13 Ottobre 2020

“A sfida delle dissacrazioni impietose, delle profanazioni correnti, della vile stoltezza”. In memoria di Piero Buscaroli (e della sua “piccola biblioteca per spiriti indipendenti, curiosi, amanti dell’imprevisto, del raro, insofferenti dei loro tempi”)

Quest’anno Piero Buscaroli ne avrebbe compiuti novanta, è morto nel 2016, per anni ho avuto il privilegio di lavorare con la figlia, Beatrice, acuta storica dell’arte. Lo ricordo conficcato in Romagna, terra di passioni estreme, di coltelli, di poemi, di maestri d’arme, allo stesso tempo ‘romana’ e anarchica. Non lo conobbi, ne assaporai il mito di scrittore infallibile, di uomo solido, coraggioso nella rabbia, che guardava il fallimento della Storia. Sul “Fatto Quotidiano” Paolo Isotta, un mese dopo la sua morte, lo riassume così: “Egli sarebbe il più grande scrittore, non uno dei più grandi, degli ultimi decenni, se il disprezzo per Verdi gli avesse almeno generato il rispetto per Wagner. Questi due odi sciocchi e forsennati attengono, come quello da lui portato agli amici, a un carattere che, plasmatosi un indomabile complesso di persecuzione volto a trasferire sulle figure della Storia le proprie angosce, non riuscì a trasformare in magnitudine pure umana la sofferenza. Siccome peccato grave, ne sta ora rendendo conto a chi il genio gli donò”. Fu giornalista di guerra per “Il Borghese”, firma de “il Giornale”, direttore di “Roma”. Aveva un volto volitivo, un’indole nobile, una fierezza; assomigliava vagamente – almeno in fotografia – a Marcello Mastroianni. In concomitanza con l’anniversario dalla nascita, Mondadori ha pubblicato negli Oscar il suo potente studio su Beethoven; nel 2017 era stato pubblicato quello su Bach. Si trovano ancora La vista, l’udito, la memoria, pubblicato da Bietti nel 2019, Dalla parte dei vinti e Una nazione in coma, editi da Minerva. Dovrebbe comparire, prima o poi, un libro su Anton Bruckner (“lavoriamo alla pubblicazione degli scritti su Bruckner”, aveva scritto Beatrice Buscaroli, tre anni fa, sul “Giornale”): sarebbe un evento. Accanito custode della memoria propria e di quella patria, Piero Buscaroli lottò per riabilitare il ricordo del padre Corso, insigne latinista. “Reggente del Fascio” di Imola, Corso Buscaroli fu arrestato e condannato “per concorso morale in omicidio”: il figlio, divenuto avvocato, fece riaprire il caso; la revisione del processo dimostrò l’innocenza del padre, morto, nel frattempo, nel 1949.

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Un lettore di “Pangea”, Luca Sturolo, mi domanda, qualche giorno fa, se abbia intenzione di ricordare Buscaroli. Mi invia un articolo, in cui scrive, tra l’altro: “Per lui l’arte era rivoluzionaria, ma in senso opposto a quello grottesco della sottocultura degli ultimi cinquant’anni e oltre. Rivoluzionaria secondo il significato all’origine della parola stessa, revolvere: un perno su cui ruotano passato, presente e futuro e la cui forma compiuta si è manifestata nel “Classicismo rivoluzionario”, termine coniato da Mario Praz. Con i cardini ben saldi nell’opera di Beethoven e, sul fronte delle arti visive, di Schinkel (rivolgendo lo sguardo anche alla “Clemenza di Tito” mozartiana). La classicità, secondo Buscaroli, non aveva nulla da spartire con gli accademismi, ma andava ritrovata in una visione che comprende in sé tutte le epoche, e nel suo culmine arriva a superarle; culmine rappresentato, come sempre, da Beethoven, di cui quest’anno si celebra o si dovrebbe celebrare in modo più o meno sgangherato, come da copione, il 250° anniversario della nascita. Piero Buscaroli è stato un uomo di cultura fieramente anacronistico o, per dirla in modo meno manchevole, fieramente reazionario; strenuo oppositore a un’idea del tutto fasulla di progresso, politico e culturale, quale è stata e continua ad essere, tenendo conto di come ci viene quotidianamente propinata. “Credo nelle cose, non credo negli uomini”, dichiarò in un’intervista, datata 2013”.

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Nel dettaglio – ininfluente per tutti, non per me –, devo a Buscaroli la scoperta di Henry de Montherlant. Liceale del tutto fuori dal tempo & dal mondo, privo di padre, di padri, di pari, pigliavo l’autobus da Orbassano a Torino, passavo ore alla Libreria ‘Dante Alighieri’ in Piazza Carlo Felice, al 15. A Orbassano non c’era una libreria, ma solo iene evocate dall’asfalto. Per l’editore Fògola, che aveva sede in quella magnetica libreria torinese, Buscaroli aveva inventato la collana “La Torre d’avorio”: ai libri canonici, rinnovati – Virgilio, Hölderlin, Machiavelli, Tasso –, s’alternavano testi anomali, come le Lettere dalla Russia di Custine e le Fisionomie di Santi di Ernest Hello. I libri, severi, erano avvolti in carta velina. Mi sorprende ancora la deliziosa didascalia che narra la collana: “Una piccola biblioteca per spiriti indipendenti, curiosi, amanti dell’imprevisto, del raro, insofferenti dei loro tempi… È un rifugio per solitari dalla mente sveglia”. Nel 1976 Buscaroli aveva tradotto l’opera teatrale, insieme a Port-Royal, più potente e matura di Montherlant, La guerra civile (edita da Gallimard nel 1965), trovando forse, nell’epopea di Pompeo e Catone, analogie con la storia d’Italia.

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Il saggio introduttivo di Buscaroli è meraviglioso. Ne ricalco dei pezzi, in memoria. Naturalmente, filando la vita di Montherlant, Buscaroli parte dalla morte, che la sigilla. “Henry Marie-Joseph Millon de Montherlant si uccise nella sua casa di Parigi, il pomeriggio di giovedì 21 settembre 1972, con un colpo di pistola in bocca. Aveva premeditato minuziosamente il suo gesto: convocato il suo erede per le quattro, un attimo prima di premere il grilletto, allontanato con un pretesto la segretaria, lasciato sullo scrittoio le ultime lettere. Una meticolosa preparazione della scena, degna di un drammaturgo classico, che non lascia nulla al caso. Anche dopo la morte… Ma perché uno si uccide, a settantasei anni? Non sarebbe meglio affidare alla natura e al tempo di completare l’opera? Che siano loro, a scegliere il momento, e così lasciare alle anime buone un’immagine conveniente di sé? Prova, dopotutto, che l’uomo non era preda delle fantasie e dei dèmoni, di cui lo scrittore sembrava posseduto? Le anime buone ebbero la loro spiegazione. Montherlant si era ucciso, perché temeva di diventare cieco… Nobile, ricco, solitario e celebrato scrittore, Henry de Montherlant viveva da decenni accanto al dèmone del suo suicidio. Ne aveva assorbito il culto dalle pagine degli stoici e dei moralisti antichi”.

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Memorabile il finale, perché del corpo, infine, resta la polvere e lo sparo, dell’opera il caos alla posterità, una proterva promessa. “Le ceneri di Henry de Montherlant, raccolte in un’urna, furono portate a Roma. Il giovane erede le gettò all’alba, tra i marmi e le erbe del Foro Romano. Ci si ricordò che Montherlant aveva espresso, un giorno, il desiderio che le sue ceneri fossero disperse tra gli avanzi dei suoi ‘cari Romani’. Le ceneri dei condannati di Norimberga furono sparse nella vallata dell’Isar in un’ultima appendice di inutile odio. I vincitori, che li avevano messi a morte, vollero che non avessero tombe, perché nessuno avesse un luogo su cui onorarli, o ricordarli. Le ceneri di Ciu En-lai furono sparse sulla terra cinese, in un romantico gesto d’amore, perché si confondessero, anche fisicamente, con il suolo della patria. Le ceneri di Montherlant resero alla sua patria antica l’ultimo omaggio di devozione, sopra l’abisso dei secoli, a sfida delle dissacrazioni impietose, delle profanazioni correnti, della vile stoltezza”. Naturalmente, al netto degli schifiltosi omaggi e dei giochi accademici, La guerra civile di Montherlant non si trova più in libreria. Incenerire il genio, in virtù di un opalescente conformismo, è orami una prassi ‘culturale’. (d.b.)    

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