25 Maggio 2020

“Non solo è una delle più grandi poetesse del nostro Novecento, ma una sorta di Emily Dickinson italiana”. È ora di pubblicare come si deve Fernanda Romagnoli

La dico così, spavaldo, a precipizio. Quarant’anni fa, è il 1980, Garzanti pubblica uno dei libri più importanti della poesia italiana, s’intitola Il tredicesimo invitato. Per difetto di vita – autodidatta, maestra elementare “in disagiate sedi di montagna”, casalinga, una vita priva di clamorosi eventi, claustrale, claustrofobica, pressoché a Roma, con la parentesi di qualche trasferimento a Pinerolo, Caserta, Merano – e talento estremo, l’autrice meriterebbe un abito cinematografico, come Vivian Maier, sarebbe, in altri lidi, una autrice ‘di culto’, come Elizabeth Bishop, come Clarice Lispector, certo, una di quelle che atterri all’aeroporto e trovi, in visione abbagliante, su un muro, l’incipit di una sua poesia. Eppure. Fernanda Romagnoli gioca alla sparizione. Quando l’ho scoperta – era il 2003 e la Libri Scheiwiller aveva ripreso Il tredicesimo invitato insieme a una antologia di “altre poesie”, per cura di Donatella Bisutti, che qui interpello per capire e rilanciare – subii un frastuono elettrico. Chiunque legga la Romagnoli – qualche anno fa l’abbiamo letta, in pubblico, a Santarcangelo, insieme alla cantautrice Maria Antonietta – ne resta folgorato. Ha il potere di intuire di ciascuno, di ogni cosa, il vetro e il punto di frattura. È inesorabile. Spesso crudele. Nell’introduzione a quell’antologia – ora introvabile – la Bisutti scrive che la Romagnoli è “simile forse ad alcune grandi poetesse russe del nostro secolo, come Marina Cvetaeva”; più volte cita “la poetessa americana Emily Dickinson, che amava molto e alla quale per certi versi è affine”, per definirne il talento ferino, extracanonico. Non è un’esagerazione. Leggete come parte Capro espiatorio:

Uggiola alla fessura, cagna-luce.
Qualcuno il mio sonno ha legato
quattro zampe in un mazzo. All’aurora
chi aprirà? Voglio alzarmi. Ho paura.
Nel pozzo del cranio
– senza uscita –. Nel buio sacrario
sconsacrato. (La luce come un’unghia
sotto le porte).

Lirica predatoria, questa, di immagini allucinate, a lampi. La Romagnoli, che elesse a maestro Attilio Bertolucci – pubblicò il suo Confiteor per Guanda nel 1973 – e fu premiata da Vittorio Sereni, pare aliena alla tradizione italiana di quegli anni, ha il pregio delle rivelazioni oscure, intoccabili. Al contempo, la Romagnoli è astrale (“Pende fra uno sciame alto di stelle/ dall’abisso notturno la Bilancia:/ sopra il vivere mio lucida, esatta, non turbata dai venti,/ in equilibrio/ fra il cielo già trascorso e quel che resta”) e carnale (“Nei ghetti del mio corpo, certe notti,/ i cinque sensi circolano cupi”), raffinata (“Mia madre la mattina/ stava sola di là, come Dio/ sta sulla terra e sul mare./ Prendeva il giorno nelle sue mani rosse”) e feroce (“Se tu l’ami, lei non ha colpa./ Ma io – la vorrei morta”). Si lacera e ritirandosi, come il pitone, soffoca sé e tutto il resto, fa dell’alveo famigliare nido e tagliola. All’epoca, la onorarono di sontuosi aggettivi. La dilaniò l’oblio, poi – quasi una specie di ansia al massacro, una propensione alla tortura. Ha scritto poesie rapaci e straordinarie; ha avuto legami epistolari con Carlo Betocchi, Andrea Zanzotto, Diego Valeri. Nata nel 1916, morì settant’anni dopo. “Fu feroce/ il dettato di resa. In un minuto/ la tua carne divenne un ectoplasma/ dai gesti icnomprensibili…/ Maturavi/ sola – nella placenta della morte”, scrive in Sola, agghiacciante poesia sulla vecchiaia. Per certi versi, ricorda l’enigma di Cristina Campo – solo che alla Campo è tributato un culto e la Romagnoli fu poetessa eccellente, ben più vertiginosa. (d.b.)

Nel testo in appendice a Il tredicesimo invitato, fai della Romagnoli un caso emblematico della poesia recente. “Il poeta è sempre socialmente poco accettato, almeno finché non è coronato dalla fama: anche allora resta inaccessibile ai più”, scrivi. Come mai è così, cosa è ‘repellente’ o ingiustificabile del poeta?

Credo che dipenda essenzialmente dal fatto che il poeta è un “diverso”. Il diverso, se in posizione di poco conto, suscita diffidenza, irrisione, disprezzo. Se tuttavia questa diversità diviene un valore riconosciuto, come nel caso di un poeta famoso, il rispetto, l’ammirazione, la venerazione rimangono pur sempre forme di allontanamento dal mondo dell’uomo comune: immaginate una statua su un piedestallo e sotto un gruppo di amici che giocano a carte e si scolano allegramente una bottiglia di vino. Situazione che Leopardi nelle sue poesie ci ha reso familiare e che è stata resa bene nel film di Martone Il giovane favoloso. Peraltro, anche quando era già famoso, Leopardi continuava a essere irriso, perfino dai letterati fiorentini. La diversità, anche nel genio, rimane pur sempre una stigmata che condanna alla solitudine, all’incomprensione dei più. Questo succede perché il poeta – parlo del poeta dionisiaco, come lo è stato Leopardi, come lo è stata anche Fernanda Romagnoli – è uno sciamano. Anche lo sciamano era (o, dove ne esistono ancora, è) qualcuno che paga i suoi straordinari poteri con la solitudine e con una sorta di emarginazione. Chi è lo sciamano? Uno che ha rapporti con il mondo dell’Invisibile, ha poteri magici, vede ciò che gli altri non vedono. Una realtà extrasensoriale fa sempre paura, al di là di qualsiasi riconoscimento. Il poeta-sciamano è qualcuno costretto a vivere per necessità di cose contemporaneamente in due mondi: quello del quotidiano e il mondo “altro”. Spesso una situazione sfibrante, sia per l’isolamento che comporta, sia perché egli stesso ha difficoltà a tenersi in equilibrio fra i due. C’è allora chi rifiuta del tutto il mondo del quotidiano, e abbiamo i grandi poeti folli, come Hölderlin, come Dino Campana, e anche Amelia Rosselli. C’è chi, come Rimbaud, a un certo punto decide di smettere di essere un poeta visionario per diventare solo un trafficante d’armi. E chi nell’auto isolamento sposa un quotidiano che si fa segno di un cammino verso l’Invisibile, come la Dickinson. Infine c’è chi, nello sforzo fallimentare di ridurre a un binario parallelo due linee di per sé divergenti, ne muore. È il caso della Romagnoli: incapace di rinchiudersi nello stretto recinto di un quotidiano di casalinga piccolo borghese emblematicamente rivendicato, si direbbe, dalla figlia, che peraltro non accettava lei (ancora oggi si direbbe che questa figlia coltivi nei confronti della madre, scomparsa nel lontano 1986, un inesausto rancore),  ma lei stessa autoesclusasi dal mondo “altro” rappresentato dal riconoscimento della fama letteraria, di cui pure era assetata, e in cui si considerava appunto solo un “Tredicesimo invitato” indegno di essere ammesso (è il titolo del suo libro più famoso, che è in fondo anche il suo unico libro). Presa in questa morsa di una doppia esclusione, di una doppia soggettiva inadeguatezza, Fernanda trovò come unica disperata via d’uscita quella di abbandonarsi a una lunga malattia degenerativa di origine, si può arguire facilmente, psicosomatica, che la condusse non solo alla morte ma anche a un lungo autopunitivo oblio. Spero di aver risposto alla tua domanda. In ogni caso io considero la Romagnoli, ancora oggi troppo dimenticata, troppo poco riconosciuta, non solo una delle più grandi poetesse del nostro Novecento, ma una sorta di Dickinson italiana.  E al contempo un caso psicoanalitico da manuale. E una vittima di una condizione di apartheid femminile ancora oggi, malgrado le apparenze, non del tutto risolta.

E poi scrivi, “Il poeta è sempre un rivoluzionario”. In cosa consiste la ‘rivoluzione’ di Fernanda Romagnoli?

La rivoluzione della Romagnoli è semplicemente quella della grande poesia. L’essenza stessa, la natura stessa della poesia, quando è davvero tale, come nel caso della Romagnoli, è eversiva. Perciò la poesia fa paura al potere. Perciò nel corso del Novecento tanti poeti sono morti, torturati, internati, uccisi, e accade ancora oggi.  Ma non è necessario che il contenuto della poesia sia politico, diciamo rivoluzionario in sé. Anche parlando di un filo d’erba, la poesia grida la nostra aspirazione in quanto esseri umani alla libertà. Perciò il potere, in passato, oltre a reprimerla, ha anche cercato di snaturarla, di darle un passaporto di legalità, di contrabbandarla per una cosa sentimentale per signorine, o al massimo un discorso sui buoni sentimenti, ha cercato di far passare per un poeta sdolcinato da scuola elementare il Pascoli, che è il poeta più europeo del nostro Novecento, il più nevrotico, pieno di torbide pulsioni, ma un grande simbolista che a sua volta ci schiude le porte dell’Invisibile. Anche lui uno sciamano per eccellenza. L’Invisibile: quello al di là della siepe leopardiana, quello anche della Romagnoli in una delle sue poesie più belle, che vorrei riportare qui per intero:

Avvento

Mi scinderò dalla perpetua danza,
dal flusso senza fine che mi porta,
creatura di lucente libertà
– io – che piangete morta.
Invaderò la casa: un solo giro
come fa il lampo.

In consistenza d’aria,
assumerò il colore d’ogni stanza.
Senza toccar le cose – non ho mani –
Senza lasciare firme sugli specchi
– non ho respiro –

Vi stupirà la tenda
che ferma taglia un brivido,
il vermiglio tumulto dei gerani,
lo scompiglio dei libri nell’eremo
della scansia. Poi, subito riemersi
come statue da un vento:
“Che cosa è stato” attoniti
vi chiederete. Diletti, non v’offenda
se durerà il mio avvento solo l’attimo
di rifluire via.

Che cosa sia questo carattere eversivo della poesia avevo cercato di spiegarlo già nel mio saggio La poesia salva la vita in un capitolo intitolato La poesia e la libertà, scrivendo che per la poesia “ciascuno ha nella sua diversità il suo valore e deve realizzare la sua unicità”. Ecco che il discorso è ritornato sul “diverso”, ma ecco anche che la poesia ci dice: la diversità è l’essenza stessa della vita, è un grande pregio, non qualcosa di cui avere paura. Per essere liberi dobbiamo coltivare la diversità. Capovolgere la diversità in valore: ecco la vera rivoluzione. La grande poesia conferisce un valore assoluto a ciò che è unico, all’attimo che cambia di continuo, a ciò che dura un istante come l’Avvento di Fernanda: lo fissa e lo fa entrare  in quella  immortalità che è il regno dello Spirito. E la poesia della Romagnoli ci fa questo proprio straordinario dono. Un dono di cui dovremmo tenere conto specialmente in questo periodo che stiamo infelicemente vivendo, in cui è proprio la diversità – perfino quella dei volti – a venire cancellata.

 Devo dire che quando lessi la Romagnoli, la prima volta, ricevetti una specie di shock. Mi è apparsa, subito, una poetessa di tersa ferocia, verticale. Da dove arriva la Romagnoli, intendo, da quali letture, da quale vita? Come è giunta a quel modo di poetare?

Da dove arriva la Romagnoli? da quali letture? da quale vita? Come la Dickinson, è stata un’isolata, fin quasi all’ultimo lontana dall’ambiente, dalla frequentazione dei poeti. Aveva studiato da maestra, come Ada Negri. Non sappiamo niente della sua preparazione, delle sue letture: non ci ha lasciato scritto niente in proposito, che io sappia. Aveva avuto, prima ancora del suo matrimonio, rapporti epistolari con alcuni letterati. Pubblicato qualche raccoltina. Capitolo poi chiuso col matrimonio e la nascita della figlia, per lungo tempo. Penso che la si possa considerare un’autodidatta. Anche in questo assomiglia alla Dickinson. Della sua vita, al di fuori di quanto possiamo desumere dai suoi versi, non sappiamo niente. Anche perché, quanto ad avvenimenti, non c’è niente da sapere. Una vita che, dall’esterno, chiusa fra le pareti domestiche, appare di una sconcertante banalità, senza avventure, senza guizzi. Ma Fernanda aveva ricevuto le stigmate della poesia, come San Francesco aveva ricevuto le stigmate di Dio. Così assunse Bertolucci come suo Maestro ideale, a un certo punto trovò il coraggio di mettersi in contatto con lui e Bertolucci ebbe il merito di “scoprirla” e di farla uscire da Garzanti nell’80 con Il tredicesimo invitato, che la consacrò. I più grandi poeti e critici scrissero di lei. Poi più nulla. Come una meteora, scomparsa. Un destino singolarissimo, splendente solo per un attimo, poi tragico. Ma tu hai ragione parlando di “ferocia”: questa donna, che si metteva in un canto, quando scriveva aveva la stessa ferocia che contraddistingue la Dickinson: semplicemente entrava in un’altra dimensione.

Come hai conosciuto l’opera della Romagnoli?

La scoprii qualche anno dopo la sua morte, quando era già stata dimenticata, perché da tempo malata, potevano essere gli anni ’90, o forse anche prima: mi diede il suo libro lo scrittore e critico Paolo Lagazzi che sapeva di lei per la sua frequentazione amicale e letteraria con Bertolucci. Ricordo che mi disse: “È la più grande poetessa del Novecento”. Presi in mano il libro a letto la sera, prima di dormire, con un certo scetticismo, ma subito, dopo le prime pagine, pensai che era vero e da quel giorno mi sono battuta per dieci lunghi anni per far ripubblicare la Romagnoli, per farla conoscere a chi ancora non la conosceva, ed erano i più, anche fra i poeti.

Ma lo sforzo che hai fatto per farla emergere dall’oblio pare riuscito a metà; una poetessa tanto grande è di nuovo scomparsa dalla visione editoriale. Come mai?

Sì, la casa editrice Scheiwiller, che l’aveva infine pubblicata, è sparita e insieme ad essa anche il suo catalogo. Il libro di Fernanda è di nuovo introvabile. Certo non può non colpire questo secondo sprofondare della Romagnoli nel silenzio a distanza di pochi anni. Dopo che tanta fatica era costata farla riemergere. Riesce quasi inevitabile pensare che qualcosa di autodistruttivo nel suo spirito era talmente forte che continua ad aleggiare sulla sua opera, come se ci fosse un fantasma di Fernanda Romagnoli, nell’al di là, che seguita a punirsi per il suo non essersi rassegnata a rimanere una semplice casalinga, quale, per un’educazione patriarcale e repressiva, pensava fosse suo dovere accontentarsi di essere, sacrificandosi e annullandosi nelle cure della famiglia. Invece lei si era, almeno in parte, ribellata: aveva avuto l’ardire di inseguire la Voce. Ma, paradossalmente, è proprio dal suo senso di colpa, da quel suo disperato masochismo autopunitivo, dal cozzare dentro il suo animo di un senso di svalutazione di sé con il sentimento nascosto, ma irreprimibile, di essere grande poeta, che ha potuto nascere e librarsi la splendida farfalla della sua poesia.

Dimmi il verso, il crocevia di versi della Romagnoli che ti sembrano straordinari – e perché.

Tutta l’opera della Romagnoli è splendida: per la spiritualità verticale che la anima, per la capacità di sintesi repentine e folgoranti, per certe sue sequenze di versi in cui la tragedia viene fissata con occhio asciutto (la sua “ferocia”) come nell’ultima strofa di Libertà, da cui estrapolo solo alcuni versi: Io sono stanca d’essere tutta pura/…Io qui li attendo./ E bianca come una monaca che abiura/ mi svesto di te, libertà. E poi si tratta di una poesia di altissimo livello stilistico: ho usato alcune poesie della Romagnoli in miei corsi di scrittura: un fittissimo, sapientissimo intrecciarsi di suoni che, richiamandosi fra loro, la percorrono tutta e ne esaltano il significato, lo amplificano in infinite vibrazioni, fa pensare alla trama di uno stupendo tappeto, che ha pochi paragoni anche nella nostra più alta poesia.

*In copertina: una fotografia di Saul Leiter

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