25 Settembre 2020

“Un uomo che sta per essere ucciso e come ultimo gesto decide di scrivere una poesia, è l’uomo più libero del mondo”. Dialogo con Nicola Bultrini

C’è un legame paradossale, oscuro, tra poesia ed esilio, tra verso e prigionia. Il legame è metaforico, in genere: bisogna ‘uscire di sé’ – cioè, sprofondare nel proprio autentico – per raccogliere la lingua che ci è data, un compito che sovverte e a cui ci si ribella, un po’ come Giona alla chiamata. La poesia nasce sempre da una lotta, da un buio dove abbaia il contrasto. La poesia, tra l’altro, sta in una gabbia – metrica, dove il ritmo prevale sul senso, la musica e l’ipnosi sulla comprensione razionale, frazionata – ed è quella che le consente libertà d’invenzione. Esce dai confini del vocabolario – una prigione, infine – e dal carcere del mercato, la poesia. A volte, però, in tragedia, l’atto lirico è autenticato dalla reclusione. Ovidio scrive i Tristia nell’esilio di Tomi, John Milton detta il Paradise Lost dagli inferi della cecità, Oscar Wilde medita ballate rinchiuso al Reading Goal. Nel secolo scorso gli esempi sfogano in voragine: il poeta ungherese Miklós Radnóti scrive sulla soglia della fucilazione, un involto di versi viene trovato nella giubba del suo corpo, cadavere; l’ebreo Yitzhak Katznelson interra tra i muri Il canto del popolo ebraico massacrato, immane e straziante poema (“Non è paragonabile ad alcun’altra opera nella storia di tutte le letterature”, scrisse Primo Levi), prima di essere eliminato ad Auschwitz. Il prototipo della scrittura espatriata, vessata, nel gesto del mendicare e nell’orgoglio del cantare, a contatto con la morte, gesto di suprema resurrezione è la Commedia di Dante ed è intorno a quel cuore che nasce il libro di Nicola Bultrini, Con Dante in esilio. La poesia e l’arte nei luoghi di prigionia (Edizioni Ares, 2020). Attraversando diversi autori – da Giovannino Guareschi a Iosif Brodskij, da Osip Mandel’stam a Primo Levi –, frequentando l’orrore (la testimonianza di Alberto Sed, ad esempio, che “Non ha mai preso in braccio né figli né nipoti. Perché, mi ha raccontato, ad Auschwitz lo costringevano a lanciare in aria i bambini così che le SS facessero il tiro al bersaglio”), Bultrini ci porta negli inferi del secolo, dove una terzina sotto la lingua è ragione di realtà, fisionomia del vero, con scrittura ferma, cagliando luce dal fango, dal disperato. “C’erano uomini che nel fuoco della tragedia stessa mantenevano un tenace, disperato rapporto con l’arte”, scrive Bultrini. Prima di contattarlo, sono fulminato da due episodi: Anna Achmatova che chiede notizie del figlio Lev, arrestato e imprigionato nel carcere di Leningrado, e canta il Requiem di un’era (“Ho appreso come s’infossino i volti…/ Come dure pagine di scrittura cuneiforme/ Il dolore tracci sulle guance”). E poi Varlam Šalamov, il grande scrittore dei Racconti della Kolyma, che nel 1952, in carcere da un ventennio, scrive a Boris Pasternak, “Conosco persone che sono vissute, sopravvissute grazie ai Suoi versi, grazie alla percezione del mondo che i Suoi versi comunicavano… Ha mai pensato a questo? Agli esseri umani che sono rimasti esseri umani soltanto perché con sé avevano le Sue parole, i Suoi disegni e pensieri? Che i Suoi versi venivano letti come preghiere?”. Nient’altro si chiede alla poesia che questo affacciarsi all’ostia, disfarsi in preghiera. (d.b.)     

La scrittura in prigione, la scrittura imprigionata, la scrittura come prigionia. Tra tragedia e metafora traggo questo concetto dal tuo libro. È corretto?

Nella spontaneità della comunicazione e della espressività, la scrittura si pone certamente come gesto eversivo che costringe ad una forma chiusa e soprattutto impone un limite all’urgenza del dire. Tuttavia, in ogni forma d’arte, il linguaggio codificato nei segni, è una garanzia, non solo di conservazione, ma anche di libera espressione. Del resto, la repressione delle forme di scrittura nei lager era dovuta anche al fatto che gli aguzzini semplicemente non capivano la lingua e ciò che “nascondeva”. Infatti, se l’avessero capita, difficilmente avrebbero compreso tutta quello spettro di significati che la lingua conteneva. Ecco allora che la prigionia imponeva di affidarsi a codici autosufficienti e al tempo stesso fruibili da chi ne avesse bisogno. Mi viene da pensare al libro di Gugliemo Petroni Il mondo è una prigione, in cui racconta la sua esperienza di internato nel carcere nazifascista di Via Tasso a Roma, durante l’occupazione tedesca. Il titolo è un paradosso, ma rende l’idea di come si debba individuare la vera libertà. Il mio libro in un certo senso vorrebbe testimoniare la potenza salvifica di questo paradosso. Quanto più l’uomo è prossimo all’annientamento, proprio ad opera dei suoi simili, tanto più rivendica e riscatta la sua umanità attraverso l’arte, che a ben vedere è una disciplina che tuttavia, non costringe ma libera.

L’episodio più potente, più commovente che racconti: qual è?

Seguendo il mio ragionamento, forse il caso di Miklós Radnòti, poeta ungherese, ebreo, che fu deportato e rinchiuso in vari campi di concentramento. Venne ucciso il 10 novembre del 1944, quando aveva solo trentacinque anni e gettato in una fossa comune. Fino all’ultimo scrisse poesie. Così, quando nel 1946 il corpo fu riesumato per dargli una degna sepoltura, nella tasca dell’impermeabile che aveva ancora indosso, fu trovato il suo ultimo taccuino di versi. Nell’ultima pagina, la sua ultima poesia in cui descrive la morte di un suo compagno violinista, ucciso con un colpo di pistola alla nuca, così come poi lui morirà. Ho pensato: un uomo che ha già vissuto sulla sua pelle la violenza, la tortura, la tragedia, che sa che sta per essere ucciso e gettato in una fossa comune, ma che ciò nonostante, come ultimo gesto decide di scrivere una poesia, ebbene questo è l’uomo più libero del mondo.

Di Mandel’stam, grande interprete e ‘amico’ di Dante, mi sorprende sempre la pia leggenda: nei convogli che transitavano i prigionieri di campo in campo, accudiva la nostalgia dei compagni recitando a memoria le sue traduzioni da Petrarca. La poesia pare una sequela e un falò. Credi, in qualche modo, che la letteratura salvi la vita?

Ad essere sinceri, dobbiamo ammettere che una poesia non ha mai impedito una guerra, un omicidio, un olocausto. La risposta dovrebbe quindi essere un no. Ma a pensarci bene anche una guerra, un omicidio, fanno parte della vita. Della vita però che si ripiega su sé stessa, si fa muta, sterile, diventa cieca rinuncia. La poesia (come tutta l’arte) allora, tende sempre verso l’alto. È una pratica ascetica con cui l’umano si oppone al nulla che piega la vita. Tuttavia, non come “gesto politico” (il mantra di questi nostri giorni vacui). L’arte viene ben prima rispetto al gesto ideologico e si rivela in una sfera più profonda, suscitando l’urgenza intima dell’uomo di riaffermarsi universale a dispetto di ogni orrore materiale.

Scrivi: “La lettura della Commedia… può essere vissuta anche come pratica ascetica, realizzata come esercizio corporale, respiratorio, costruito sulla lingua”. Cosa intendi?

In un certo senso è quello che suggerisco di fare a chi vuol celebrare personalmente i 700 anni dalla morte di Dante, ovvero rileggere tutta la Divina Commedia. Ma rileggerla senza affidarsi alle note o ai commenti, bensì semplicemente, come possono averlo fatto la maggior parte degli internati nei lager. Quando ho iniziato a scrivere il libro, ogni mattino, prima di uscire di casa, leggevo un Canto. Dieci minuti, non di più. Ebbene, mi sono accorto che accadeva una cosa particolare, e cioè che alla fine della lettura percepivo una sorta di levità del pensiero. Poi ho capito. La lettura ininterrotta di 140 endecasillabi in rima (di tanto consta ogni Canto) era un vero e proprio esercizio respiratorio. Perché, nella nostra lingua, l’endecasillabo asseconda perfettamente il ritmo del respiro e della parola (non sarà certo un caso che è il nostro metro per eccellenza). Anche la preghiera, i salmi, le sure coraniche, la recita del Santo Rosario, funzionano allo stesso modo. Alla fine della lettura, in quel momento, la coscienza/conoscenza accede a un altro livello. Quella specie di rilassatezza fisica provoca una forma di ascesi spirituale, che apre ad una meditazione. E forse è proprio lì che inizia la vera preghiera.

Nel tuo libro, in fondo, Dante è lì, tra il filo spinato e i carri armati, allo zenit dei campi di sterminio, nel cuore della Seconda guerra. C’è qualcosa di profetico, di tormentato e di luminoso in questo, come se il poeta fosse un amuleto… Cos’è la Storia?

Nella Commedia, Dante ha metaforizzato tutta la casistica dei comportamenti umani, che in fin dei conti sono sempre gli stessi. Per questo secoli fa, come oggi, l’opera può essere considerata uno straordinario strumento di decodificazione della realtà. Ciò era tanto più vero nei campi di concentramento per gli internati, che si trovavano a dover interpretare una realtà assolutamente straniante. La vita nei lager apparteneva a una dimensione totalmente sconosciuta (e per molti versi neppure immaginabile). Chi si trovava a vivere quella realtà poteva rimanerne travolto e annientato, a meno di non decifrarla, tradurla in un significato intellegibile. Il viaggio che Dante compie è non solo una discesa agli inferi, ma anche una lenta e dolorosa risalita, una riconquista. È un cammino di redenzione, anche in senso laico, è un percorso di ripensamento del proprio destino (che non è sinonimo di caso). Gli internati avevano bisogno di rileggere la propria vita, il proprio percorso, quindi di conoscere la realtà che stavano vivendo e infine immaginare una prospettiva possibile. Tutti noi prima o poi, ci troviamo a un punto della vita di grande confusione, di smarrimento. E tutti noi abbiamo bisogno di chiamare la realtà per nome, senza infingimenti, senza mediazioni intellettualistiche. La Divina Commedia, che passava di mano in mano, tra gli internati nei campi, era una specie di manuale di lettura del reale, ma anche una testimonianza di speranza. In un certo senso si, un amuleto. Una lente sui giorni, su quell’intreccio sottile dei nostri gesti che costituisce la trama del tempo vissuto, della storia.

Lo scrittore, forse, deve fare esperienza del sottosuolo, dell’incubo, per esprimere la vita. La letteratura può arginare il male?

Una volta, poco prima di morire, Andrea Zanzotto mi disse che compito della poesia è di educare alla bellezza. Detto così sembra facile, ma non lo è. Del resto, non c’è nulla di ovvio nella poesia (in quella vera intendo, non certamente nel “poetese” che ci circonda). Cosa significa educare? Cos’è la bellezza e dove sta? Ma soprattutto, da dove cominciare? La poesia deve sempre aderire alla realtà, il che non vuol dire riferirsi banalmente alla cronaca dei giorni, bensì mettersi in gioco rispetto alla verità del mondo. Giocoforza l’arte come esperienza di conoscenza deve temprarsi nell’incontro violento con l’estremo, con il suo contrario. Il poeta (anche il più “astratto”) deve sempre affondare le mani nel fango, esporsi nudo alle sferzate del vento, sfidare il male dei giorni (come fa Dante), toccare il limite, però non per opporre una raziocinante resistenza, ma per abbandonarsi al mistero. In questo abbandono c’è tutto, l’accettazione del mondo, la consapevolezza dell’essere, la libertà.

*In copertina: un disegno di Goya dal “Cuaderno C”

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