
“Quando è uscito, volevo bruciare il disco”. Compie 50 anni “Storia di un impiegato”
Musica
Alessandro Carli
L’artista affermato, egocentrico e pauroso, che tiene per sé i segreti del suo successo perché ha paura di perdere ciò che gli è costato tanta fatica, vive nel terrore di essere spodestato. È la sindrome di Crono, il figlio di Urano che uccise il padre per prenderne il posto, ma poiché temeva di fare la stessa fine, ogni volta che gli nasceva un discendente, lo divorava. Uno di essi, Zeus, riuscì a salvarsi, e quando raggiunse l’età adulta, affrontò suo padre e l’uccise, diventando il capo di tutti gli dèi.
L’incipit mitologico serve a introdurre un’intervista davvero generosa, anche nella lunghezza, e per nulla reticente. Costantino Catena è un abile pianista e un uomo affabile con cui tirare a far mattino conversando instancabilmente di musica, e non solo. E ovviamente non ha nessuna paura di mettersi a nudo raccontando di sé e del suo modo di intendere il pianismo. Il lettore appassionato potrà riconoscere in lui un fratello maggiore pronto a dispensare una grande quantità di riflessioni acute, stimoli interessanti e tante piccole lucine di verità personale.
Costantino Catena ha iniziato giovanissimo lo studio del pianoforte. Dopo aver conseguito il diploma con lode presso il Conservatorio “Giuseppe Martucci” di Salerno sotto la guida del M° Luigi D’Ascoli, ha proseguito e completato la sua formazione pianistica seguendo corsi di perfezionamento con Konstantin Bogino, Bruno Mezzena e Boris Bechterev. È stato ospite di importanti istituzioni concertistiche in vari paesi europei, in Australia, negli U.S.A., in Russia e in Giappone, tra cui la Philharmonia di San Pietroburgo, il Kennedy Center e la Georgetown University di Washington, il Gasteig di Monaco di Baviera, il Liszt Memorial Museum di Budapest, l’Auditorium Parco della Musica di Roma, il Conservatorio Tchaikovsky di Mosca, la Yasar Concert Hall di Izmir, la Winchester University, la Filarmonica De Stat Transilvania di Cluj-Napoca, il Kusatsu International Festival, l’Ohrid Summer Festival.
Con l’etichetta giapponese Camerata Tokyo, ha inciso l’integrale di Liszt per violino e pianoforte, e numerosi CD solistici, tra cui la registrazione di tutti i capolavori pianistici di Schumann. Nel 2016 è stato ufficialmente designato “Yamaha Artist”, un titolo che viene concesso a strumentisti di chiara fama che scelgono di suonare strumenti musicali Yamaha Corporation.
C’è chi dice che i pianisti classici siano individui ossessivi. Molto è stato scritto su Arturo Benedetti Michelangeli e la sua maniacale ricerca dell’imperfezione da correggere. E anche Glenn Gould, forse ancora più del maestro italiano, inseguì una verità assoluta che non può esistere, se non in sala di registrazione. Il 10 aprile 1964, nove anni dopo l’esordio, si ritirò dalle scene concertistiche. Continuò a incidere, inseguendo la verità assoluta dell’interpretazione.
Quando per tutta la vita ci si siede tante ore al giorno al pianoforte, cercando di costruire in dettaglio la propria interpretazione e sviluppare il necessario controllo sulla performance affinché in concerto riesca tutto bene, è difficile non diventare perfezionisti. È vero anche che senza una predisposizione psicologica il talento non basta per intraprendere una carriera artistica di questo tipo. Qualsiasi attività artistica o scientifica, fatta ad alto livello, richiede un’alta dose di perfezionismo e quindi di ossessività. Certamente le arti performative per loro natura necessitano di un controllo e di una sicurezza ancora maggiore, dovendosi svolgere nell’Hic et nunc, senza una seconda possibilità, senza poter ritornare indietro. Quando si prepara un concerto, la ricerca artistica va di pari passo con la costruzione della performance e con il dominio assoluto dello strumento. Infatti, c’è un’alta probabilità che errori in fase di apprendimento, mancanza di consapevolezza, conflitti tra memoria dichiarativa e procedurale, cali di concentrazione durante la performance, distrazioni dovute ad eventi esterni come rumori etc., stato psico-fisico in cui ci si trova, adrenalina ed ansia possano causare errori. È chiaro che con questi presupposti l’esigenza di controllo della performance nei pianisti è molto presente: i casi di Michelangeli e di Gould sono però piuttosto diversi. Mentre il primo è andato nella direzione del massimo controllo dell’esecuzione in pubblico, cosa che in generale gli è riuscita benissimo, Glenn Gould, a un certo punto della sua esperienza concertistica, ha realizzato che l’esibizione dal vivo non sarebbe mai stata in grado di rendere pienamente la profondità e la complessità di una composizione musicale. L’impossibilità di poter tornare indietro e ripetere in modo diverso lo disturbava, egli voleva costruire la sua interpretazione in modo meditato, più consapevole, potendo rivedere le sue scelte e risuonare ogni volta che voleva, utilizzando tutta la tecnologia a disposizione. La sala da concerto era un ambiente troppo umano, con le sue emozioni, le sue tensioni, le sue ansie, i suoi umori, i suoi sudori, i suoi rumori, i suoi applausi, tutte cose che finivano per condizionare molto la performance, rendendo impossibile l’aspirazione alla perfezione, la realizzazione completa e compiuta delle idee che aveva in mente. Può essere interessante in questo caso ricordare il pensiero del grande direttore d’orchestra Sergiu Celibidache, che sembrerebbe esattamente il contrario del pensiero gouldiano: egli rifiutò per tutta la vita di effettuare registrazioni e osteggiò aspramente l’utilizzo discografico della musica. Per lui quest’ultima era incompatibile con il supporto fonografico, venendo meno la condizione della condivisione dello stesso spazio tra esecutore e spettatore, poiché l’evento sonoro si coglie nel suo ‘qui ed ora’, ogni volta diverso. Non parlerei quindi di verità assoluta dell’interpretazione, sia perché l’interpretazione discografica è molto diversa da quella dal vivo, sia perché l’interpretazione musicale è per sua natura qualcosa che cambia nel tempo, a seconda dell’evoluzione della tecnologia, degli strumenti, delle acustiche, delle sale da concerto, dei media, della società e della cultura in genere. La musica non è un museo e – come nella differenza tra ermeneutica ed esegesi – abbiamo di volta in volta interpretazioni che si rivolgono non più ai contemporanei dell’autore, ma ai nostri contemporanei, ferma restando la ricerca di senso e di coerenza interna.
C’è tanto Giappone nella sua vita artistica. Costantino Catena ha un’intensa attività discografica, principalmente con l’etichetta giapponese Camerata Tokyo, con cui ha iniziato a collaborare nel 2010 incidendo l’integrale di Liszt per violino e pianoforte e in seguito numerosi CD solistici, tra cui la registrazione di tutti i capolavori pianistici di Schumann. Nell’agosto 2016 il nuovo CD “Two Saints. Francis of Assisi & Francis of Paola” è stato scelto come uno dei migliori dischi sulla rivista giapponese di musica “Record Geijutsu”, giudicato così dal critico musicale Jiro Hamada: “Catena ha una tecnica meravigliosa e con la sua pura e semplice interpretazione disegna il mondo di Liszt. La sua musica è a volte dolce e magnifica, a volte maestosa e serena”.
Sì, il mio rapporto con il Giappone è nato grazie alla collaborazione con Camerata Tokyo e si è rafforzato nel 2016 quando sono diventato Yamaha Artist. Nell’aprile 2018, insieme ad altri pianisti e ad alcuni membri dello staff Yamaha Europe, ho fatto un bellissimo viaggio nel Sol Levante, riassunto nel video Flame, che si può trovare su YouTube.
Camerata Tokyo è una raffinatissima casa discografica che produce sempre direttamente i suoi CD (cioè non accetta master realizzati esternamente, come spesso accade oggi con la maggior parte delle etichette) scegliendo luoghi di registrazione che possano vantare qualità e rese acustiche fuori dal comune. La maggior parte dei nostri CD (12 fino a questo momento) sono stati realizzati nel complesso museale di Santa Croce ad Umbertide, in provincia di Perugia, e nella Chiesa di San Giorgio a Salerno, luoghi entrambi dotati di bellissima acustica e riverbero abbondante. Ad Umbertide è stato registrato il primo CD dell’integrale pianistico di Schumann uscito da qualche mese, contenente i Davidsbündlertänze op. 6 e l’Humoreske op. 20, a cui presto seguiranno gli altri capolavori del grande compositore tedesco. Sicuramente il lungo rapporto con i giapponesi mi ha insegnato ad andare all’essenza delle cose. Il loro senso estetico, il wabi-sabi, è completamente diverso da quello occidentale, da loro ho imparato la cura estrema del dettaglio, la delicatezza. A proposito di quello di cui si parlava prima, la cultura giapponese è perfezionista, niente è lasciato al caso, tutto è costruito e addomesticato, come il bonsai o il giardino giapponese, come l’ikebana, e così l’esaltazione delle emozioni e delle passioni, propria della cultura occidentale, lascia il passo a un senso di equilibrio, di pazienza, di non ostentazione, di controllo delle passioni che a noi è sconosciuto. Nel modo di lavorare di Camerata Tokyo si ritrovano l’ordine e il perfezionismo che caratterizzano questa cultura, a partire dalla microfonatura e dalla scelta delle apparecchiature. Quello che colpisce è però come gli esiti di tutto questo meticoloso lavoro si trasformino in bellezza pura, in estetica del suono, nella ricostruzione della dimensione scenica dello strumento che consente di immaginare lo spazio che si percepisce intorno al pianoforte, con una dinamica naturale e piena. Tutto questo dona alle registrazioni un fascino difficilmente riscontrabile in quelle realizzate in studio. La bellezza giapponese non mostra tutto e subito, anela al suggerito e al non detto, ha qualcosa di sacro e così anche la musica diventa una forma di contemplazione e di meditazione esistenziale sulla transitorietà delle cose. Ma, in conclusione, difficilmente sceglierei di vivere in Giappone. È troppa la distanza culturale da colmare, anche se di sicuro questa diversità ha dato un grande contributo alla mia vita, migliorando il mio modo di suonare.
Mi spiace vedere che, a volte, spettatori poco accorti si spellano le mani di fronte a un virtuosismo sterile, fine a sé stesso, esibizionistico.
Il virtuosismo ha sempre rappresentato un’occasione di grande successo di pubblico, si pensi per esempio all’epoca Biedermeier in cui molti compositori scrivevano concerti brillanti con la funzione di stupire e divertire il pubblico. Anche Schumann ne riconosceva la funzione, dicendo che un concerto doveva allietare o, addirittura, incantare una moltitudine di teste, che, a sua volta, deve incantare il virtuoso con i suoi applausi. Nell’esibirsi, giocano un ruolo tante componenti, non solo il bisogno di esprimersi con la musica. Si fa sempre molta fatica a capire quanta parte ha la musica e quanta il narcisismo e, inoltre, come appunto faceva notare Schumann, tutto questo ha una funzione sociale. Piuttosto, il problema risiede nella quantità di ‘virtuosi sterili’ che oggi ci ritroviamo. Sicuramente con la diffusione di internet il problema si è acutizzato, perché la quantità e la qualità delle informazioni rendono molto difficile il sottrarsi alla capacità di condizionamento dei media e mantenere un distacco critico, con la conseguenza che la capacità discriminatoria del pubblico è decisamente diminuita. Comunque, i grandi compositori seppero elevare l’aspetto spettacolare del virtuosismo a contenuto: facciamo l’esempio di Franz Liszt. Sul Maestro ungherese ci sono ancora dei pregiudizi, ma abbiamo testimonianza diretta (per esempio nel Liszt Paedagogium di Lina Ramann) che le sue lezioni erano basate essenzialmente sull’aspetto musicale ed espressivo, sul tipo di tocco da adottare, sull’uso del pedale, su quale linea melodica far emergere, sulla dinamica, sul carattere, sul fraseggio, sull’agogica. Ancora più interessante quello che diceva sui passaggi virtuosistici o sulle volatine, e cioè che, avendo la loro origine nel melos, non si potevano eseguire senza tener conto di questo, pensando solo alla forza e alla velocità. La Ramann parlava della mano di Liszt come “mano dotata di anima”, e cito testualmente dal suo libro: “L’errata valutazione di queste caratteristiche stilistiche, il mancato apprezzamento delle intenzioni del Maestro, il silenzio di tutta la poesia spesso da parte di eminenti virtuosi cresciuti allo studio della tecnica e della forma, ma non dello stile, nascondono i gioielli di cui sono ricche le composizioni pianistiche del grande poeta dei suoni”. Tutto questo avveniva alla fine dell’Ottocento, il che significa che già all’epoca Liszt veniva storpiato da tanti pianisti che ne vedevano solo il lato prettamente virtuosistico e spettacolare trascurando quello poetico e musicale che, invece, in un autore così non è semplicemente presente, ma costitutivo. Insomma, il virtuosismo sterile è sempre esistito.
Il genere liederistico è quasi esclusivamente una produzione di lingua tedesca. Ed è strano che in Italia, culla del melodramma, non ci siano stati artisti vogliosi di musicare le voci della grande poesia italiana (e quel ‘grande’ non è messo lì a caso, perché la produzione operistica è, dal punto di vista letterario e salvo rare eccezioni, assai mediocre). Anche nella musica cosiddetta leggera esistono pochissimi esempi di poeti che hanno scritto testi per canzoni. Mi viene in mente Pier Paolo Pasolini, che scrisse tre canzoni per Laura Betti e i bellissimi versi di “Che cosa sono le nuvole?”, cantata da Modugno. O Roberto Roversi, poeta bolognese che collaborò con Lucio Dalla, ma poi più nulla. Perché i musicisti, siano classici o pop, ignorano la produzione di poeti e scrittori?
Probabilmente il motivo principale per cui il Lied non ha avuto ampia diffusione in Italia è proprio che nell’Ottocento il melodramma ha occupato tutti gli spazi disponibili. Anche il suo analogo italiano, la Romanza, ha avuto un ruolo periferico, restando incastonata nell’Opera. Bisognerà aspettare la fine del secolo per trovare compositori di musica strumentale come Giuseppe Martucci o appunto chi ha scritto romanze su testi poetici come Francesco Paolo Tosti. Il Romanticismo italiano è stato molto diverso da quello tedesco, e in musica è rimasto saldamente legato alle ‘concrete’ e spesso amorose vicende melodrammatiche, certamente più dense di sentimenti, passionali e focose rispetto al ’700, ma molto più temperato rispetto al Romanticismo tedesco, fatto di malinconia, nostalgia, natura, aspetti crepuscolari, molto meglio rappresentabili con la musica strumentale – priva di significato strettamente semantico – e con le sfumature della poesia. Poesia e Canzone hanno caratteri e destinazioni diverse, per quanto ultimamente tendono ad essere classificate nello stesso ambito (ha fatto discutere molto il Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan). Generalmente la canzone è priva dell’ambiguità e della polivalenza della poesia, si rivolge a un pubblico ampio ed eterogeneo, non necessariamente e particolarmente colto. Certo, nella canzone d’autore a volte si riesce a costruire un mondo poetico fatto di immagini, sfumature, significati poetici, ma la domanda verte sull’utilizzo specifico di testi di poeti e scrittori. Nella canzone lo schema delle parole è semplificato, i concetti esposti sono brevi ed efficaci, c’è una velocità imposta dalla musica: la poesia è lenta e ha bisogno di concentrazione. La canzone si rivolge agli altri, è un mezzo, mentre la poesia è un fine, può spesso essere criptica, è autoreferenziale, non cede alle semplificazioni, ha una sua tensione interna che difficilmente si trasmette con il testo di una canzone. Inoltre più ci si è addentrati nel ’900, più il linguaggio della poesia si è allontanato dal linguaggio comune mentre la canzone utilizza il linguaggio di tutti i giorni, quello di cui si servono gli individui normali, attraverso di essa la parola si fa più capillare. Infine ci sono delle questioni meramente tecniche, su cui concordano sia i cantautori e gli autori di testi che gli studiosi, prima tra tutte la scarsità di parole tronche nella lingua italiana. Da questo punto di vista i parolieri hanno dovuto sviluppare un linguaggio sempre più specifico per la canzone, ricorrendo a espedienti per compensare l’assenza di parole tronche, specialmente a fine verso. Si fa un larghissimo uso di forme apocopate, di riaccentazione delle parole sdrucciole, di rime baciate ed alternate, uso dei monosillabi alla fine del verso, anglicismi e francesismi, spostamenti di accento, cose che spesso sacrificano il contenuto per la forma. Analizzando i testi delle canzoni di Sanremo un linguista è giunto a definirli “regno dell’effimero e del vacuo”, “tomba della lingua” (Massimo Arcangeli). Tutte queste differenze sostanziali e di destinazione d’uso rendono secondo me difficilmente utilizzabile il materiale poetico, tranne rari casi.
“La via per imparare è lunga se si procede per regole, breve e efficace se si procede per esempi”. La frase è di Seneca, e anche se il filosofo latino non si è mai seduto su un piccolo sgabello di fronte a un pianoforte, credo possa insegnarci che nell’osservazione c’è sempre una possibilità imprevista di imparare qualcosa di nuovo, soprattutto oggi che basta accedere a YouTube per assistere a concerti e recitals da ogni parte del mondo. Se dovesse consigliare a un giovane allievo i video di un pianista da prendere a modello, chi sceglierebbe?
L’osservazione e l’esempio sono fondamentali, nell’apprendimento di uno strumento musicale. L’esperienza degli antichi è stata confortata dalle nuove scoperte scientifiche: basti pensare alla funzione dei neuroni specchio, che si attivano quando compiamo una determinata azione ma anche quando la vediamo compiere da altri. In questo modo si genera una sorta di copia motoria nel cervello dell’osservatore, che permette a quest’ultimo di apprendere in modo diretto e immediato quello che a volte è difficilmente spiegabile, cioè il movimento preciso necessario a produrre determinati suoni. Oggi internet offre infinite possibilità di ascolto e per non perdersi in questo mare bisogna certamente avere dei criteri. La spettacolarizzazione è entrata anche nel campo della musica colta e spesso si assiste a fastidiose e artificiose esagerazioni gestuali, nel tentativo di veicolare maggiormente queste esecuzioni. Ognuno oggi ha la possibilità di fare video e di metterli in rete, e così gli interpreti si sono moltiplicati. A volte però tutto questo non è necessariamente un male, perché non possiamo sempre restare legati al passato e a come si suonava un secolo fa, anche l’interpretazione si evolve, e non si può non tenere conto dei nuovi fenomeni cinesi o russi, per esempio. Io suggerisco sempre una pluralità di ascolti, è anche un modo per non cristallizzarsi in certe idee, inoltre ogni pianista ha un suo repertorio in cui riesce meglio. Personalmente mi piacciono molto Sokolov e Zimerman.
Infine, la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro?
Nel 2019 è uscito per Brilliant Classics il mio CD Wolf-Ferrari: piano works, con le opere pianistiche – per la maggior parte inedite – di questo autore. Questo disco fa parte di un progetto pluriennale, sostenuto dalla COOP-Art CESTEM di Roma, che prevede la registrazione di tutta la musica da camera con pianoforte di Ermanno Wolf-Ferrari. Abbiamo infatti appena inciso il secondo CD, con le 3 Sonate per violino e pianoforte di cui insieme a me si è fatto interprete il violinista Davide Alogna, che uscirà nel corso del 2020 prima per una nota rivista musicale nazionale e poi ancora per Brilliant. Sempre nel 2020 porteremo avanti il progetto con la registrazione del Quintetto per pianoforte. Nello stesso tempo sto proseguendo con l’integrale pianistico di Schumann per Camerata Tokyo, mentre agli inizi del 2020 uscirà ancora un altro CD, questa volta con musiche di Chopin eseguite su pianoforte moderno e su un Erard del 1847, per una nuova etichetta discografica italiana, Aulicus Classics.
Francesco Consiglio