05 Luglio 2019

Concorsi universitari: la solita farsa. Le inchieste sono doverose. Ma non sarà la legge a risolvere il problema delle baronie e del nepotismo. Sarebbe necessario un ritorno alla moralità – o alla decenza, almeno

«Tutti i concorsi sarebbero stati organizzati prima, sulla base del vincitore. Il bando, secondo gli accertamenti della Digos, sarebbe stato costruito ad hoc attorno al vincitore».

Quella enfatizzata da recenti indagini sui concorsi universitari non è altro che la prassi, già nota, e ampiamente diffusa, dei cosiddetti «bandi profilati», ossia tarati e calibrati sulle competenze e sui titoli del vincitore predeterminato, insomma appositamente congegnati e stesi per far vincere qualcuno. A volte, pare, addirittura elaborati proprio dal vincitore già designato. (Il quale, invero, potrebbe sempre dire che nei duelli spettava allo sfidato la scelta dell’arma).

Una prassi, peraltro, superflua: almeno nell’area umanistica, dove il giudizio è ovviamente meno oggettivo e più facilmente opinabile che in quella scientifica, la commissione trova comunque, senza difficoltà, il modo di far vincere chi vuole. (Soggettiva e cangiante può essere l’interpretazione di un sonetto di Petrarca; meno la risoluzione di un’equazione).

Stando a quanto finora emerso dall’inchiesta, l’introduzione di una preventiva «Abilitazione Scientifica Nazionale», necessaria per poter poi partecipare ai concorsi banditi dalle singole università, non è servita a scongiurare il malcostume dei concorsi truccati (o «indirizzati», come alcuni preferiscono definirli – confesso che la differenza mi sfugge). I singoli Atenei, a quanto risulta, comunicavano alle commissioni nazionali i nomi dei predestinati alla cattedra, e costoro ottenevano la sospirata abilitazione. Abilitazione, del resto, perfettamente inutile, titolo platonicamente e sterilmente onorifico, per chi non ha poi la possibilità di farsi bandire da un’università un concorso cucito su misura.

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Le inchieste sono doverose. Ma non sarà la legge, non saranno i magistrati a risolvere il problema delle baronie e del nepotismo. Sarebbe necessaria, a tal fine, una vera e propria, e improbabile, rivoluzione della mentalità e del costume; un ritorno, o forse un primo approdo, alla moralità, al rigore, alla meritocrazia – o almeno alla decenza.

Forse nel nostro paese tali princìpi non sono mai stati particolarmente in auge. Tuttavia (mi riferisco all’area umanistica) un tempo la cultura era, almeno nella fascia medio-alta della società, un valore riconosciuto e non del tutto negletto. Dunque esistevano comunque i potentati e le «scuole», ovviamente (basti pensare al contesto culturale del primo Novecento, in cui il campo era conteso fra il Neoidealismo da una parte, lo storicismo filologico e documentario dall’altra, ma non senza un sottile spazio per la dissidenza – un Rensi, un Tilgher, o gli Ermetici fiorentini – che oggi invece non sembra essere ugualmente concesso, a livello di accademia e di grande editoria, da una dominante ortodossia genericamente radical e leftist); ma si doveva salvaguardare un minimo di decoro.

Gli studenti, all’epoca, erano in grado di riconoscere un mediocre; oggi meno. Non sembra del tutto infondata, ancor oggi (anche se ci sarà sempre qualche fortunata eccezione), la grigia diagnosi formulata da Guy Debord in uno scritto del 1966, Della miseria in ambiente studentesco. «Che l’università sia divenuta un’organizzazione istituzionalizzata dell’ignoranza, che la stessa ‘alta cultura’ si dissolva al ritmo della produzione in serie dei professori, che questi professori siano tutti cretini, la maggior parte dei quali susciterebbe la derisione di qualsiasi uditorio liceale – tutto questo lo studente lo ignora, e continua ad ascoltare religiosamente i propri maestri». Con la differenza, forse, che oggi lo studente non ascolta più religiosamente; anzi forse neppure più ascolta.

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Oggi la cultura non è più, in genere, un valore condiviso e sentito, neppure negli ambienti intellettuali ed editoriali. Sopravvive, anzi si è accentuata, la faziosità ideologica, per la quale si tende a giudicare e a incasellare un autore per l’orientamento, vero o presunto, delle riviste, delle testate e delle sigle editoriali a cui sono legati i suoi scritti. Che quasi nessuno ha più tempo e voglia di leggere, né la capacità di interpretare e giudicare.

Il vecchio umanesimo, la vecchia «cultura borghese», saranno stati anche retorici tronfi classisti verbosi idealisti fumosi, o addirittura reazionari e fascistoidi, e tutto ciò che si vuole; ma almeno inducevano a leggere i testi, e presupponevano la capacità di capirli, ricordarli, citarli – insomma ponevano i presupposti perché fosse tenuto in qualche modo in vita un sistema di riferimenti e di valori, e perché, in casi rari, potessero fiorire una creazione e un pensiero davvero essenziali e nuovi. Chi aspirava al mestiere delle lettere doveva saper scrivere in una prosa ameno tollerabile, e avere un patrimonio di conoscenze e di letture almeno dignitoso, non soffocato dalle nicchie specialistiche. Oggi, invece, per lo ‘specialista’ è necessità e vanto essere ignorante su quasi tutto ciò che esula dal suo ristretto àmbito, e la ‘vastità di interessi’ è sinonimo di dilettantismo.

Inutile dire che la stessa frammentazione del sapere in nicchie specialistiche favorisce le baronie e rende più agevole la promozione di un mediocre. Vastità di letture e profondità di pensiero non sembrano più necessarie. Anzi sono spesso viste con timore e fastidio, in un’epoca che diffida dei valori, delle passioni, delle visioni del mondo, che liquida come sterile estetismo ogni discorso umanistico autonomo dall’ideologia, e tende a privilegiare le vere o presunte «competenze specialistiche» (certo necessarie in campo tecnico e scientifico, asfittiche in quello umanistico).

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Uno scrittore, un tempo, ironizzava sugli «specialisti del Purgatorio» che non sanno nulla di Dante. Oggi ci si è spinti oltre. Ci sono «massimi esperti mondiali» di singoli testi, di singoli autori minori e minimi; addirittura di singole espressioni o parole dialettali. Su ciò – oltre che su qualche nozione manualistica – si fonda e si fonderà il loro magistero. Il che non pare rendere molto roseo il futuro orizzonte delle lettere.

Un millenario edificio è crollato; un’immensa galassia è tramontata. Al clientelismo e alle baronie (e, cosa forse ancor più sinistra, ad una plumbea tirannide tecnocratica) non sembra esservi (malgrado la buona volontà di qualche isolato magistrato) più argine.

Si potrebbe ripetere ciò che Croce scriveva a Gentile, in séguito ad una delle non poche vicissitudini universitarie patite da quest’ultimo. «Non mi meraviglio, e quasi non ne ho provato dolore. Nulla est redemptio, né moralmente né intellettualmente».

Ma potrebbe ribellarsi al sistema solo chi (proprio come Croce) ne resta al di fuori, chi da esso non ha più nulla da sperare e da attendersi. Mentre, paradossalmente, qualsiasi mutamento efficace (che non può essere imposto dall’esterno o dall’alto attraverso una legge, né da un ipotetico superiore invadente onnipotente organismo di controllo, che rischierebbe anzi di compromettere quella libertà accademica senza la quale neppure l’etica e il rigore avrebbero più fondamento e senso) dovrebbe partire proprio dall’interno, scaturire da una rinascita del senso etico, e, prima ancora, della passione culturale, a cui esso spesso si accompagna.

Matteo Veronesi

*In copertina: il manifesto de “L’angelo sterminatore”, il film del 1962 di Luis Buñuel 

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