21 Aprile 2021

"Non è un romanzo, non è un saggio. Non è un'inchiesta, anche se simula di esserlo. Ma allora cos'è?". Francesco Consiglio dialoga con Manuela Mazzi

Ogni tanto mi capita di essere d’accordo con Giulio Mozzi. Per esempio, quando descrive la scrittrice Manuela Mazzi come una persona “empatica, altruista e dotata di un’intelligenza straordinariamente prensile”. O quando dice che il suo strano oggetto non so come chiamarlo e tra poco vi spiegherò perché – merita di essere accostato a certe Vite di Giuseppe Pontiggia o Ermanno Cavazzoni e ha un titolo, Breve trattato sui picchiatori nella Svizzera italiana degli anni Ottanta che è “settecentescamente spropositato”.

Manuela l’ho conosciuta su Facebook e credetemi o no – mi è parsa subito appartenere a una specie in via d’estinzione: gli scrittori che non picchierebbero nessuno perché di fronte a un’offesa guardano il nemico e pensano: “La tua punizione è essere ciò che sei”.

Sorridete? Io no, per nulla: sono serissimo. Lei non ha niente in comune con i lagnosi dei social, gli scrittori gne gne perennemente in questua di pubblicazione, i rancorosi che gridano al complotto e alla mafia letteraria, gli aspiranti guastafeste di un ambiente che ha smesso di far feste da ormai troppo tempo. Con Manuela Mazzi riesco ancora a parlare di letteratura. E questo ho fatto. (Francesco Consiglio)

Anni fa lo scrittore Paolo Nori pubblicò un romanzo firmandosi Paolo Onori. Oggi Giulio Mozzi pubblica un saggio (o un romanzo? O un trattato sociologico?) intitolato Breve trattato sui picchiatori nella Svizzera italiana degli anni Ottanta firmandosi Manuela Mazzi. Quanto c’è di vero e quanto di verosimile? Tra l’altro, il romanzo (o il trattato sociologico? O il saggio?) ha un’introduzione firmata da Mozzi, e questo mi fa pensare che lui tenga più alla prefazione, che gli è uscita bene, e meno al resto, che ha preferito firmare con uno pseudonimo. Insomma, mi sa che dovrai faticare per convincermi di essere la Mazzi e non il Mozzi. E chi ti crede? Tu sei una sorta di Mrs. Doubtfire prestata alla letteratura. Sotto il trucco, lo so io chi c’è.

Ho avuto modo di collaborare all’organizzazione di un corso con Paolo Nori qui in Ticino, per il Repertorio dei matti del Cantone. E so che ha scritto un libro intitolato La Svizzera, (Il Saggiatore). Che dici, Francesco? Non potrebbe averlo scritto lui il Breve trattato? A ben pensarci Nori è dell’area emiliana e conosce bene Cavazzoni che firma la postfazione, dunque…

Impossibile. Paolo Nori scrive solo in norese. Non conosce altra lingua che la sua.

Scherzi a parte, è difficile simulare una scrittura alla “cronaca ticinese”. Se non sei nato in Svizzera, non è possibile. Solo noi sappiamo scrivere con un «italiano tanto strano» (così mi dicono). Ma te lo confermo in modo ancora diverso a scanso d’equivoci: sono l’autrice di questo libro, punto. Non è Mozzi, non è Nori, e non è nemmeno Davide Tosetti, la voce narrante del Breve trattato. L’autrice sono io.

Che peccato, mi fai mancare uno scoop. E va bene: sei l’autrice, ma questo strano oggetto che pare un libro… che cos’è?

Non è un saggio, non è un trattato di sociologia. Al massimo la definirei «Narrativa antropologica» – me lo invento, ovvio – che molto assomiglia, per quello che ho letto, alla letteratura di Cavazzoni. Non tanto una panoramica sulla società, ma uno sguardo sul comportamento dei singoli, dei “tipi”, dei “modelli” umani che valgono oggi come valevano decine di anni or sono e come varranno fra decine di anni: fin quando esisteranno gli adolescenti. Che siano svizzeri, italiani, americani, o quel che siano.

Se già si fa fatica a capire chi è l’autore (o l’autrice), un altro dato spiazzante è la voce narrante: un giornalista di cronaca che non parla una lingua letteraria ma cronachistica, al punto che un lettore finisce per credere che il tuo non è un romanzo ma una raccolta di articoli trascritti dopo una ricerca di corrispondenze negli archivi delle testate locali. Una sorta di Gomorra in salsa ticinese.

È come dici, infatti la finzione è riuscita talmente bene, ed è così aderente al progetto narrativo di questo romanzo non-romanzesco, che – mai mi era capitato – ho dovuto deludere più giornalisti spiegando che non è proprio possibile intervistare il direttore di «TicinoSera», la cui firma compare in calce alla seconda prefazione, o quel preciso picchiatore, perché sono personaggi: non si dà proprio la possibilità; a me piacerebbe, ad esempio, parlare con il piccolo Momo de La questione dei cavalli di Arianna Ulian, e primo romanzo ‘fremen’, ma niente, pare proprio che non si possano fare due chiacchiere nemmeno con i protagonisti, neanche se sono di un bel romanzo. Ciò non toglie che il fenomeno dei picchiatori nella Svizzera italiana degli anni Ottanta non sia frutto di fantasia ma storia del Cantone. Così come veri, quasi tutti, sono gli articoli riportati nella terza parte del libro.

Nell’immaginario collettivo la Svizzera è un posto così tranquillo, tutto mucche, banche e cioccolata, che ci vuole molta fantasia a pensare che sia stato teatro di grandi scazzottate. Ma come ti è venuto in mente di raccontare una storia simile? Non sarebbe stato più logico narrare di lunghe passeggiate nei boschi e di ragazzine che fanno ciao con la manina a mucche e caprette? Per noi italiani, il personaggio più famoso della letteratura svizzero-tedesca è senza dubbio Heidi. Tu invece vuoi darmi a bere che la Svizzera è un Paese attraversato da tensioni sociali, xenofobia, solitudine, pugni e sangue.

Più che «nell’immaginario collettivo» mi verrebbe da dire «secondo lo stereotipo più duro a morire». Al di là dei cliché, la connotazione geografica vorrebbe dimostrare che non solo in tutto il mondo gli adolescenti hanno vita difficile – e alcuni per affrontarla lo fanno coi cazzotti, da sempre – ma che capita persino in Svizzera, a conferma dell’aspetto antropologico di cui sopra.

Ma le passeggiate nei boschi, le fai o no?

Certo. Proprio oggi, mentre passeggiavo lungo un campo che costeggia il fiume Ticino, quello che scende verso il Po, stessa acqua, ho visto il cane (un husky siberiano) di un padrone distratto da una telefonata (parlava arabo e mi pareva simpatico), che è partito di corsa verso una mandria al pascolo, stressando le vacche (bianche, ché ormai non ci sono più le mucche di una volta, quelle nostre brune, le Braunvieh) e disturbando una tranquillità che ormai non sanno più che cosa sia. Heidi sta connessa a Instagram e a Zalando, mentre delle capre ha più poca idea. Non come in Italia dove gli ex-partigiani cantano ancora Bella ciao, a Milano si mangia il risotto con la cotoletta anche nei ristoranti cinesi e i mandolini suonano dal Trentino alla Valle D’Aosta.

Scrivi in italiano ma, un domani, che si dirà di te? Immagino l’anonimo compilatore della tua pagina su Wikipedia. Cosa scriverà: Manuela Mazzi, scrittrice svizzera… o italiana? Sai che nemmeno so se esiste una letteratura svizzera? Voglio dire: una tradizione unica in una regione con quattro identità linguistiche diverse. Forse esistono scrittori svizzero-francesi, svizzero-tedeschi, svizzero-italiani, svizzero-romanci. Ma scrittori svizzeri… no, non ce ne sono.

E se scrivesse solo: Manuela Mazzi, giornalista e scrittrice? Il resto fa parte della biografia, non della scrittura. (E comunque, almeno io ho studiato in italiano, non in francese come Alessandro Manzoni…)

Ermanno Cavazzoni scrive nella postfazione: «Il Breve trattato sui picchiatori nella Svizzera italiana degli anni Ottanta è un racconto monumentale, come sempre è il racconto della gioventù e dell’adolescenza selvatica». Quando l’ho letto ho pensato che al di là del tentativo, sicuramente riuscito, di trascinare il lettore in un gioco letterario, in questo libro (non saggio, non romanzo e non trattato sociologico) ci sia qualcosa di autobiografico. Mi sbaglio?

Decisamente sì, ti sbagli.

Ehi, ma provochi! Non devi contraddirmi, altrimenti mi fai fare la figura dell’ignorante e nessuno scrittore vorrà più farsi intervistare!

Ma è così: il mio libro non contiene una sola riga di autobiografico. Anzi una sì, l’ultima frase della scheda del Corvo: «Ancora oggi, prima dell’alba, capita di incontrarlo su un marciapiede di una via secondaria». Mi capita quando esco alle sei per andare a prendere il treno che mi porta al lavoro.

Hai scritto un libro denso, ricco di cose che succedono, di evocazioni, memorie, eppure mi sembri dotata di una scrittura asciutta che non si perde in fronzoli. Basta pensare a come descrivi uno dei personaggi più importanti, Matt Stehnermeier detto Nitro, ex pugilatore. Di lui dici: «Non ammazzò mai nessuno, ma sarebbe potuto capitare». In questa frase c’è tutta una vita. Appena l’ho letta, ho pensato che potrebbe stare benissimo in un libro dei miei libri preferiti: Delitti esemplari di Max Aub. Forse non c’entra niente, un lettore vede ciò che vuol vedere, ma tu dimmi: la tua ispirazione ha attinto a un modello, un libro, uno scrittore? Non dirmi Giulio Mozzi, altrimenti mi tocca ricominciare dalla prima domanda e non la smettiamo più…

Posso dirti che ho iniziato a scrivere questo libro prima di leggerne uno qualsiasi di Giulio Mozzi? Così è. Inizialmente mi è stato consigliato di leggere Vite di uomini non illustri di Giuseppe Pontiggia, il quale pure adottò uno stile asciutto. L’ho letto però solo dopo la stesura del Breve trattato. Durante la scrittura, invece, ho letto Falene: 237 vite quasi perfette di Eugenio Baroncelli e La letteratura nazista in America di Roberto Bolaño. Mi hanno ispirata? Uhm, forse no. Non per quel che concerne lo “stile” che è venuto da sé nel momento in cui ho deciso chi fosse il narratore; non amo in ogni caso i testi enfatici, pieni di fronzoli.

La collana che ti ospita si chiama fremen. A cosa allude?

I fremen sono i guerrieri del pianeta Dune nella saga fantascientifica creata dallo scrittore Frank Herbert. In editoria, possiamo immaginarli come una sorta di outsider che scrivono testi che non rientrano nella forma classica del romanzo e sono di regola respinti dall’editoria tradizionale.

I guerrieri di penna. Quel diavolo di Mozzi ne ha pensata un’altra delle sue!

Gruppo MAGOG