barbarin e i loro libri occupano un posto importante nella sua biblioteca.

Conobbe e amò anche l’opera di Romain Rolland sul quale tenne una conferenza all’Università Bocconi a Milano e del quale fece pubblicare nella Collana Testimonianze dell’Elvetica Edizioni di Chiasso La vita di Ramakrisna. Amò molto anche gli autori teatrali del suo tempo: Pirandello su tutti, Praga, Niccodemi, Antonelli, Chiarelli, Rosso di San Secondo ed Edoardo Anton. Lesse con entusiasmo Aldous Huxley e il suo quasi “compatriota” Hermann Hesse. Quando diresse la Collana Testimonianze per l’Elvetica edizioni lavorò con Alessandro Bausani, con il quale era in rapporto cordiale e con Jean Herbert, pubblicando il suo libro La spiritualité hindoue.

Fu anche molto amico di Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer: per Albertazzi, reduce dai successi de L’idiota di Dostoevskij alla RAI, scrisse il suo unico dramma, Alessandro, sugli ultimi giorni di vita di Alessandro il grande, che si accorse, solo mentre moriva di non essere un dio immortale. Con quest’opera vinse il Premio Ugo Betti nel 1967. Fu amico fraterno di Alberto Savinio, appassionato lettore di Felix, che cercò di togliergli l’innata timidezza e lo portò con sé da Maria Bellonci, fondatrice del Premio Strega, nel salotto letterario più famoso di Roma. Ma, pur essendo molto legato a Savinio, questo tipo di frequentazioni non erano quelle che Scanziani prediligeva. Ancora due nomi prestigiosi nel giro delle amicizie e delle letture: Giuseppe Prezzolini che si era trasferito a vivere a Lugano e che Piero visitava regolarmente e Franco Enna, generoso amico degli ultimi anni: Franco, che avrebbe voluto realizzare insieme a lui un progetto editoriale, veniva spesso a casa nostra nel pomeriggio e i due parlavano insieme fitto fitto, ore ed ore.

Scanziani al cospetto di Audrey Hepburn, sul set di Vacanze romane

So che a Roma aveva intrecciato un forte legame intellettuale con Cristina Campo e con Elémire Zolla: può dirmi qualcosa in merito?

Nel periodo romano sviluppò un’amicizia profonda per Cristina Campo e per Elémire Zolla. In particolare, si recava spessissimo a casa di Cristina, di cui conosceva tutta l’opera e quando si recò al Monte Athos, lei lo pregò di portarle la reliquia di un anacoreta, dandogli in cambio una bellissima stampa con l’immagine di un Arcangelo che ancora troneggia in una camera della nostra casa. Si vedeva spesso anche con Elémire che era molto selettivo nelle sue amicizie. Quando ci trasferimmo in un villaggio del Ticino che si chiama Morbio Inferiore, Elémire, incontrato a Lugano, gli parlò del Santuario di questo luogo e della sua importanza come centro di esorcismi.

Le faccio altri due nomi. Indro Montanelli e Massimo Scaligero. Che rapporti avevano con Scanziani?

Indro Montanelli è stato un grande amico, tanto da trascorrere un lungo periodo a Berna, ospite di Scanziani, quando era in fuga dall’Italia fascista. Entrambi stavano scrivendo un romanzo: Montanelli Qui non riposano e Piero Felix. Uno scriveva con la stupenda fluidità del toscano, l’altro con la fatica del lombardo che deve curare ogni parola. L’amicizia si è conservata fino agli ultimi giorni di vita di Montanelli, che conobbi anch’io, con frequenti contatti fra i due. A Roma, nei primi anni ‘30 incontra il filosofo e asceta Massimo Scaligero: è il secondo amico dell’anima dopo Edoardo Anton, ne legge tutta l’opera, man mano che viene pubblicata, si scambiano i reciproci libri, sempre con la stessa dedica “A Frate Piero, Frate Massimo” e viceversa. Attraverso Scaligero incontra l’opera di Julius Evola L’uomo come potenza che lo stupisce; legge e incontra l’opera di Lanza del Vasto, di Rudolf Steiner, tutta l’opera di Sri Aurobindo e di Mère. Entrambi, Piero e Massimo, scrissero ad Aurobindo, ma egli rispose solo a Piero, determinandone il destino interiore. Fu Massimo Scaligero che, conoscendomi, indusse Piero a sposarci e intuì misteriosamente durante una telefonata che ero in attesa del nostro unico figlio.

Scanziani dà l’idea di essere un uomo alla costante ricerca del sacro, senza pregiudizi né opzioni cattedratiche. Ha interpellato i fisici americani e le medium londinesi, ha incontrato i monaci dell’Athos, ha scritto la biografia di Sri Aurobindo, di cui fu discepolo. Come riusciva a tenere insieme Oriente e Occidente, cristianesimo e scienza, cosa lo guidava?

Lo guidava la certezza che l’incontro autentico con il sacro può essere perseguito solo attraverso la via mistica. La via mistica è esperienza e tale esperienza è la medesima in Oriente come in Occidente: al vertice, tutte le esperienze religiose s’incontrano.

Quanto al rapporto con la scienza, i suoi libri sono ridondanti di testi che rimarcano il suo interesse scientifico, vivissimo, soprattutto nel tentativo nobile di comprendere la vita umana e quella animale, vegetale e minerale e avere una visione totale dell’universo; proprio per questo, quando pubblicò a puntate Avventura dell’uomo su Tempo illustrato, molti lettori lo presero per un medico e si rivolgevano a lui chiedendo consigli di ogni sorta. Alla scienza ha spesso rimproverato il fatto di concentrarsi solo sull’esperienza sensibile che non esaurisce l’infinita gamma dell’esistere.

Scanziani nel suo studio con il figlio piccolo, Gabriele

Le faccio una domanda sul lascito di Scanziani. Uno studioso che voglia investigare la sua opera, i carteggi, i diari, come può fare? Esiste un ente, a vent’anni dalla morte, che cura il lavoro di Scanziani?

È il lavoro di cui mi sto occupando adesso. Finora tutto il lascito di Scanziani, che comprende tre aspetti molto importanti: la sua interessantissima biblioteca, l’archivio della corrispondenza e delle relazioni che intrecciò nel corso della sua lunga vita e, infine, l’archivio letterario con varie redazioni e varianti delle opere pubblicate e dei testi inediti, è rimasto custodito da me, non è stato messo a disposizione degli studiosi e degli interessati. Sto proprio cercando un ente che possa assumersi l’onore e l’onere di curare questo lavoro e trarne tutti gli elementi che possano interessare studiosi ed appassionati. È opportuno considerare che questo scrittore, nato nel 1908 e spirato nel 2003, concentra in sé tutto il ’900 con le sue conquiste e le sue tragedie: è lo specchio delle nostre radici e insieme la luce che ci guida a un futuro migliore.

Gruppo MAGOG