Chi vive nell’arte, in quel quadrilatero di grida e di gloria, ha una cronologia sfasata. Non che il tempo non infierisca sull’artista, non che la sua carne non si corrompa, crepando come fango secco: semplicemente, la storia gli appare come un iceberg alla deriva. Spesso l’artista dialoga con gli spettri – la sua opera, comunque, ha lo stigma del lascito: potrebbe operare nell’apocalisse, potrebbe destinare i suoi lavori alla scia dei corvi, ai giaguari immaginari, ai vermi.
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Boris Zaborov è uomo conficcato nel secolo scorso e nei secoli a venire: lo vedrei a discutere di Puškin con Boris Pasternak e Anna Achmatova, ma la sua opera, di sconfitta bellezza, pare il matriarcato della nostalgia, l’estremo rapporto di un cosmonauta. Nato a Minsk nel 1935, recentemente esposto all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, Zaborov è tra i grandi artisti russi del nostro tempo: la monografia pubblicata da Skira nel 2007 ne è testimonianza. Leggo che Tonino Guerra, per cui Zaborov ha illustrato alcune poesie, lo apprezzava, con queste parole: “Stimo molto Boris, mi piacciono i suoi sentieri della memoria, che lo portano, più che a ricordare i personaggi di vecchie fotografie, a riproporcele ridandoci un’infanzia, anche se drammatica, fatta di solitudine e pervasa da un odore di morte”. Qualcuno ha parlato di Balthus, descrivendo i lavori di Zaborov; io vedo qualcosa di più arcano, di irrimediabile. La lettura del suo diario autobiografico, Impasse Poule, 13 (edito da Gli Ori, 2020; la traduzione è di Claudia Sugliano), mi ricorda, invece, Andrej Tarkovskij. Ci sono dei legami tra Martirologio, il diario di Tarkovskij, e la scrittura di Zaborov; come ci sono dei legami tra i paesaggi radicali, oltreumani del regista e i quadri del pittore. Più che altro, forse, c’è il respiro russo, tra l’icona e il massacro, infinito: i grandi russi – da Puškin a Tjutcev, da Tolstoj a Pasternak e Brodskij – hanno la pacata spietatezza di chi ha vissuto almeno sette vite, e altre ne vivrà, nel punto sonnambulo del giorno. Gente, intendo, con Pietroburgo su una spalla e la cavalcata dei Sarmati nel petto; con una propensione a piantare icone in Siberia.
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Tutto questo per dire che il libro di Zaborov, che non troverete facilmente, è un libro eccezionale, analisi vertiginosa di un artista nel proprio talento – discusso, lottato – e testimonianza di una vita aguzza, coraggiosa. Comincia con l’amore – “Ero innamorato. Per la prima volta. Avevo sedici anni. Vivevo con veemenza, irrequietudine e passione, tra lacrime ed entusiasmi” –, che è poi la condizione dell’artista, e si chiude con la gloria, nel 2018, lo smarrimento nella comunità degli artisti – una continuità, in fondo –, presso la Cappella di San Luca, a Firenze. “Solo nell’ereditarietà, solo nei dialoghi con le epoche passate si devono cercare nuove risorse per l’arte. Quando il dialogo cessa, tutto finisce. Questo è vero per la logica umana. Ma con tale affermazione non si esaurisce forse il mistero della nascita del Quattrocento e dell’Alto Rinascimento, epoche in cui vissero talmente tanti grandi creatori che la nostra ragione non è in grado di abbracciare?”. Infine, la capriola dell’artista nell’impossibile.
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La pittura di Zaborov si muove tra le ombre, le nebbie, i misteri, equilibrando il caos all’eremitaggio tra i sogni. Il suo talento non funzionava nell’impero sovietico. Relegato a fare l’illustratore per libri d’infanzia, incapace di sottostare al diktat del realismo socialista, Zaborov lascia la Russia nel 1981: approda a Vienna, infine a Parigi, dove è libero di esplorare il proprio carisma pittorico. Alcune pagine dell’artista sono di plumbea lucidità: “Il tiranno con il volto segnato dal vaiolo [Stalin] tirava le cuoia sul pavimento del suo annoso isolamento. Impotente. Meschino. Odiato. I suoi collaboratori, in cerchio, guardavano con orrore, nello sgomento di una speranza che incuteva paura. Finalmente la morte gettò il vampiro al sollazzo di tutti i diavoli. Il successore [Nikita Chrušëv] iniziò a smantellare il culto della sua personalità, a rivelarne i delitti, senza analoghi nella storia. Giunse l’epoca del disgelo. Dio mio, quante speranze fece nascere… Iniziò brindando alla morte, per poi perdersi in una giungla di mais. La fece vedere al mondo intero. Ci ripensò. Ritirò i missili da Cuba. Appellò ai dettami del realismo socialista i maestri del pennello e dello scalpello. Poi fu mandato a riposo dai compagni. Morì di morte naturale nel suo letto. Incredibile! Neizvestnyj, uno di quelli da lui definiti ‘pederasti’, fu l’autore del suo monumento funebre. Paradossali vicissitudini della vita”.
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La critica di Zaborov al sistema sovietico è radicale. Ho segnato due momenti. Nel 1948 Zaborov vede “il corpo mutilato di Salomon Michoels”, attore ebraico il cui carisma infastidiva Stalin. “L’assassinio di Michoels era l’ennesimo di una serie di centinaia di migliaia di sanguinosi delitti ad opera del Cremlino”. L’ironia, il cinismo intriso di disincanto, paiono uno sfogo: “Due anni prima del delitto l’artista del popolo dell’Urss Salomon Michoels era stato insignito del premio Stalin e, due anni dopo, dei funerali di stato. Ai piedi della bara, su piccoli cuscini rivestiti di seta rossa, luccicavano le medagli sovietiche dell’ucciso, fra cui quella di Lenin”. Secondo momento: la critica alla politica del ‘disgelo’. “Il potere sovietico, che dopo Stalin non era affatto scomparso, ripresosi dal k.o. e indossati sulle sue mani di ferro guanti imbottiti, gettava il cappo al collo del popolo, al solito spensierato, più incline a reagire a livello di riflessi, invece di dare ascolto alla voce della ragione e della memoria storica”.
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Ma il libro, che alterna dissidenza a tenerezza, non è un manuale del ribelle, è l’oreficeria dell’artista. Ed è pieno di sketch: la volta che Zaborov ha menato Eduard Limonov (“Mi alzo di colpo dal mio posto, afferro Limonov, lo alzo da terra – non so da dove mi vengano le forze – dopo aver dato una pedata alla porta, lo scaravento in soffitta”; i due, che avevano duellato a Mosca, si ritrovano a Parigi, “i tempi erano ormai diversi e anche noi”), l’incontro con Evgenij Evtušenko, trapanato di gloria (“Attraversava la sala con passo sicuro, giovane, alto, bello, il viso già segnato dai riflessi della futura fama… Se non fosse nato poeta si sarebbe comunque ‘realizzato’, come si suol dire. Avrebbe potuto diventare ammiraglio di flotta, maresciallo d’aviazione, capo di una qualche ‘giusta’ rivoluzione socialista…”), il cammeo su Elena Shapova, la prima moglie di Limonov, donna di spregiudicata bellezza e vitalità, incontrata a Roma (“‘I soldi non significavano nulla, quando vivere è così bello’. Eh Lena, Lenočka, come sapevi eccitare i sensi…”), la visita a Tonino Guerra, a Pennabilli: “Ai sentimenti – la gratitudine. Agli occhi – il paesaggio, più bello del quale non mi è capitato di vedere. Su quella terrazza compresi qualcosa di importante: perché il Creatore ha scelto come culla per la nascita della Bellezza universale questa terra. Non è incombente con la sua maestosità, l’uomo non predomina sulla sua perfezione”.
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Credo ci sia una prossimità tra la scrittura russa e l’icona: al di là della ‘rappresentazione’, immerge nella carne trasfigurata, nella vita piena, sfatata in canti. In fondo, si compie un’opera per garanzia di anonimato, con fermezza. Così, anche di una scrittura autobiografica ciò che resta è l’incavo, l’eco nel pozzo, il ritratto sulle acque. “Solo la ricchezza degli altri rende possibile l’esistenza dell’arte e aiuta l’artista a onorare il dovere, elargito dal Signore. Re, principi, papi, cardinali, eredi al trono e altri imperatori del mondo collezionavano arte e commissionavano opere agli artisti. Il paradosso storico sta nel fatto che l’umanità deve essere grata a loro, che hanno retto il mondo, per il fatto di poter ammirare nei secoli, con senso di meraviglia e di inconsapevole felicità e gioia, le sublimi creazioni del passato. Così era un tempo. Ma oggi nella nostra epoca benedetta e fiorente, ci sono più artisti che semi d’ortica in tutti i burroni di Odessa, e tutti con la saccoccia bella piena. Ma che disdetta: più aumenta il numero dei bastardi rinnegati da Apollo, tanto scarseggia quello dei geni”. L’arte non è mai un gesto innocente: s’insinua nel periglio di una colpa, nell’analogia con il male, in alloggio a un desiderio di turbinosa salvezza. Qualcosa muore, perché l’opera si riveli. Anche di questa terribile armonia dice, Zaborov. (d.b.)