27 Aprile 2021

“Bellezza, la micidiale”. Cristina Campo, per un compleanno

Ottobre 1963: da Manziana, Roma, Cristina Campo scrive ad Alejandra Pizarnik. “È, tuttavia, bello qui. È la campagna di altri tempi, bruciata dall’estate così come dev’essere, disseminata di papaveri, cardi e ginestre. Conosco i sentieri a memoria come una poesia”, scrive. Poi, con naturalezza meridiana, come se tra albero e verso, tra natura e scrittura non vi fosse distanza, accenna a Ingeborg Bachmann – “potrebbe essere a volte Sua sorella” –, a Simone Weil, infine: “Conosce le tre grandi dame della poesia ancora viventi, Marianne Moore, Ivy Compton-Burnett e Djuna Barnes? Sono tre vecchie donne, le più sole al mondo, il cui genio non cessa di meravigliarmi”. In particolare, Cristina Campo installa Marianne Moore e Djuna Barnes tra Gli imperdonabili: “Miracolosa, speciosa, inflessibile come tutti i veri visionari”, scrive della Moore, “Uno solo comunque è l’affar suo, la sua lode e il suo salmo: l’ardua e meravigliosa perfezione, questa divina ingiuria da venerare nella natura, da toccare nell’arte, da inventare gloriosamente nel quotidiano contegno. Per questo i suoi libri sono buoni compagni sulla piazza della ghigliottina”.

La Campo, si sa, arde per la perfezione più che per i perfetti, è affine al fuoco che affascina dacché consuma, traduce in luce il volgare, imita il falco e di tutto fa fenice, cioè polvere: ama i poeti – come Pasternak, altro sonnambulo confidente – che spariscono per eccesso di bagliore. Il cammeo che dedica a Djuna Barnes è ancora più bello: “è, tra i vivi, colei che meglio abbracciò questo trappismo della perfezione. Si ignora dove sia, dà alle stampe un libro ogni vent’anni, lo stesso suo nome trova il modo, ogni volta, di cader fuori dai repertori, potrebb’essere, per quel che ne sa la gente, la sconosciuta del secolo XVII, una sorta di Inez de la Cruz, di Contessa di Winchilsea”. Della Barnes, CC adorava in particolare The Antiphon, “sua grande tragedia”, edita da Faber nel 1958, non ancora giunta in Italia. Qualcosa stampa Adelphi, il guardaroba della Campo (attendiamo, però, la pubblicazione di altri epistolari, di altre cose oltre il consueto). Nel 1969, su “Conoscenza religiosa” (gennaio-marzo), la Campo traduce una poesia della Barnes, Galerie religieuse:

Il Sangue dell’Agnello e l’orifiamma

sorgono e tramontano sul gheriglio del cuore:

sboccia lieve l’inferno; un angelo trucidato

e mietuto alla terra s’intreccia con entrambi.

Sotto l’arcata dei pizzi di ghiaccio,

in lunghe ali a mannelli, il Coro Angelico

con quadruplici volti, lambenti ed imminenti,

grida alto attraverso pulviscoli di suppliche

scuotendo i ranghi di gigli maestosi,

in Saint-Denis, dove il Suo amore è speso

svanendo sulla bocca del tempo,

impalato alla spina votiva della Quaresima.

Nello stesso numero di “Conoscenza religiosa”, la Campo pubblica una poesia propria, Missa Romana, dove torna l’Agnello (“Dove va/ questo Agnello/ che ai vergini è dato/ seguire ovunque vada…”), in una specie di liturgia lirica, di richiamo/chiamata. La Campo, sparita al mondo, spiritata, viene detta così nella nota biografica: “Si occupa di canto gregoriano”. Era di maschia bellezza, Djuna, morì vecchia, dando cortocircuito alle date (nata nel 1892, spirò nel 1982).

Cristina Campo è lettrice spericolata, che traduce incorporando. Gli ultimi esercizi, pubblicati postumi, nel 1977, sempre su “Conoscenza religiosa”, sono gemelli capovolti. Da un lato Efrem Siro, dottore della Chiesa, grande poeta vissuto nel IV secolo; dall’altra Peter Lamborn Wilson, un contemporaneo, “autore di numerose opere sulla poesia, l’arte, il pensiero islamici e soprattutto persiani” (così la nota a La tigre assenza, il tomo Adelphi che raduna poesie e traduzioni della Campo). Wilson esordisce poeta, in effetti, nel 1975, con The Winter Calligraphy of Ustad Selim & Other Poems, mentre è in India, Pakistan e Iran a studiare il Tantra e a praticare il sufismo. Fonde Timothy Leary a Henry Corbin, tornato a New York abita per un tot con William Burroughs, si scopre anarchico, semidio della subcultura, e prende a firmarsi Hakim Bey; teorizza le TAZ (Zone temporaneamente autonome), cioè la creazione di spazi autogestiti, improvvisi, improvvisati, reali e mentali, per eludere il controllo dei governi (“La TAZ è un accampamento di guerriglieri ontologici: colpire e fuggire, mantenere l’intera tribù in movimento, anche se si tratta solo di dati nella Rete… La Macchina di Guerra Nomade conquista senza essere notata e si muove prima che la mappa possa essere aggiornata”), fonde il misticismo all’anarchismo, lo accusano di pedofilia. Attualmente fa il Diogene a New York, povero ma guru.

La Campo traduce, tra l’altro, questo, da Almanack:  

Brucia benzoino e aloe

lascia il giaciglio la camera dove

giorni di malattia

ore stagnanti annegano gli occhi

in una pozza bruna e senza volto.

Essi sono in dubbio

di una nuova creazione…

e se Egli lo vuole farà

nuovo universo nuovi uomini.

Sopra questo fragile giardino

opale inassorbito

su immoto stendardo di seta mariana

la luna cade all’insù inosservata

in un momento non notte non giorno

traverso i fogli di questo Almanacco.

Il paesaggio è lo specchio dell’occhio…

Cornacchie nei rami:

il blu della contemplazione

riposa sulle loro ali.

Tu non puoi camminare

la memoria sospende persino il fiato.

Nelle lettere a Margherita Pieracci Harwell, scrive, negli ultimi anni, della “bellezza come tremendo retaggio… bellezza come spada a doppio taglio… bellezza come camicia di Nessuno… bellezza perfettamente consolatrice”. Nel breve tabernacolo di poesie pubblicate sul numero di “Conoscenza religiosa” che ne dice la morte (ancora: gennaio-marzo 1977; “diede ciò che qui si pubblica pochi giorni prima della morte”), la Campo, in Canone IV, parla della “Bellezza a doppia lama, la delicata,/ la micidiale” che “è posta/ tra l’altero dolore e la santa umiliazione,/ il barbaglio salvifico e/ l’ustione”. Ed è tutto. Tutto è bellezza, spada.  

Gruppo MAGOG