Ma questa è cultura? Una premessa
In altri tempi sarebbe stato lecito chiedersi se parlare dell’album di una band sia o meno un’operazione culturale. Per fortuna, quei tempi sono ormai andati. Capitò anche con i Beatles. Oggi, la postmodernità ha sdoganato questo genere di discorsi. Non esiste più una cultura alta e una bassa. C’è del genio in un film con Lino Banfi – o almeno, spesso capita, nei limiti del genere B Movie –, così come può esserci in un disco pop. Per quel che concerne il cinema in generale, è inutile anche perdere tempo a discutere la faccenda.
Peraltro, alto e basso si contaminano e si intersecano: The Rime of the Ancient Mariner (La ballata del vecchio marinaio) di Samuel Taylor Coleridge è trasposta in musica dagli Iron Maiden e gli Iron Maiden potrebbero ritrovarsi a suonare le loro canzoni con un’orchestra sinfonica. Ma, del resto, per decenni si è dibattuto in merito alla possibilità di considerare cultura l’opera di Lovecraft, o Stephen King…
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La carne, la morte e il diavolo nella musica gothic metal dei Cradle of Filth
Chi ha qualche nozione di letteratura sa che il sommo Mario Praz, nel 1930, dette alle stampe La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, in cui indaga l’estetica decadente nella letteratura inglese, francese e italiana dell’Ottocento. Ma simili tematiche (lussuria, morte, figure sataniche, femme fatale) sono le stesse che ricorrono in tanta musica metal, dagli anni ’80 ai nostri giorni. Un’operazione affine a quella del grande studioso potrebbe dunque essere condotta per la musica – metallica e non. Si potrebbe studiare l’influenza che la letteratura può aver avuto, a livello più o meno inconscio, nella composizione di album quali Black Metal dei Venom, Reign in Blood degli Slayer, e soprattutto nei complessi ed estremamente lirici testi dei Cradle of Filth. Del resto, il loro album più noto, Cruelty and the Beast, uscito proprio adesso in versione rimasterizzata, narra la vicenda di Erzsébet Báthory (Elizabeth Bathory), contessa ungherese passata alla storia come la peggior serial killer di tutti i tempi. Di lei si racconta che, nella convinzione di mantenersi giovane, fosse solita fare lunghi bagni in vasche piene di sangue di vergine. Pare abbia così ucciso qualcosa come seicento giovani. Una simile figura, palesemente, potrebbe essere il soggetto ideale per un romanzo gotico dell’800 come per un horror dei nostri giorni.
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Remixare un disco è come mettere un testo in mano a un buon editor
Solitamente il remixaggio di un disco non comporta alcun miglioramento. Nel grosso dei casi serve solo come scusa per reimmettere sul mercato, con la consueta operazione nostalgia, un capolavoro, sperando che i fan lo ricomprino, così da fare cassa. Ben diverso è il caso della versione Re-Mistressed di Cruelty and the Beast. Il mixaggio originale era, per la maggior parte dei fan, discutibile – con suoni vagamente ovattati. Il disco uscito per il ventennale dell’opera, al contrario, presenta un sound completamente differente. La batteria di Nicholas Barker – finissimo martellatore – viene portata quasi in primo piano e la doppia cassa piove addosso all’ascoltatore come una tempesta nel cielo dell’estremo nord europeo. Quel suono un po’ in sordina, quasi di sottofondo, esplode come in un disco power metal, insieme alle chitarre, mentre le tastiere risultano notevolmente ridimensionate rispetto alla loro predominanza originale.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’album non è stato assolutamente reinciso dalla band. Si è invece intervenuti a livello di produzione (o post produzione che dir si voglia), partendo dalle varie tracce registrate nel 1998. Il fruitore meno esperto non ne è a conoscenza, ma quasi mai il suono che gli arriva a mezzo del cd, vinile, o file mp3, è frutto della semplice bravura della band. Provate a prendere il primo mixaggio recentemente pubblicato di alcuni brani di Nevermind dei Nirvana. Quel disco, che tanto ha emozionato almeno due generazioni, nella versione originale, sembra registrato da una cover band di provincia un po’ fiacca e dal sound scialbo. Quella che tutti quanti ascoltiamo dal 1991, invece, è incredibilmente più incisiva e impattante. Senza timore di risultare eretici, si può dunque mettere nero su bianco che non esiste capolavoro che non abbia dietro un grande produttore in grado di tirare fuori da una band un’espressività sonora altrimenti condannata a infruttuosa impotenza. Insomma, un grande disco, come un grande libro e un grande film, è sempre per così dire un lavoro di gruppo. Carver è Carver, nel bene e nel male, anche grazie a Gordon Lish – tanto per citare l’esempio più noto degli ultimi cinquant’anni – e chissà quanti altri casi semplicemente non sono balzati alle cronache. L’energia creativa è fondamentale, ma sovente da sola non è niente, senza qualcuno che la incanali e la conduca dalla potenza all’atto. Tutta la storia dell’arte è, insomma, solo la punta dell’iceberg dietro cui si cela il mondo oscuro di chi la rende possibile.
Matteo Fais