“Lo Specchio” Mondadori pare il cimitero degli elefanti. Sull’ultimo libro di Roberto Mussapi (a confronto, i Preraffaelliti sono avanguardia scatenata). Ovvero: barricati nel prodigio continuiamo a cercare la poesia altrove
Questa non è una raccolta di poesie. Va detto subito. Per togliersi l’imbarazzo. Non è neanche un libro “originale”, autenticato da flotte di inediti. Il titolo, I nomi e le voci (Mondadori, 2020), è consecutivo all’ossessione costante di Roberto Mussapi, che rievoca araldi d’ombre dal mito, e disseppellisce dalla giugulare dei secoli desideri incauti, incanti. Insomma, riguarda la “dimensione anfibia, dove voci pullulanti e sciami di esseri denunciano la propria presenza incerta, come in una anticamera del tempo”, propria della poesia di Mussapi, fatta di “visioni, appunto, purgatoriali” (così Daniele Piccini in La poesia italiana dal 1960 a oggi, Rizzoli, 2005). Ma, ripeto, queste non sono poesie. “Monologhi in versi” li definisce il sottotitolo; alcuni, i più riusciti, noti da tempo (La Grotta Azzurra è edito nel 1999), altri, meno belli, antichissimi (si recuperano testi da Voci dal buio, 1992).
In ogni caso, i monologhi, per proprietà narrativa, vanno ascoltati più che letti: la Nota, con sfolgorio di dati, ci annuncia che “non pochi di questi testi sono stati interpretati sulla scena” da attori di platino come Laura Marinoni e Massimo Popolizio, perché non produrre un audiolibro, allora? Non credo, cioè, che questo libro faccia un buon servigio a Mussapi, poeta dell’avventura solare contro il grigiore ombelicale di troppa poesia italiana, dell’epifania più che dell’afasia, traduttore di Melville e di Seamus Heaney, dei “ragazzi che amavano il vento” (Keats, Byron, Shelley), di Yves Bonnefoy, di Samuel Beckett, pioniere di una poetica vitale, radicata nella favola e nel leggendario, non certo nell’esistenzialismo civico, nello sconforto monocratico dei burocrati del verso. In forma libraria, però, i versi di Enea e Didone (“Ma trattenni il pensiero, lo confissi/ in quella zona obliante che lo blocca sul nascere/ per paura di offendere gli dei della morte”) fanno apparire fantascientifica, nata al futuro, la Didone di Giuseppe Ungaretti; Penelope (“E mentre Odisseo vagava in mare, e i suoi incontri,/ le isole oblianti, i lotofagi,/ i mostri bestiali che precedono l’uomo,/ e i piaceri nel letto di Calipso e di Circe…”) pare scritta per una comitiva di Preraffaelliti erranti (i quali, rispetto a Mussapi, sono avanguardia scatenata). Il monologo – per scelta scenica, suppongo – è monotono, la lettura porta da Otello a Orfeo in uno sbadiglio, la felicità lirica di Mussapi spesso appare solo facile, il confronto con Ghiannis Ritsos, ad esempio – un altro che, in Quarta dimensione, rilegge il mito in stato di trance teatrale e visionaria – è spietato. La mancanza di pudore, inoltre, è letale: un monologo non può procedere, con biliosa costanza, per cinquanta pagine; a Thomas S. Eliot, autore caro a Mussapi, ne sono bastate venti per cambiare la storia della poesia moderna. Il libro, insomma, non aggiunge nulla a ciò che sappiamo di Mussapi: cioè, sostanzialmente, che è un poeta che si è concluso con Gita meridiana, “la sua raccolta più importante e riuscita” (Stefano Giovanardi), “un libro coeso e necessario” (Alberto Bertoni), “un libro sicuramente compiuto, esatto” (Roberto Galaverni), come dicono i critici che si sono occupati del suo lavoro. Piuttosto, non capisco la missione che guida la più importante collana di poesia in Italia, “Lo Specchio” Mondadori, che mescola sacro (Paul Celan, Microliti; in uscita) a profano, ignora i grandi autori di oggi (Habitat di Federico Italiano dovrebbe essere lì, ma è stato edito da Elliot, bravi loro; dove sono autori maturi e determinanti come Francesca Serragnoli, Riccardo Ielmini, Andrea Ponso, Isacco Turina, Gian Ruggero Manzoni?), è una specie di cimitero degli elefanti. Il che andrebbe pure bene: a patto che gli elefanti abbiano ancora qualcosa di cui barrire. Al momento, barricati nel prodigio, continuiamo a cercare la poesia altrove, nei sottoscala, in mezzo all’erba, nei termitai dove brulica l’uomo. (d.b.)
*In copertina: John William Waterhouse, “Gather Ye Rosebuds While Ye May”, 1909