
“La violenza schiaccia chi la tocca”. Simone Weil e Rachel Bespaloff leggono l’Iliade
Filosofia
Stefanie Golisch

“A pelle”. Per Vitaliano Trevisan
Letterature
Al funerale della madre del suo compagno di classe di nome Takeru, Aoi – uno dei due protagonisti del poetico romanzo Le vite nascoste dei colori di Laura Imai Messina (Einaudi) – gli aveva offerto il suo Bolide rosso, una delle sue macchinine preferite, quella con la scritta SUPER FAST di lato. Ma il compagno di Aoi, orfano, disperato, in tutta risposta, aveva dato uno schiaffo alla sua mano, facendo schiantare l’amata macchinina contro il muro. Da allora in poi, Takeru, che pure era stato sempre gentile con Aoi, smise di parlargli. “Se per sbaglio incrociava il suo sguardo, Aoi vi riconosceva la miscela di odio, vergogna e impotenza che gli aveva sentito addosso quel pomeriggio. Takeru lo odiava perché l’aveva visto soffrire”. E Aoi l’aveva visto soffrire perché suo padre aveva una agenzia di pompe funebri.
Era proprio nel corridoio dell’agenzia funebre, lungo una pista immaginaria, che Aoi faceva correre il suo Bolide rosso. Nell’affascinante romanzo di Laura Imai Messina, c’è un’attrazione deliziosa per la morte, e per i morti, che danza con la seduzione dell’amore più appassionato, tormentato. Dall’amore che distrugge all’amore che salva, protegge. I colori vestono tutta la narrazione di una delicata trama poetica. A ciascuna persona, situazione, atmosfera regalano la sfumatura definita e corposa. Il problema con la vita è certo il passato: il ricordo, la memoria che qualcuno ci dà come fosse vero. “Ci sono sempre ricordi sotto la pelle di altri ricordi. Tutto rimane nascosto finché quella pellicola da qualche parte non si sfilaccia”. Le vite nascoste dei colori è anche la storia dell’amore possibile e impossibile tra Aoi e Mio. “Mio sapeva grazie a Emil Cioran che le certezze hanno un grande valore pratico, ma che poi, nella teoria, non sono più robuste di un castello di sabbia. Le certezze appassiscono in fretta, mentre i dubbi restano lì, come fiori freschi in soggiorno”. Mio, prima di incontrare Aoi, aveva rinunciato all’amore perché “quel poco che le era successo di buono lo aveva bruciato per troppa passione”, dal momento che era “inquieta, ossessiva, insicura”. A differenza di Aoi, Mio è cresciuta in un atelier in cui la sua famiglia cuciva e ricamava kimono nuziali con gesti preziosi tramandati da generazioni.
Tra le pieghe e, soprattutto, nelle cuciture della stoffa, si annidavano, però, i segreti familiari più nascosti, le ombre più scure. Il richiamo irresistibile tra le due professioni, l’atelier dei kimono nuziali e l’agenzia funebre, scintilla sin da subito, brucia, dalle prime pagine del romanzo: “Un tempo l’abito funerario non era nero ma bianco, – spiegò pazientemente nonna Yoko. – Bianco come il kimono da sposa”. “Se ci pensi, in entrambi i casi il passato si ferma, sia che passi dalla vita alla morte, che dall’essere nubile all’essere sposata. Si esce dalla casa del padre e si smette di essere parte di quella famiglia. Si muore cioè come figlie, e si rinasce come mogli nella nuova casa”. E la morte viene riconosciuta grazie alla forma che viene data attraverso il rito funebre. “Si restituisce una forma, così che le persone possano riconoscere una cosa immateriale come la morte. Quando perdiamo qualcuno, non avere più il suo corpo accanto ci blocca. Ma se ci pensa bene, ci blocca anche quello che accade non appena il nostro caro muore… gli occhi che affondano, i corpi che iniziano a marcire”. E: “Le raccontò di come si usasse acqua tiepida, creata tuttavia al contrario. All’acqua fredda se ne aggiungeva di bollente e non viceversa. Si chiamava sakasa-mizu, «l’acqua all’inverso»: ogni cosa nel rito di morte, era il suo rovescio”. Per amare quella professione, occorreva conoscere le basi della “tanatoprassi, ovvero l’insieme delle tecniche di conservazione e presentazione estetica della salma. Si usavano sostanze specifiche e strumenti particolari: per ogni giorno servivano in media dieci chili di ghiaccio. In alcuni casi, poi, era necessario chiamare l’imbalsamatore”. Si celebra l’amore come la morte che “è come una pianta dentro ognuno di noi. Che nasciamo con quel seme all’interno e quello si sedimenta, spunta, cresce mano a mano che cresciamo”. Poteva capitare anche di pensare, a causa di una malattia grave, anche al proprio di funerale, chiedere quanto costasse. Sullo sfondo, si vedeva una donna, che desiderava la morte, con la vita ancora addosso: “pareva arrabbiata con la vita che le restava addosso, appesa al suo corpo come una busta che, in un giorno di vento, s’incastra a un ramo”.
Continuare a vivere significa, del resto, fare i conti con il passato, con il “riassunto dell’infanzia” che dentro qualche scatolone, in cima all’armadio, rischia di farci precipitare nell’abisso di ciò che non sapevamo, nel buio di ciò che ci era stato nascosto, per non ferirci. E nella caduta, potremmo anche romperci la schiena. “Perché la nostra storia è sempre tramandata: il racconto della vita di ognuno di noi è talmente remoto ed eroso dal tempo che siamo in balia del ricordo degli altri, di chi ci ha allevato o conosciuto quando eravamo bambini. E ognuno di noi dovrebbe avere il diritto di conoscere per intero la propria storia, qualsiasi essa sia. Davvero Mio era stata quella precisa bambina che diceva sua madre? C’era da fidarsi di lei?”. Le lettere che il passato affida al nostro presente non sono facili da leggere, tantomeno da aprire. Quello che scopriamo del nostro passato è un’altra malattia da cui non guariremo, pur essendo guariti. È un altro graffio sul braccio, come Laura Imai Messina definisce i cimiteri. “Che fine faccia il tesoro nelle fiabe, come ricchezze strabilianti cambino davvero le vite dei protagonisti, non lo sa mai nessuno. Non lo si racconta perché, in fondo, non è importante. Capita piuttosto che nelle fiabe si parta per ottenere una cosa che, misteriosamente, si trasforma in un’altra”.
Vedere il vero colore della vita o di chi amiamo è difficilissimo. Per alcuni, decisamente impossibile. “Anche Kandinskij sosteneva che «Ogni colore vive una sua propria vita misteriosa». Mio l’aveva ripetuto più volte alzando la voce”. Il passato non è che una fotografia che era stata scattata in un preciso momento della storia d’amore fra Mio e Aoi. Prima che il giardino segreto venisse demolito per sempre. “Il loro profilo era incorniciato dai rami spezzati di un ciliegio che non sarebbe più sbocciato, dalla grazia sparita di quel giardino che ormai segreto non era più”.
Linda Terziroli