21 Ottobre 2024

Chi vive riccamente, riccamente si esprime. Discorso contro la neolingua dei nostri tempi

Il termine “linguaggio” rinvia, molto semplicemente e a un primissimo approccio, a diverse forme di espressione del Sé. Ma dove nasce la parola o l’espressione che permette di distinguere se stessi da una realtà-coacervo che include tutto in una sorta di fusione primordiale che non permette al Sé di venire in luce dallo sfondo del mondo che accade? Per certo, è lecito pensare che senza linguaggio, quale che sia, una qualsiasi identità sarebbe una farragine infernale, ed è altrettanto lecito rivendicare il legame intimo tra esso e la complessità della vita.

Bisognerebbe, preliminarmente, dichiarare con forza che la neolingua cui siamo ormai assuefatti, non è una sana e completa espressione dell’individualità, né tanto meno uno strumento utile all’emancipazione dai dogmi e le false verità del sistema, che si spacciano per assolute e “ontologiche”, né tanto meno uno strumento e basta. È qualcosa di più preconscio ed emotivo, pervasivo, intangibile ma “seminale”, e rimonta a un potere che si fa mallevadore presso l’umanità intesa come progetto di vita e vita fattuale. Sarebbe schematico e didascalico affermare che il linguaggio potenzia la soggettività donandole aria, luce e prospettiva, là dove il contesto dell’umano esprimibile stagna, adesso, in fraseologie stereotipiche che vengono rimpiazzate ciclicamente e disinvoltamente attraverso una diffusione di massa di neologismi triti e sempre nuovi: altrettanti termini che divengono immensi contenitori sigillati da costante manomissione della sfera cognitiva e tali da raccogliere senza alcun pensiero critico o specimen semiotico, tutta una serie di sfumature che, per intenderci, divengono un unico colore? Direi di no.

Se vi è qualcosa di eidetico nel colore rosso, questo permette un’astrazione dal rosso fisico, mettiamo, di un oggetto, che riconduce a una matrice non particolare, anzi generalissima e applicabile a diversi ambiti. Ma cosa avviene se si manifesta il contesto contrario e si riconducono e si fanno precipitare in un rosso generico e astrattivo tutte le sfumature immaginabili di quel colore, cioè tutte le manifestazioni particolari ed esperienziali di altri tipi di rosso? L’esempio vuole alludere alla perdita di un linguaggio plurale e ricco, un linguaggio che si faccia carico di gestire l’ampiezza del reale senza amputazioni di senso possibile/esprimibile. Se esistono più termini per definire, per esempio, un sentimento, perché defalcarne molti a vantaggio del dominio semiotico di alcuni? Questa selezione spietata al ribasso è un crimine contro la vita, prima ancora che un semplice uso invalso perché ammannito in ogni forma.

Sul filo di questo esempio, noi vorremmo recuperare la natura proteiforme dell’amore, le sue infinite declinazioni e, perché no, anche ciò che non è riconducibile o consono a una morale dominante. Si dovrebbe poi considerare che metafore, sinestesie, sineddochi, metonimie, anafore e così avanti non sono solo strumenti da impiegare ma soggetti completi (narranti) della manifestazione linguistica e conoscitiva, e non meramente funzionali a un dominio gerarchico di alcuni contenuti specifici su altri; esse stesse sono manifestazione e testimonianza squisita di amore, un amore inafferrabile quanto debordante, astruso quanto vicino.

Ma se la parola è espressione di particolarità è anche astrazione, così se esprimo il concetto di vaso attraverso la parola che lo identifica, lo posso fare spogliando quella definizione di ogni elemento particolare afferente il colore, la forma e ogni altra specificità di un oggetto fisico singolo. Ciò non significa che non possa riferirmi a un oggetto e specificare linguisticamente le sue caratteristiche, naturalmente. Ora, è molto semplice, il potere per conservarsi e consolidarsi, deve impoverire il linguaggio, creare un ambito in cui tutte le specificità finiscono nel tritacarne “pansemantico” (e mi riferisco al rapporto, qui promiscuamente plurimo e indistinto, tra segno e oggetto riferibile sia alla pragmatica che alla semantica) di una parola che ne veicola solo un concetto astratto e generalissimo, includendole in un ambito interscambiabile e anomico dal lato della reale significanza. Per contro, la lingua intesa come koinè, sarebbe territorio sensibile e auspicabile per consentire vite non uguali ma identiche a sé… Se vi fosse bisogno di esprimere un rapporto affettivo, emotivo o semplicemente logico-verbale di espressione di individualità in relazione tra loro, si dovrebbe pensare a un territorio, un territorio ibrido di altre appartenenze, un suolo comune di intesa o dissenso, partecipazione o rifiuto, e così avanti. L’appartenenza a un territorio definisce un paesaggio privato (cosa che oggi è in eclissi) e la condivisione spinge verso il suo allargamento: si badi bene, non in termini di assoggettamento di un paesaggio all’altro, non si tratta qui di un prevalere, anche se naturalmente possibile, ma di identici a confronto che armonizzano prospettive, vedute, modi di essere ed esprimersi in una terra franca e scevra di confini rigidi e frontiere (esse sono sempre apportatrici di conflitti e guerre). Per questa via il linguaggio è non tanto un mezzo, come detto, ma un’identità, che ha da essere condivisa, e anzi quanto più relativa e distintiva tanto più ricca e non generale, non sacrificata sull’altare di un pensiero/linguaggio totale e totalizzante che assorba a sé tutta la ricchezza del reale per ridurla a tassonomie “devianti”.

Se l’individuo vive riccamente è perché si esprime riccamente. Ma non si è mai visto, come oggi, un tempo più intriso di conformismo della parola, di assoggettamento delle particolarità a formule generalissime che scolorano l’una nell’altra fino a gabellare per oggettive, ipostatizzandole, quelle che dovrebbero solo essere ipotesi possibili su come identificare dei contesti. La poesia in questo senso offre un esempio luminoso, quando non didascalica e pedante, ovvero l’occasione di designare, per riprendere il nostro esempio, molti amori possibili e non solo un amore “standard”, e questo fino alle soglie dell’apparentemente inesprimibile. Perché la poesia si fa carico, in prima istanza, dell’inesprimibile, allarga i confini di una identità, ibrida e bandisce i purismi, delira uscendo dal solco del consuetudinario, sfugge a calchi e da altre forme di conoscenza modellistiche come quelle scientifiche, bandendo proprio l’idea stessa di un modello di spiegazione di “fenomeni” che sia eleggibile per semplicità e conformità col dato empirico; la poesia scardina ogni meccanicismo, ogni determinismo e vocazione teleologica, proprio perché è complessa e irriducibile, non è figlia di un progetto destinale ma esistenziale e non si pone alla fine del tragitto dell’umanità, ma sempre un attimo prima, sulla soglia del baratro di una fine differibile.

Essa finge per dire la verità. Il potere, oggi, dice la verità per fingere. E quella verità diviene luogo comune, fraseologia, modello di agito, abitudine, opaca forma reietta di vita costretta nell’impronta della penuria di Sé e dell’abbondanza di un “Noi” che bandisce l’amore e elegge il suo analogo apocrifo nella forma di un sentimento meccanico, coattivo, per-esperienziale… Quel “Noi” è di nuovo un calco, non un territorio condiviso o allargato a quello del prossimo, ma un paesaggio di cartapesta senza spessore e prospettiva reale. In questo senso si dovrebbe agire non per imitazione ma per manomissione di quel “Noi”, e per sostituzione, cioè sabotando la sua realtà ipostatizzata nella forma di comandamento, o di dovere, e cambiandola in un diritto alla piena espressione del Sé e della sua potenza; ed entro la quale la condivisione rimanga un’ipotesi aperta, cioè la terra franca cui si accennava.

Di pari passo, se il linguaggio non è solo uno strumento logico-verbale ma una identità, si dovrebbe promuovere la salvaguardia delle sue diversità interne ed esterne. Tutte le espressioni artistiche divengono una festa della profondità, una celebrazione dell’unione nel rispetto delle identità che vi concorrono, l’occasione irripetibile di nutrire la libertà invece di favorire identità eterodirette.

Il linguaggio, tanto più è ricco, va da sé, tanto più è sedizioso e irriverente verso gli stereotipi imposti dall’alto, verso il conformismo e un potere che livella le coscienze, atomizza le identità e depaupera la percezione delle sfumature, delle declinazioni più variate del sentire ed intendere.

Se il linguaggio, come detto in avvio, permette di far venire in luce una identità, per separazione dal fenomenico e la sua prima forma è la distinzione, è anche vero che l’assimilazione è terreno scivoloso e forviante; anche se i rapporti umani in senso pieno fossero un noumeno inattingibile e solo esperibile con degli apriori, il linguaggio renderebbe quel noumeno conoscibile in quanto testimoniato e condiviso non tanto per assimilazione ma per fertile proliferazione e rifrazione senza limiti di eccezioni. Questo non significa che esso non sia occasione di vivere veridicamente facendosi carico della responsabilità biunivoca che intercorre tra l’espressione di un territorio e di un altro entro uno spazio comune che non sia già nelle matrici delle semplici volontà in gioco.

Esprimere idee, sentimenti, volontà, progetti, passa attraverso la potenza del linguaggio, ed è linguaggio ogni cosa conosciuta e sconosciuta che vive: attende solo di essere colta nella pienezza irriducibile della propria singolarità, fuori da convenzioni e formule fruste, con uno slancio conativo di partecipazione del mondo, con l’intenzione ferma di narrarlo e di testimoniarlo. Perché ogni storia narrata è a suo modo perfetta, anche quando terribile, se ha per fondale un silenzio libero; e per contro ogni silenzio imposto è un obbrobrio, e ogni manifestazione linguistica che ne esce è predicato di un soggetto/oggetto da ricondurre a quel “Noi” che dicevamo dover essere sventato.

Se la poesia di cui parlavamo, poi, non ha leggi è perché il reale non ha solo leggi (conosciute), è perché essa elude l’ovvio e l’acquisito e niente ha a che spartire con un silenzio asservito, molto invece con un silenzio creazionale.

Massimo Triolo

*In copertina: Vasilij Kandinskij, Einige Kreise, 1926

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