28 Maggio 2022

“Il sole ci trafiggerà con le sue mille frecce”. Una poesia di Scipione

Rieccomi, finalmente, a Torino. Torino (insieme a lei) mi aspettava. Dopo due mesi di assenza la torno a trovare. Ed io, ritorno ad amare ancor di più la musa che mi dà forza; colei che tutto può nell’universo inquieto e immaginifico che mi rappresenta e accompagna, per il mondo che mi è dato di vivere e sperare continuamente. Con me ‒ come al solito, come sempre ‒ alcuni libri. In particolare, uno s’intitola Le stelle cadono accese, editato da Raffaelli nella Collana Scintille. Vi si trovano una decina di poesie di Scipione, al secolo Gino Bonichi. Vi si trovano poesie e quadri. Versi segreti.

Scovo, soprattutto, il fascino cristallino della parola, dove ogni verbo è punta di diamante, nel bosco attiguo al lago, proprio lì dove il cervo si specchia nelle accurate parole di Vittoria Guerrini, in mondi paralleli che nulla hanno da invidiare al nostro. Anzi. Proprio per questo, la parola dona rifugio e piacere al pellegrino stanco della battaglia quotidiana.

La parola è un lascito. Poesia come messaggio in bottiglia nell’attesa impossibile e spasmodica che sopraggiunga, prima o poi, a qualcuno che ancora non si conosce, o non si conoscerà mai. Poesia come inedito lasciato nel cassetto o nascosto in qualche baule impolverato, se non in qualche faldone accuratamente celato tra gli altri, in una stanza-studio qualunque, in attesa dell’ignoto.

Dovrei riposarmi. Il caldo nemmeno oggi dà tregua. Sdraiarmi sul letto almeno una mezz’ora. Eppure il fuoco della mia inquietudine è più forte di qualsiasi stanchezza, e mi sprona, quasi intima di continuare, per dare speranza magari anche solo a quello sparuto lettore che domenica scorsa mi è venuto incontro a Varese, riconoscendomi, stringendomi la mano, chiamandomi per nome; dicendomi della sua stima per me e per ciò che faccio. Provo tutt’ora brividi di bellezza e riconoscenza quando ricordo il fatto, o ne parlo a qualcuno, oppure quando ne scrivo anche adesso, persino qui, nel maremoto dimenticato della stanchezza.

Scipione, Profeta in vista di Gerusalemme, 1930

D’altronde la poesia fa questo. Sta silenziosa in mezzo alla gente, ma ne abbraccia l’umana povertà ed essenza, per ridare speranze ai fallimenti dell’istante. In sostanza, essa, ci fa rialzare dalla fragilità che ci contraddistingue. E questo dovrebbe bastare a dirci uomini, pronti ad affrontare eretti qualsiasi nemico, qualsiasi avventata circostanza.

È dunque per questo che faccio letteratura. E leggo,

Estate

La terra è secca, ha sete
e si spacca.
Sui labbri dei crepacci
le lucertole arroventate/
corrono in fiamme.
Le stelle cadono accese
per bruciare il mondo,
ma nessuno tende le mani per abbracciarle
e si smorzano, tuffandosi nel buio.
La carne cerca nelle carni
le sorgenti
e trova gli occhi
che si schiudono come fiori.
E la sonagliera dei grilli,
la notte,
ci porta incontro al sole
che ci trafiggerà
con le sue mille frecce.
Aspetto che finisca
e nell’attesa
mi sento abbacinato
come un foglio bianco
su cui picchi il sole.
La terra è secca, ha sete
e la notte è nera e perversa.
Cristo, dalle da bere,
ché vuol peccare
e farsi perdonare.

Scipione

Così, l’altra domenica, inaspettatamente, mi son sentito chiamare e abbracciare da uno sconosciuto che mi rende orgoglioso di quel che faccio. Tu, chiunque tu sia, vali, indipendentemente da questo scritto. E incendi il mondo, e incendi me.

Per un attimo ce l’ho fatta. Il mio esilio e il mio riscatto hanno di nuovo senso. Ora so che la fiaccola può ancora passare di mano in mano. Ora sono di nuovo pronto a farmi perdonare.

Gruppo MAGOG