Copenaghen è occupata dai nazisti che calpestano le strade della città, c’è il coprifuoco e la ventenne Tove Ditlevsen è sposata con Viggo F., l’amico speciale, letterato, editore, che le aveva permesso di nascere come poetessa con il libro di poesie “Anima di fanciulla” che era stato stampato in cinquecento copie. Da qui parte Dipendenza, il terzo e ultimo capitolo dell’autobiografica Trilogia di Copenaghen della modernissima scrittrice danese del secolo scorso, Tove Irma Margit Ditlevsen (1917-1976), finalmente pubblicato da Fazi editore (nella traduzione di Alessandro Storti). Il suono, o il “frastuono” della sua macchina da scrivere invade anche queste pagine, anche se perlomeno in un primo tempo, la scrittura è un gioco proibito.
“Per me la scrittura è come nell’infanzia: una cosa segreta e proibita, piena di vergogna, da fare di nascosto in un angolino, quando nessuno vede. Mi chiedono cosa sto scrivendo in questo periodo”.
Tove risponde: “Niente”. Il suo anziano e noioso marito risponde al posto suo e le propone di leggere, come istruzione di base, la Storia della Rivoluzione francese. Ma Tove è una ribelle, che si annoia presto con Viggo F., anche se ha l’impressione di essere “una bambina dall’esistenza fragile, transitoria, incerta”. Fragili, transitori, incerti sembrano i suoi legami e ancor di più i suoi matrimoni – ne collezionerà quattro – da cui nasceranno due figli. Ed è proprio l’esperienza della maternità e, in particolare, quella dell’aborto consapevole che la porterà sull’orlo del baratro, anzi proprio dentro quell’abisso che dà titolo al romanzo: Dipendenza. Ma quello non era il primo aborto. Bensì il secondo. All’epoca era proibito abortire, un’esperienza che spesso si trasformava in un’odissea medica e in un’umiliazione. Solo le donne che sono passate attraverso questa drammatica esperienza la capiscono e sono generose guide.
“È odioso pensare che quello metta occhi e dita – delle mani e dei piedi – senza che ci si possa fare alcunché. Anche a guardare i bimbi altrui, non ci si trova niente con cui ci si possa riconciliare. Non si ha in mente altro che l’impulso di tornare a essere sole nella propria pelle”.
L’aborto è un’esperienza proibita che desta paura. “Come mai tutta questa segretezza e complicazione? Non bastava tirarmelo via? Dentro di me c’è il silenzio di una cattedrale e nessun segno dello strumento assassino che ha appena lacerato la membrana fatta per proteggere quella cosa che agognava alla vita al di fuori della mia volontà”. Non è pentita, Tove, della sua decisione: “non mi rammarico del mio gesto, eppure negli oscuri labirinti del pensiero ci sono vaghe orme di piedini di bambino sulla sabbia umida”.
Sullo sfondo del romanzo, la Storia si compie.
“Poi arriva il 5 maggio, con schiere esultanti che folleggiano per le strade, come se fossero appena germogliate tra le pietre dei lastricati. Ci si abbraccia tra perfetti sconosciuti, si canta a squarciagola il Danmarks Frihedssang e si grida “Urrà” ogni volta che passa una vettura piena di partigiani. Ebbe è in uniforme e io mi angoscio per la sua sorte, perché al momento nessuno sa se i tedeschi si ritireranno senza combattere”.
Tove e i suoi amici festeggiano, ballano, si ubriacano: si comportano come se fossero al colmo della felicità ma – la scrittrice annota – non lo sono. “Balliamo, esultiamo, ci divertiamo, ma la portata mondiale di questo evento storico non raggiunge davvero il mio conscio, perché io vivo le cose soltanto in retrospettiva e assai di rado prendo parte al presente”. In retrospettiva, la Ditlevsen racconta l’incontro fatale, in occasione di un “ballo tubercolino” presso un collegio, con un personaggio fondamentale della sua esistenza. “All’improvviso il suo volto emerge dall’ombra di un paralume, e io mi sorprendo a osservarlo con un’attenzione da miniaturista. Ha capelli rossicci e radi, occhi grigi e placidi e denti talmente irregolari da sembrare disposti in doppia fila. Salta fuori che è il figlio della direttrice, neolaureato in Medicina”.
È Carl, con il morso inverso e sessantaquattro denti anziché trentadue a praticarle il raschiamento e il secondo aborto, iniettandole un analgesico – la petidina – che le squaderna il mondo e il giogo della “Dipendenza” e che le permette di innamorarsi di lui, un mostro, un malato di mente, che sposerà e sarà il suo terzo marito.
“Mentre torno a casa in tram, l’effetto dell’iniezione recede pian piano, e ho l’impressione che un velo grigio e mucoso scenda sopra qualunque cosa su cui io posi lo sguardo. Petidina, penso, e questo sostantivo è come un cinguettio d’uccelli. Decido di non mollare mai la presa sull’uomo che può procurarmi un godimento così indescrivibile e beato”.
La dipendenza dall’analgesico diventa un segreto, da riporre nell’armadietto della coscienza, chiuso a chiave. “E se gli avessi detto la verità? Se gli avessi spiegato che ero innamorata di un liquido limpido in una siringa e non dell’uomo che era proprietario di quest’ultima? No, non gliel’ho detto, non l’ho mai detto a nessuno. È stato come quand’ero bambina: i dolci segreti si rovinavano, a confessarli agli adulti”. Piano piano, il rumore della macchina da scrivere si attenua, lentamente si spegne, si fa ricordo, una visione da lontano, quando soverchiante è l’effetto della dipendenza dall’analgesico, della sostanza che avvelena e ammalora il corpo e la mente di Tove Ditlevsen. Sorprendentemente.
“Non riesco a seguire l’avvicendarsi delle stagioni. Le tendine sono sempre tirate, perché la luce mi fa male agli occhi, e non c’è differenza tra giorno e notte. Dormo e mi sveglio, sto bene o sto male. Molto lontano da me c’è mia macchina per scrivere, che vedo come da un cannocchiale a rovescio, e dal pianterreno, dove si vive la vita viva, le voci dei bambini mi giungono come attraverso molti strati di coperte di lana”.
Nonostante la dipendenza che riesce a vincere, con l’aiuto della disintossicazione, il germe del male è rimasto in lei e Tove Ditlevsen lotta contro “l’antica dolcezza e beatitudine”, il paradiso perduto, nient’altro che una “temibile avversaria”, contro cui combattere con “una passione inestinguibile e con una rabbia” piena di terrore. Fino alla decisione, una scelta che non si scrive in brutta copia, di togliersi la vita.
Linda Terziroli