I titoli dei giornali fungono da didascalia. Il Times ci fucila con una sfilza di aggettivi atti a folgorare il titano: “arrogante, odioso, freddo, donnaiolo”. D’altra parte, la Literary Review lo chiama “Il Bardo di Chicago”. Il paradosso trova alimento nelle intenzioni – vacue e alate – dell’autore (“Non vorrei mettere in mostra le mie rovine… la mia lieve, porosa foglia di fico”) e dalle pagine – anonime – di una vecchia edizione di Herzog: “Saul Bellow è uno scrittore schivo che non ama porsi al centro dell’attenzione del pubblico e nemmeno impegnarsi nei dibattiti che alimentano la vita dei salotti letterari o le polemiche della critica”. Come vizioso contrappasso, invece, a Bellow, passato ad altri mondi nel 2005, è capitato un biografo analitico come Zachary Leader che dopo il primo volume di The Life of Saul Bellow (titolo: To Fame ad Fortune, 1915-1964, 2015), conclude, ora, tre anni dopo, l’opera (il secondo tomo s’intitola Love and Strife, 1965-2005), che raccoglie in 1500 pagine totali la vita dello “schivo” romanziere. Evidentemente, oltre a levargli la foglia di fico, gli hanno staccato e cucinato le pudenda.
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La prima domanda, la solita, in effetti, è questa: ma cosa c’importa della vita di uno scrittore? Saul Bellow, per altro, non è un D’Annunzio, non ha preso Fiume e non ha piroettato sui cieli di Vienna: se ne è stato lì, “morbosamente inquieto”, a dar spago alla propria avveniristica avidità di vita. Sostanzialmente, l’esistenza di Bellow è votata a dar noie al prossimo, a disorientare chi tenta di arpionarlo a un’etichetta, a disintegrare tutte le etichette abitando l’epopea della contraddizione. Esempio. Nel 1965 lo scrittore partecipa al Festival of Arts organizzato dalla Casa Bianca nonostante disapprovasse l’intervento in Vietnam ordito da Johnson. I ‘colleghi’, attendendosi il gran rifiuto, s’indignano; lui li onora con un perfetto aforisma: “Non sarei mai andato, mi ha obbligato la mia ostinazione a contraddirmi, la necessità di essere in disaccordo con tutti”. Direi che queste parole – contraddizione, disaccordo – s’accordano alla vita estetica di Bellow.
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Tutto il resto è gossip. O meglio. La vita di un uomo tormentato da se stesso e dai propri appetiti coniugali, che si lagnava con gli amici – “litiganti e avvocati mi inchiodano a Chicago”, scrive nel 1979 – e veniva redarguito dalla terza delle cinque mogli, Susan, che non credeva più alle sue estatiche crisi – “fili sottili e delicati m’imprigionano a te come Gulliver, sono gonfio di frecce lillipuziane che mi danno un prurito orrendo” – e gli urlava, “occupati di tuo figlio, tu sei il padre, mica il bambino”.
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Prof per tutta la vita, esordio letterario nel 1944 con L’uomo in bilico, nel 1962 ottiene l’agognata cattedra all’Università di Chicago. Nel 1967, osservando i suoi studenti e l’avanzata della ‘controcultura’, Bellow piglia la penna, la intinge, come sempre, nel veleno, e scrive al Chicago Sun-Times: “Come Maria Antonietta che si dilettava con le pecore, come Gauguin che si volge verso i Mari del Sud, come Rimbaud che si è fatto selvaggio, così i bambocci di Haight Ashbury chiedono alla civiltà che li ha prodotti di essere liberi e felici come gli uomini primitivi… I movimenti giovanili non sono invariabilmente una buona cosa. La Hitlerjugend non lo era di certo. Come non lo erano i Lupi di Benito Mussolini. Non lo era il Komsomol di Stalin. E non ci hanno riempito di fiducia e di speranza le bande maoiste”. La forza tracotante della massa spaventava Bellow, paladino dell’individualismo, dell’isolamento dal pensiero comune.
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Alfred Kazin becca giusto quando parla di Saul Bellow comparandolo a Charlie Chaplin: “…aveva un viso totalmente aperto alla vita, umile, perfino infantile nella sua esattezza malinconica, nell’attesa ingenua. Soprattutto, aveva un viso sottomesso al fato”. Saul Bellow come Herzog, la sua creatura più riuscita, di grottesca e umorale nobiltà – sentite l’incipit: “Se sono matto, per me va benissimo, pensò Moses Herzog. C’era della gente che pensava che fosse toccato, e per qualche tempo persino lui l’aveva dubitato. Ma adesso, benché continuasse a comportarsi in maniera un po’ stramba, si sentiva pieno di fiducia, allegro, lucido e forte”. Questa sottomissione al fato mi pare illuminare. Nei romanzi, Bellow distilla il caso in paragrafi, munge il fato in verbi di gloriosa intensità. La vita, invece, la piglia per quello che è: un ceffone a pieno muso.
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All’apparenza, in Italia siamo messi bene. Mondadori continua a ristampare i singoli libri di Bellow, dopo aver dato vita, dieci anni fa, ai due ‘Meridiani’ che celebrano i Romanzi di uno dei più singolari e potenti scrittori del secondo Novecento. Ma chi lo legge ancora il romanziere straordinario, Don Chisciotte dell’Occidente, che nel 1994, sul New York Times aveva il coraggio di dire, “La Francia ci ha donato un solo e unico Proust. Non esiste un Proust bulgaro. Avrò offeso i bulgari? Del resto, neanche noi abbiamo un Proust: la Casa Bianca dovrebbe forse emettere una fatwa e fissare una taglia su chi osa bestemmiare contro l’alta cultura americana? I miei detrattori, molti dei quali non sono riusciti a capire ancora dove sia la Papua Nuova Guinea, vogliono condannarmi perché disprezzo il multiculturalismo e diffamo il terzo mondo. Ma io sono solo un vecchio maschio bianco – per altro ebreo. Il tipo ideale per i loro propositi”. Sull’ultimo numero di The New Criterion, sotto il titolo Mr. Bellow’s planet, Dominic Green lancia l’accusa: “L’accademia ha conficcato i suoi romanzi nel covo della memoria. Bellow non è nei programmi, lo era fino alla nascita dei nuovi studenti universitari”. Insomma, Bellow – ebreo, bianco, occidentale, conservatore, indimenticabile estimatore del vizio – è uno che dà fastidio, vivaddio. Io penso anche che sia troppo complicato per i lettori di oggi. Eppure, un capitolo qualsiasi di uno qualsiasi dei suoi romanzi è spassoso, salutare, fusione tra Dickens e Giobbe, è più ‘facile’ di una nota del tiggì, un editoriale giornalistico, un post su fb.
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Piero Sanavio – che andava in gita in manicomio al St. Elizabeths a trovare Ezra Pound – scrive su Studi Americani del 1956 un pionieristico articolo su Il romanzo di Saul Bellow: “Di qualità epiche e quindi di forza narrativa, non manca Saul Bellow, l’unico scrittore che possa veramente essere considerato tale, tra i molti pubblicisti americani della generazione post bellica”. In particolare, Sanavio si sofferma sulle Avventure di Augie March. A me piace molto Il re della pioggia, secondo alcuni è Il dono di Humboldt il romanzo più bello, di certo Il pianeta di Mr. Sammler, greve di mistico nichilismo, è il libro – superbo – che pochi sopportano – troppo poco ‘corretto’. “Solo Saul ce l’ha fatta, di noi… ce l’ha fatta da solo, con la furiosa resistenza della sua personale immaginazione contro la stoltezza del round”, ha scritto Alfred Kazin. Il Premio Nobel per la letteratura – era il 1976 – costrinse Bellow alla fama planetaria, lui che godeva – celebrato – a sputare in faccia al successo. Non è compito dello scrittore riempirci la sedia dove comodamente passiamo i giorni di aghi? Non è suo il compito di tramutare le vertebre in generatori elettrici, in shock continui e quotidiani? Oggi allo scrittore è chiesto di oliare con vaselina le nostre convinzioni; forse anche a Bellow saprebbero dare del ‘fascista’. Inappetenza alle norme, inappartenenza ai club. Oggi mi trovo perfino a difendere Bellow dall’ostaggio dell’idiozia. (Davide Brullo)