Il sacro, come percezione dell’ulteriore, sentore di ciò che trascende la materia, ne è perpetua ipotesi di senso e sorgente. Teso come un arco al cielo a tali sfere è il percorso esistenziale e letterario di Cristina Campo: pseudonimo prediletto di Vittoria Guerrini, quell’anima prescelta che, tenendosi voce fuori dal coro, fu ardita vestale di cose imperdonabilmente celesti in un’epoca di fallaci sovversioni e fatue avanguardie: in quel Novecento dal progresso lineare in cui banalità e volgarità, figlie del consumo, fecero fatale irruzione, riducendo via via l’interiorità a una larva silente, asservita al più ottuso e sterile materialismo.
La vita di Cristina, cronologicamente, crudelmente, vive questo tempo storico; ma è invece una continua ricerca d’intimità con il sacro, un continuo esercizio di “dissidenza dal gioco delle forze, una professione d’incredulità nell’onnipotenza del visibile[1]” che corrisponde a una peculiare ascesi: dal semplice atto del vedere alla percezione di ciò che davvero esiste:
“e che altro veramente esiste – si domandava Cristina – in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?[2]”.
Maestro in questo trascendere l’apparenza delle cose, per accedere a percezione nitida e purissima, è il poeta:
“Una ardente facoltà di contemplazione amorosa, là dove il possesso sarebbe più naturale e gratuito: forse è questa – contro ogni apparenza – la vera giovinezza; quella che nel poeta, nell’uomo di cuore, si prolunga fino alla morte[3]”.
“Era la scala di passioni e sguardi depositati nei sacrari, queste vive necropoli, fino a stare con loro tra i fiori del possibile e i morti, ad accorgersi di tutto”.
“all’amore che hai fatto rinascere negli atri senza bifore dei pianerottoli dove serrate porte marroni aprono lentamente le braccia infilano nei letti gambe di gigli di santi”.
Come si può, stando nei sacrari con i morti, far rinascere l’amore, aprire le porte a gioiose, sensualissime santità, presenti al visibile? La chiave è quell’accorgersi di tutto, quell’ardente facoltà di contemplazione amorosa: mito, paesaggio, linguaggio sono i tre territori in cui lo splendore – per dire platonicamente – pone il Vero in trasparenza con una filigrana di segni, rimandi, corrispondenze che sono la tessitura dell’invisibile nel mondo.
Il cammino di Cristina, fatto di letture e scritture remote e siderali, è un donarsi monastico, un pregare segreto, che si affina poi nell’essenziale, con una disciplina di sintesi sofferta, quasi alchemica, una trasmutazione aurea: che, dalle più vaste conoscenze, rastrema in un culmine candido, trasfigurato: la nitidezza di un annuncio. Particolari della realtà, siano essi letterari, architettonici, musicali, pittorici, restituiti a ogni loro analogia, finiscono per ribadire un messaggio univoco, convergente all’apice: la spirale melodica, i cromatismi ipnotici del flauto: il cenno liturgico, magnetico e ineludibile, della chiamata del destino.
Vocazione di Cristina è, in scrittura e presenza, essere testimone: di un denominatore, di un’essenza, che affiora per lei chiarissima dagli eventi, dalle relazioni, dalle opere dell’umano ingegno: esiziale e salvifica, questa norma del creato sporge in sfavillanti ossimori, in adorabili chiaroscuri, che feriscono il cuore di transitoria bellezza. La cosa viva che risplende e muore, lama fredda dell’incanto, le sussurra, nel perenne soffio dello Spirito, la verità della croce: l’equilibrio perfetto, nella durata, tra rinuncia e salvezza. Notizia mai esaurita, da portare con la propria arte, facendone ordigni di meraviglia: il “giacinto azzurro che attira col suo profumo Persefone nei regni sotterranei della conoscenza e del destino[6]”.
Chi intende l’avvenenza quasi insostenibile di tutta la persona di Cristina Campo – la scrittura poetica, saggistica, epistolare, la traduzione, la lealtà amicale, la tenerezza di ogni suo gesto, l’attivismo e la solidarietà, l’umiltà dell’anonimato, la nobiltà del dono costante e taciuto, l’ardore che sfida il male nella corporea fragilità, l’umorismo sprezzante e raffinatissimo, l’intima preghiera segreta, l’armonia assoluta con cui benedisse la terra della sua presenza – come mero estetismo non ha compreso il cammino di ostinata santità che questa creatura intraprese, apparentemente in ambito letterario, che letterario propriamente non era, attraverso la progressiva sublimazione dell’io: nell’abbandonare ogni postura cupida e desiderante – quell’immaginazione che secondo Simone Weil chiude tutte le vie della grazia – per giungere all’angelico accorgersi di tutto cui fa riferimento Silvia Bre: weiliana attenzione, purificata contemplazione che, come in Cécile Jeanne Bruyère, religiosa da Cristina tanto amata e segretamente curata sotto falso nome[7], prelude alla carità perfetta in cui il sacro si disvela. Cioè l’amore riacceso, a testimonianza e salvezza, di cui parla Francesca Serragnoli.
Fiaba, poesia, liturgia: i tre gioielli di sintesi simbolica che creano zone puntiformi esenti da tempo e spazio, in cui l’invisibile trapunta il visibile dandosi in figura. Istanti che si sollevano dalla legge di necessità, per accedere a un altro ordine di rapporti, quello del sopramondo: l’eroe di fiaba confida nell’impossibile, e la sua folle fiducia lo porta a miracolose metamorfosi, a inattesi risarcimenti che accorrono nella sua vita a soprammercato, dopo il vero punto di arrivo del viaggio, che è la conversione del cuore.
“Con un cuore legato non si entra nell’impossibile[8]”: questo il messaggio ripetuto di Cristina: il soprannaturale precipita solo nel campo immacolato della rinuncia a sé stessi.
Similmente la poesia, epicentro di sintesi e fulgore, è il risultato di una precipitazione artistica in un campo dove si sia praticata l’attesa, quella “virtù negativa” che tutto amministra: è dopo “astensione e accumulo” che “l’ignoto liquore dell’idea” cade nel “vaso d’oro” della figura: che preesiste, nel poeta, incompresa, spesso fin dall’infanzia. Come la grazia prende dimora nei cuori che praticano la kenosis, lo svuotamento di sé, sulla traccia di Cristo.
La vocazione alla scrittura era per Cristina, in questo preciso senso delle cose, di natura evangelica: testimonianza e restituzione nello splendore, tentata condivisione di lacerti di salvezza. Astensione e accumulo sono gesti liturgici, che invocano la presenza del sacro: non mediante la commozione dei sensi, come tanta poesia reclama, ma mediante l’esattezza della disciplina, che è silenzio, umiltà, studio serratissimo. La bellezza scorga così per precipitazione, come l’impeccabile volteggiare del danzatore dopo tanto provare: così lieve, eppure così fondato, sofferto. E come accadeva in Chopin: dove la grazia della melodia si sollevava ariosa, leggiadra, quasi immemore di ogni fatica; e i turbati e i rubati che animavano la mano destra erano disciplinati dalla temperanza ritmica della sinistra, divenendo ancora più struggenti perché frenati nella misura.
La passione per la perfezione estenuava la poetessa, non per vanità ma per il mandato di una scrittura che fosse sempre rifondante, foriera di senso rinnovato. Così, nella ricerca di assoluta precisione della parola, la poiesis di Cristina coi suoi geometrici magnetismi, col suo cangiante archetipare, rifondava il mondo: accendeva simboli e dava segni, evocava obliquamente i principi primi, inafferrabili ma intuibili mediante una lettura brillantissima e multiplanare della realtà: le tematiche più disparate, rischiarate da fervente attenzione, convergevano a un immobile disvelarsi, che sempre aveva a che fare col destino.
Cristina dimorava dolorosamente negli smeraldi di quest’ardente contemplazione, e perseguiva col proprio talento quell’apostolica restituzione di significato che puntava come una freccia all’invisibile.
Come ogni fiamma, che dà luce nella consunzione della materia di cui si nutre, quest’anima poetica ha sacrificato ogni stilla di salute e di genio al servizio dell’amore, per lasciare una mappa segreta, che aprisse “nel blocco cieco del mondo, i mille punti di fuga verso il regno della bellezza soprannaturale[9]”. Come la fiamma, con le sue lingue trasparenti, ma così dorate e scarlatte, ha sempre un centro scuro, laddove si consuma la lotta incessante tra ardore e materia che arde, così Cristina ha fatto di sé stessa una torcia nella notte, conducendo una strenua lotta con la propria opacità di essere umano.
E infine, come nella vita convergono vecchiezza e infanzia, in un rinnovarsi di rapporti e significati che ribadiscono con maggiore ampiezza e profondità i cenni dell’origine, così la liturgia, terzo e presentissimo elemento d’amore in Cristina, si rivela la fiaba più vera, la più raffinata poesia: per il suo assoluto indicare il senso cristico dell’esistenza umana: l’adesione compiuta e gloriosa al proprio destino.
La parola di Cristina Campo è un incendio, tenero e severissimo, destinato a restare vivo, perché acceso da una creatura eletta che, dissipandosi pienamente, ha avuto come soprammercato di non esaurire mai il proprio fulgore. Sovrana di una parola che apre ma non spiega, ha indicato in mille modi l’immutabile centro da cui tutto si dipana, e a cui tutto converge, facendo di sé stessa un esempio di soprannaturale splendore.
Isabella Bignozzi
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Il testo è parte di una comunicazione presentata al convegno «Il sacro poetico», svoltosi a Roma a cura di Marco Colletti, Tiziana Colusso e Ilaria Giovinazzo, presso la Biblioteca Alessandrina – sala Bio-bibliografica Piazzale Aldo Moro 5, Roma, in data 13 aprile 2024
*In copertina: Georges de La Tour, Maddalena penitente, 1635/1640
[1] Nota introduttiva dell’autrice in Cristina Campo, Gli imperdonabili, a cura di Guido Ceronetti e Margherita Pieracci Harwell, Adelphi 1987
[2] Cristina Campo, Una rosa, in Fiaba e mistero, Vallecchi 1962, poi in Il flauto e il tappeto, Rusconi 1971, ora in Cristina Campo, Gli imperdonabili, a cura di Guido Ceronetti e Margherita Pieracci Harwell, Adelphi 1987
[3] Vittoria Guerrini, Due poeti, in «Il Giornale del Mattino», 28 giugno 1955, p. 3, ora in Cristina Campo, Sotto falso nome, a cura di Monica Farnetti, Adelphi 1998
[4] «Silvia Bre», Cahiers d’études italiennes [En ligne], 36 | 2023, mis en ligne le 28 février 2023, consulté le 06 janvier 2025. URL : http://journals.openedition.org/cei/12541 ; DOI : https://doi.org/10.4000/cei.12541
[5] «Francesca Serragnoli», Cahiers d’études italiennes [En ligne], 36 | 2023, mis en ligne le 28 février 2023, consulté le 06 janvier 2025. URL : http://journals.openedition.org/cei/12531 ; DOI : https://doi.org/10.4000/cei.12531
[6] Cristina Campo, L’intervista, a cura di Antonio Altomonte, in «Il Tempo», 16 aprile 1972, ora in Cristina Campo, Sotto falso nome, a cura di Monica Farnetti, Adelphi 1998
[7] Cècile J. Bruyère, La vita spirituale e l’orazione, prefazione di Benedetto P. D’Angelo (Vittoria Guerrini), Rusconi 1976
[8] Cristina Campo, Della fiaba, in Il flauto e il tappeto, Rusconi 1971, ora in Gli imperdonabili, a cura di Guido Ceronetti e Margherita Pieracci Harwell, Adelphi 1987
[9] Cristina Campo, Con Lievi mani, in Il flauto e il tappeto, Rusconi 1971, ora in Cristina Campo, Gli imperdonabili, a cura di Guido Ceronetti e Margherita Pieracci Harwell, Adelphi 1987