L’esistenza non basta. Su Kazimierz Brandys, un Don Chisciotte polacco
Libri
Silvano Calzini
L’innominabile inattuale
Fu per un caso che, a mezzo degli anni Novanta nel pieno dei miei studi musicali, mi si rivelarono d’un colpo uno sconcertante scrittore e un sommo direttore d’orchestra dalle pagine del «Giornale», al quale Piero Buscaroli aveva destinato un articolo – scopersi molti anni dopo ampiamente manipolato – su Wilhelm Furtwängler. Corsi a procurarmi quel che la mia scarsella e il mercato consentivano, e fu il Bach in edizione economica.
Infine lo conobbi per il tramite del comune amico Anacleto Verrecchia e brevemente frequentai, sedici anni fa esatti, novembre 2004, poco dopo aver terminato esaltatissimo il titanico Beethoven stampato quella primavera.
Nonostante i nostri rapporti presto si infransero su consuete incomprensioni, che raccontai facendoli precedere dal meglio di quella relazione, in due lunghi articoli su «Linea» nel 2010, mai è venuta meno l’attenzione e la consuetudine con la sua figura così eccentrica ed estranea al mondo, materiale e ideale, che mi circondava in una Torino e in un’Italia asfittiche e ottuse; e tanto ancora mi mette in eccitazione da averci in cantiere un libro a mezzo tra memorialistica e critica. È l’omaggio doveroso, seppur ricco di obbiezioni e distanze, a un maestro ingiuntivo dimenticato o quasi, capace di slatentizzare e rafforzare sentimenti percepiti con dolenza e fastidio davanti agli orrori etici ed estetici dell’epoca moderna.
L’unico testo pur letto, saranno vent’anni, ma sino a oggi rimasto fuori della mia biblioteca per la sua irreperibilità (o per mia sbadataggine), era Paesaggio con rovine, uscito la prima e unica volta da Camunia nel 1989 e ora ristampato da Bietti, che s’è presa la briga in questi tempi di immettere su un mercato periclitante e desolato un titolo all’anno di Buscaroli, trascegliendo dai lavori disimpegnati da vincoli editoriali.
È una silloge di trentasette articoli, quali estesi, quali meno, che corrono dalla metà degli anni Sessanta e si arrestano agli Ottanta, un istante prima del crollo del Muro di Berlino, e in cui trovo rafforzato a diversi gradi e con riconoscenza quell’accento di sconforto e disgusto per «l’agonia e la morte d’Europa», giusta l’Avviso dell’autore.
Sì, ma quale Europa? Si potrebbe sintetizzare: ancien régime, e quanto di esso sopravvisse variato e quasi clandestino, nonostante tutto, sino ai nostri giorni. Poco, pochissimo, e più che altro relegato alla memoria, alle tele, alle musiche, agli stili di cui Buscaroli si fa erma e custode pressoché solitario.
Sbrigativi e infidi liquidano il personaggio invariabilmente quale “fascista”, pretesto a schiere d’ignoranti scherani per tenerlo fuori del consesso degli autori fondamentali persino in musicografia, il dominio in cui egli maggiormente ha dato. E si intenda: non ne hanno mai letto una sola riga. Il suo “fascismo” deriva da uno spirito di disciplina, com’egli dichiarò in un’intervista recente e in conferenze pubbliche. Figurarsi: ragazzino tredicenne di famiglia borghese da parte di padre e nobile dalla madre, si vede polverizzare prima da un conflitto bellico e poi da quel disgraziato biennio ’43-’45 l’ordine domestico e sociale faticosamente e alacremente costruito; e ciò senza contare la disavventura infame in cui fu costretto il padre Côrso in quei momenti, una delle vergogne più eloquenti dell’incipiente periplo resistenziale e democratico.
Diventare “fascista”, per uno del suo lignaggio morale e dei suoi gusti, fu un imperativo interiore, testimoniato sino alla morte e ben spiegato nelle pagine più dure di Dalla parte dei vinti. Questo “fascismo” troppo sottolineato, e da Buscaroli, e ancor di più e smodatamente dai nemici o semplicemente dagli stupidi, era per lo scrittore romagnolo una faccenda privata, giammai invasa da turbe ideologiche. Di ideologie Buscaroli poco ne capiva, e ancor meno le amava. Che poi quella scelta istintiva si trasformasse in traccia di vita e di carriera, non metto conto evidenziarlo: quanto si manifestò nell’attività scrittoria, fosse sui giornali o nei libri, era soltanto un’espansione di quanto egli aveva respirato in casa, in certi ambienti, con certe letture e odiato all’intorno. Basti leggere, per acconciarsi un’idea piuttosto precisa, il primo capitolo di Paesaggio o il secondo di Una nazione in coma dedicato all’«eroe proibito» Charette, lealista nella Francia rivoluzionaria, da cui promana tutto l’orrore per la catastrofe via via sempre più irremeabile del Vecchio Continente inaugurata con l’Ottantanove.
Buscaroli vive una dimensione composta di stili e gusti arcaici, propriamente classici, perduti più ancora di ogni lacerto ed eco novecenteschi, difesi ad esempio dall’amato d’Annunzio; e, come mi disse estremizzando al massimo la sua insofferenza per vasta parte della modernità, «L’Impero romano è tutto ciò che ci rimanga».
«Indispensabile» e «insufficiente» diceva della Rivoluzione francese uno che ne visse appieno gli anni, ossia Hegel. Al quale si potrà imputare difficoltà d’espressione scritta (anche se una spiegazione c’è), ma non certo assenza di senso della storia. Piacerebbe a tutti che il mondo si arrestasse, solo magari con qualche lieve variazione, in un torno benedetto, o che le uova restassero intatte. Ma la macina di Clio procede, e lascia in terra i suoi cadaveri, da cui si trarrà concime. Per Buscaroli invece la macina andò avanti sempre peggio, sino all’ignominia attuale.
Per quanto biasimevole o almeno sorprendente potrà suonare agli orecchi di molti questo atteggiamento, diventa difficile non essere in gran parte concordi con Buscaroli e sentirsi, com’egli amava ripetere negli ultimi tempi, «straniero in territorio nemico». C’è infatti qualcosa che ancora sopravviva non agonizzante e fuori del cimitero della bellezza e della grazia nell’arte, nei modi reciproci di trattarsi, nella musica, nella politica, che se non fosse per un’insana curiosità da anatomo-patologo possa suscitare non dirò entusiasmo ma almeno stupore? Se c’è, non lo vedo. Se c’è, ditemelo. Dopo il 1945 venne l’epoca dell’«informe, grezzo e strapotente… un mondo frantumato», che «non ha un suo stile e li usa tutti», una condizione che «potrebbe anche apparire esaltante. Ma si esaltano solo i settari, convinti di tenere il bandolo di ciò che accade». Con qualche distinguo, Buscaroli avrebbe sottoscritto queste parole di Roberto Calasso sull’«età dell’inconsistenza» (L’innominabile attuale).
Come molte altre grandi menti, Buscaroli nutriva uno spirito fanciullesco, tendente a idealizzare il passato, proprio e di un continente, a discapito dell’eternamente inimica realtà. Non giungerò a dire, come un tempo credetti, che l’uomo è sempre lo stesso sotto qualsiasi cielo. Costanti, soventissimamente raccapriccianti, ce ne sono pure, ci hanno insegnato un Giovenale, un Dante, uno Swift, un Cervantes, un Baltasar Grácian. Eppure si ha l’impressione che in qualche modo abbiano ragione gli antichi indù, o gli stoici, per i quali il tempo cosmico si divide in cicli via via sempre più declinanti, putrescenti; oppure ci basterà riferirci a Esiodo e alle sue tre età. E sebbene in fondo dal Gange al mar Egeo si sia scritto sempre nell’ultima delle ère e nessuno abbia mai lasciato una testimonianza attendibile di epoche auree, una qualsiasi scorsa a letteratura, architettura, pittura, musica, costumi odierni ci mostrerà tutta la differenza abissale e incolmabile a petto di quanto anche solo cento o duecent’anni addietro vide la luce. Pare quasi che dentro all’età del bronzo vi sia un ulteriore, incessante decadimento, fino all’indicibile.
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Il segreto evidente
Tuttavia ridurre Buscaroli a un furente e sdegnato aedo dei tempi andati sarebbe riduttivo al massimo. Questa è soltanto una facies del polimorfo scrittore; e, a guardar bene, nemmeno la più perspicua. Un’altra mi pare lo denoti meglio, ed è la sua vocazione al romanzo. È forse l’aspetto suo meno notato, tanto dagli ostili, quanto dagli ammiratori, o seguaci. Non ne scrisse mai uno, né a quanto mi risulta ci tentò, dimostrandosi anzi del tutto refrattario all’impresa, nominata infatti «pasticcio tra verità e invenzione», che «toglie peso e valore agl’impasti che ne risultano» (Dalla parte dei vinti). Eppure alcuni vasti momenti fanno divinare quanto molto più che semplicemente abile egli sarebbe stato se si fosse dedicato al genere.
Tolgo due passaggi dal «Ventre di Parigi», del 1964, contenuto in Paesaggio con rovine: «Vedete una grande scritta rossa, Vente de porcs en gros, sul bianco ingiallito e scrostato di una facciata, accanto a un’altra, di un celeste indefinibile, raro impasto di abbandono, fuliggine e sporcizia. Lunghi comignoli si arrampicano sui tetti, tra aste arrugginite, mansarde a finestrella cieca, nero plumbeo di ardesie, grigi lividi. Una sola di queste visibili miserie, sarebbe niente. Ma tutte insieme creano l’atmosfera dominante, e finite col sentire poeticamente quella realtà che più tetramente impoetica non saprebbe essere». E più oltre: «Ai nostri occhi, esperti e abusati fino al disgusto del nuovo, del netto, del fresco, dei colori puri; bisognosi del pimento ambiguo che conferisce ciò che è vetusto, l’immagine disfatta, il senso dell’abbandono e dell’oppressione, la casuale fascinazione delle cose desolate, tutto ciò finisce per apparire bello. Bello, abbiam preso l’abitudine di pensare, davanti a uno scorcio, una via, un muro scrostato, “come” un impressionista, “come” un surrealista, “come” un quadro astratto. La poesia di questa Parigi, il suo colore dell’antipoesia, della vita meschina, la tinta casuale dell’avarizia, la paradossale, incredibile avarizia francese, della vita vegetativa e corporale, dell’appetito, hanno il loro tempio e la loro festa nel colossale mercato di verdure, di carni, di pollerie, che della città spontanea è il vero baricentro morale, il contrappeso naturale dell’Eliseo e dell’Arco di Trionfo».
Un altro saggio viene ancora Dalla parte dei vinti; è l’attacco: «Mezzocorona. La prima stazione dopo Trento, la stretta di Salorno, il confine linguistico. Scomparsi il vecchio albergo e il piccolo caffè di legno con la staccionata, dopo sessant’anni restano fasci di binari, bassa edilizia, depositi. Nulla da ricordare. Eppure, ogni volta che mi provo a rimettere in movimento immagini e azioni irrigidite nei silenzi, Mezzocorona ritorna capolinea dello smistamento, la parola nata a indicare lo scomporsi dei treni “misti” e il ricomporsi verso altre destinazioni. Serve ancora benissimo per sistemare carichi di memorie che resistono all’ordine pedante delle biografie e pretendono giravolte e inversioni».
Piglio non dissimile ritroviamo in quello che a mio giudizio è forse il libro letterariamente più alato, il Bach, dotato di una chiusa serrata e ferma: «Il Consigliere segreto e di guerra e Borgomastro Stieglitz temette di non avere espresso a sufficienza il suo pensiero nella seduta del giorno avanti, e volle consegnare alla memoria dei posteri attenti un’altra meditazione. Prese la parola, e disse: “Il Signor Bach sarà stato senz’altro un grande Musicus, ma non fu affatto un uomo di Scuola, mentre per questo servizio di Cantor della Thomas Schule bisognava scegliere una persona adatta a tutte e due le funzioni…”.
«Era vero. L’anomalia era finalmente scomparsa. L’incomoda presenza del genio non turbava più, con la sua imbarazzante eccezione, la normalità scolastica e musicale cittadina. Col giusto sollievo delle buone democrazie, il Consiglio Comunale di Lipsia salutava il ritorno dei bravi uomini comuni, la quiete modesta non molestata da pretese invadenti, il disadorno ma rassicurante aspetto dell’ordine».
Il romanzo è la forma per eccellenza della memoria, fusione di esperienza soggettiva non meno che di ricerca scavo e sistemazione di reperti trascorsi. La freddezza del saggio non appartiene a chi intenda dipingere uno scorcio di tempo infranti o le turbinanti svolte d’un gigante dell’arte da consegnare a contemporanei e posteri. L’élan politico lato sensu di Buscaroli non avrebbe potuto concretarsi in una trattazione sistematica, per quanto briosa e informata sarebbe potuta uscire. Sicché leggere Buscaroli, e Paesaggio con rovine sin dal titolo ne è una testimonianza eminente, significa immergersi in mondi che risulterebbero persino scoccianti se esplorati con l’anodina acribia dell’erudito. Egli invece assomma la perizia meticolosa del filologo all’ardore del memorialista. E questo si chiama romanzo.
In una passeggiata a Cesena gli confessai che attraverso le sue pagine mi era sembrato di toccare Beethoven: «Era ciò che volevo», mi rispose. Si vuole con ciò insinuare che le pagine autobiografiche così repellenti per il senso comune o le musicografiche tacciate di “visionarietà” da qualche merluzzo della critica, siano frutto di un’eccessiva fantasia? Nemmen per sogno, restando in tema. È il modo di trattare quei ricordi incarnati, le osservazioni e le scoperte, i vagoni di letture metabolizzate a rendere i suoi libri degni di essere allocati nella sezione più delicata d’una biblioteca, intitolata alla «Letteratura».
Nelle pagine di Buscaroli si resta avvinti non soltanto da un’eccezionale capacità di registrazione ed elaborazione dei fatti, dai macroscopici ai minuti, dallo scava archeologico delle fonti e dall’incrocio di differenti discipline, ma altrettanto da una prosa incisa come un’acquaforte, sprizzante sfumature e screziature, che per vigoria e penetrazione è accostabile soltanto, sebbene in dominio affatto opposto, a un Amadeo Bordiga. Se lo poteva permettere, e per il suo carattere volitivo, e per certi mentori, e perché – mi verrebbe da dire: soprattutto – fino a qualche tempo fa c’era un’altra genia di lettori, non adusa a lagnarsi per parole desuete, che allora forse non lo erano, né per due subordinate o per concetti e analisi non immediati. A Monteleone quando gli riferii delle lamentele che correvano sottotraccia per la difficoltà oggettiva del Beethoven sbottò con la mano alzata: «Mi sono stancato di scrivere per gli incolti». «Come se mai lo avesse fatto», gli replicai ricevendone in cambio un’alzata di spalle e un accenno di sorriso.
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Sbalorditivi drizzoni…
Per quanto Buscaroli abbia riallineato e riannodato i fili di biografie da bestemmia e autentiche falsificazioni a tavolino, neppure egli è tuttavia esente da cantonate. Dopo la scorsa all’indice e all’indice dei nomi del Paesaggio, mi precipito subito sugli ultimi due capitoli, entrambi dedicati alla Romania, che vergognosamente conosco forse meglio dell’Italia e da un decennio ne traduco l’idioma.
Quanto consegnai nel 2012 ad Aliberti la mia traduzione della Fine dei Ceausescu, prima e sino ad oggi ancora unica inchiesta mondiale sul crollo del regime di Bucarest, vi annessi in appendice un breve saggio integrativo, che si apriva con alcune citazione dal «Catarro di Breznev», analisi tolta da Figure & figuri, altalenante schiera di ritratti contemporanei, perché ritenevo quelle annotazioni assai utili a introdurre i rapporti tra il Paese carpatico e l’Unione Sovietica. Ora però «Dal di dentro» mi fa strabuzzare gli occhi. «Roma – scrive Buscaroli – ha lasciato [in Romania] la lingua, i nomi dei luoghi e di persone ma, soprattutto, una identità storica che è il patrimonio nazionale di questa gente». No e poi no.
I romani giunsero in quella regione con Traiano nel 101 e se ne andarono poco più d’un secolo e mezzo appresso. Da quell’epoca remotissima sino, poniamo, a metà del 1800, quando a poco a poco la Romania inizia a entrare nell’orbita d’influenza occidentale, c’è stato di tutto: zingari (ancora lì), ottomani per due secoli, gli odiatissimi ma influentissimi slavi, greci, ungheresi, sassoni, italiani, tartari, persiani, senza contare la stretta connessione, meticolosamente chiara nel poeta nazionale Mihai Eminescu e spiegata dall’indo-romena Amita Bhose, tra Carpazi e subcontinente indiano. E usi e costumi, dalla cucina alla politica, derivano tutti da questa variopinta congerie. La latinità romena è un mito che qualche storico contemporaneo, ad esempio Lucian Boia, cerca di smontare, ma invano. I romeni non se la danno per intesa e vedono nell’antica e da secoli spenta eredità latina – che poi fu conquista manu militari, come usava – un contrafforte armato contr ingerenze “straniere”, in particolare slave. Di latino, credetemi, laggiù sono restati i soli nomi di battesimo e poco altro. D’altra parte lo storico G.I. Bratianu definì la propria terra un luogo «all’incrocio di vie, di culture e, purtroppo, di invasioni e imperialismi».
E tale equivoco induce Buscaroli a una conseguente lettura errata: «Ceausescu era appena succeduto al dittatore staliniano Gheorghiu Dej [che in realtà è Gheorghe Gheorghiu-Dej, l’ultimo nome essendo di battaglia e derivante da una delle città il cui carcere ospitò l’allora militante comunista], morto nel marzo 1965, e già introduceva due modifiche nella Costituzione dello Stato. La “Repubblica Populara Romina” diventava “Repubblica Socialista Romana”. Il primo mutamento, in questa coppia di aggettivi, si capisce ricorrendo al gergo ideologico. La “repubblica popolare” è il primo stadio dell’evoluzione socialista verso la perfezione, quello informe, grezzo e immaturo. “Repubblica socialista” significa la perfezione raggiunta, l’esame di maturità superato. Diventando “socialista”, la Repubblica romena si parificava, in dignità ideologica, al modello sovietico, e insieme prendeva le distanze. Ormai adulta, pretendeva rapporti bilaterali e rispetto reciproco al posto dell’informe vassallaggio dei neofiti e ritardatari. Facendosi “romana”, eliminava una corruzione lessicale e raddoppiava le distanze, portandole sul piano nazionale e razziale. Ceausescu volle sottolineare, ancor più decisamente, la latinità della sua nazione».
Nemmeno nel testo originale delle formule compaiono di diacritici, ma da dove Buscaroli avrà tratto, libro o insegna, di sicuro sì. Il romana così scritto è in realtà româna, che non vuol significare un analogo italiano, bensì romena. Perché non gli sia venuto il dubbio che româna volesse significare altro che romana, mi è ignoto. Anche il raddoppio della pi repubblicana è sbagliato. Buscaroli ha evidentemente tradotto, ma troppo disinvolto. Quasi di certo sarà stato indotto in errore dalla differenza tra romina, scritto in realtà romîna, e romana, scritto invece come abbiam visto: sono identica parola, nel senso e nella pronuncia, solo con grafia differente che non sto a spiegare. Che poi dietro a romena ci siano i romani, è, come detto, palmare pregiudizio.
Non c’è poi spazio qui per analizzare i motivi addotti da Buscaroli, tutti sbagliati, per spiegare il passaggio politico da una coppia di aggettivi all’altra; e nemmeno preciso perché l’attributo di «staliniano» affibbiato a Gheorghiu-Dej sia piuttosto incauto. Dovrei scusarmi a questo punto con il lettore e con la memoria dello scrittore per la pedanteria. Non lo farò: Buscaroli avrebbe sgradito.
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… ma c’è di peggio
Non meno intollerabile, temo, gli sarebbe apparsa l’Introduzione affidata a Francesco Bergomi, volenterosa e di cuore, ma che a un eventuale lettore di Buscaroli neofita potrebbe o non schiarirgli le idee, o intorbidarle oltremodo. L’estensore annette ad esempio tra i «giganti del giornalismo» quell’Indro Montanelli che Buscaroli ebbe in soverchia uggia, se non peggio, come dimostra lo straordinario capitolo «Chi è questo Piero Santerno?», ancora nei Vinti. Bergomi non lo ha letto, o se l’è scordato: oltre ad aver innalzato quell’encomio discutibilissimo, fa scivolare la notizia dello pseudonimo come pacifico accordo, quando invece esso fu imposto dal direttore al collaboratore per via disse Montanelli, dell’imbarazzo provato da certi gazzettieri del «Giornale» a firmare accanto al solito fascista; né evoca lo scontro tra Buscaroli e il direttore che ne seguì, insieme a tutto il resto. Inoltre mi chiedo perché sottolineare la presenza nella vita professionale di Buscaroli d’un Montanelli, come se scrivere su un certo foglio o sotto l’egida d’una certa penna fosse di per sé già prestigio e attestato di capacità. Misteri della rinomanza. E appunto.
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Una domanda
Che cosa ne sia oggi di questo scrittore, nonostante l’impresa di un editore diffuso, sostenuta dalla famiglia, è una domanda che mi capita sovente di pormi. Esiste un’Associazione Amici di Piero Buscaroli voluta dalla vedova Mariagrazia e dai figli Francesca Beatrice e Côrso; circolano ancora diversi libri; una figlia ne pubblica articoli ormai introvabili su internet: ma la memoria non pare soddisfatta.
Lasciamo perdere i copiosi nemici che egli si conquistò fieramente – ma gli altri? Buscaroli morì nel febbraio 2016 e da allora, salvo qualche iniziativa dai toni quasi privati e qualche articolo (uno anche su questo sito, per i novant’anni virtuali), non si vede altro. Quasi cinque anni di relativo ma sospetto silenzio. Temo che uno dei maggiori motivi, anche se non il principale, a determinare l’incresciosa situazione, sia la perenne sordità dell’Italia. Pigliate a manciate tra gli intellettuali, i colti, i professori, gli opinionisti, i romanzieri e trovatemene qualcuno che si destreggi se non con le sette note, almeno con la loro storia.
Sebbene Buscaroli abbia scritto di politica internazionale, di costume, di storia italiana ed estera, di pittura e scultura, Euterpe gli fu la musa più affine. Il trittico mozartiano (La morte di Mozart, Al servizio dell’Imperatore, Piero Buscaroli svela l’imbroglio del Requiem), più le due monumentali su Bach e Beethoven, senza contare le sparse pagine su Brahms o Wagner (stupendo «Vergognarsi di Wagner» nel Paesaggio) gettano nell’imbarazzo chiunque, anche certi discepoli e amici, i quali si ostinano tra l’altro a dargli di «musicologo», definizione sempre recisamente rigettata perché inadeguata. Da che parte e come trattarne? Impossibile.
Ma in fondo forse la lagnanza non serve a granché, se non a confermare ancora una volta il «fetido nulla» (dedica al Beethoven) puntualmente sebbene contro voglia registrato da Buscaroli lungo mezzo secolo.
Luca Bistolfi
*In copertina: Max Klinger, “Ein Leben”, 1884