
Un Ulisse da rotocalco rosa, viveur sullo yacht. Guido Gozzano interpreta Omero
Poesia
Nicolò Bindi

Forough Farrokhzad: una poetessa tra i lebbrosi
L'Editoriale
Non è la duplicità, ma il molteplice. Yves Bonnefoy arriva e scaglia un calice di cristallo nel pieno del canone: sfrangiato dalla luce in eccesso esso è volto e fuoco, spettro e spettacolo d’iridescenza. Ogni parola è una e trina, siamo nel giogo della suggestione: Movimento e immobilità di Douve è pubblico nel 1953, la contraddizione (moto-immoto) s’installa nella poligamia dei sensi (così Diana Grange Fiori, che traduce il libro per Einaudi nel 1969: “La parola Douve non è stata tradotta. Infatti non sarebbe stato possibile rendere la sonorità, e meno che mai i molteplici significati – acqua morta; l’acqua melmosa dei fossati intorno ai castelli medioevali; ranuncolo di palude… – i quali convergono, tutti, a formare un nome proprio nuovissimo”). Bonnefoy, da sempre, è lì, dove il linguaggio può essere qualcos’altro, in ciò che non dice ma rimbomba.
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“Mi sveglio, piove. Il vento ti penetra, Douve, landa resinosa sopita accanto a me. Sono sulla terrazza, in una buca della morte. Grandi cani di foglie tremano.
Il braccio che tu sollevi, subitaneo, su una porta, m’illumina attraverso i tempi. Villaggio di brace, ad ogni istante ti vedo nascere, Douve,
Ad ogni istante morire”.
Ogni evento, ogni cosa, è figura d’altro – foglia/cane – si sfigura verso l’esperienza invisibile, che si può tracciare solo per nebbia, per pulviscolo di scintillii, su regioni di sabbia.
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Fin da Douve la poesia di Bonnefoy, carnale e astrale, platonica e terrestre, nuova e marmorea, instaura un rapporto con l’arte. In Cappella Brancacci: “Forse quello che stringo è solo un’ombra,/ Ma impara a distinguervi un volto perenne”. Gli elementi della sua poesia, la salamandra (“La salamandra sorpresa sta immobile/ E finge la morte./ È il primo passo della coscienza nelle pietre,/ Il mito più puro,/ È un grande fuoco trapassato, è spirito”), il cervo (“Sperdutosi un ultimo cervo/ Tra gli alberi,/ La sabbia rintronerà/ Del passo d’ospiti oscuri”), sono pittorici, hanno mobilità/immobilità di emblema.
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Quando si confronta con Rimbaud – il primo saggio compiuto è del 1961 –, Bonnefoy redige il profilo di un uomo attratto dall’impossibile, atterrito dal grigiore del borghese e dalla facile eccitazione del rivoluzionario. “La lotta di Rimbaud non avrà fatto altro che restituire la vita, liberata dai suoi ostacoli morali, ai suoi limiti assoluti… La grandezza di Rimbaud resterà quella di aver rifiutato il poco di libertà che nel suo secolo e nel suo luogo avrebbe potuto fare sua, a testimonianza dell’alienazione dell’uomo, e per appellare questi a preferire alla miseria morale l’incontro tragico con l’assoluto. Sono questa decisione e la sua fermezza che rendono la sua poesia la più liberante (e quindi una delle più belle) della storia della nostra lingua”. Direi – ma non potrebbe dirlo Bonnefoy – che la poesia è poesia più grande perché il poeta la rifiuta, non ne fa compito né istituzione, si distoglie dal dispari della fama e del ‘pubblico’, sa che il viso-a-viso con il Tremendo sbanda ogni lirica in sterile balbettio. Tra libertà e assoluto, obbedire alla latitanza.
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Bonnefoy scrive dando alla vista mansioni da trapezista. Dedham, vista da Langham si riferisce al pittore John Constable:
Accoglie lo scintillio nella materia.
Là dove era il caso a parlare
Negli smottamenti, nelle nuvole,
Hai vinto, d’un esordio musicale,
La forma che si cela in ogni vita.
Ascolti il ronzio d’api delle cose chiare,
A volte il suo gonfiarsi, questo assoluto
Che vibra nel prato fra le ombre,
E lo lasci vivere in te, riconfortato
Di non essere più così impaziente e timoroso.
Bonnefoy, per altro, è stato un raffinato studioso dell’arte. Ha scritto di Alberto Giacometti, di Goya, di Morandi, di Hopper. Nel 1970 pubblica Roma, 1630. L’orizzonte del primo barocco (tradotto in Italia da Aragno, nel 2006), uno dei libri più intensi. Il tema profondo è questo: che rapporto c’è tra l’arte e la salvezza?
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Sintetizzo. Il problema non è capire il rapporto tra arte e conoscenza. Il Rinascimento fa dell’aspirazione al sapere il proprio crisma: la pittura è mentale, il simbolo non è accessibile a tutti – i ‘segni’ che costellano le cattedrali, che i fedeli riconoscono – ma è cifrato, esoterico, per pochi. La nobiltà della forma è scandita dalla norma ermetica, evade dalla carne. La Controriforma è lo start del Barocco, di cui Gian Lorenzo Bernini è l’eroe. In Bernini la carnalità è totale – fa sanguinare il marmo – e il ‘teatro’ è l’avvenimento del mondo. La ‘finzione’ non serve per fuggire dalla terra ma per raccontarla, per morderla. Il compito dell’arte è trasfigurare le forme, dare voce alle pietre, spostare le montagne: non bisogna capire, ma cadere. La spirale – rispetto al dominio platonico della sfera – non confonde: ispira, richiama alla voluttà dell’angelo.
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La carnalità barocca è annunciata da eventi devastanti: le stagioni della peste – sempre nel Nord Italia – del 1576 e poi del 1630. Che cosa salva di questa vita, di questo corpo l’arte? Così Bonnefoy: “L’aspetto era stato ‘inventato’ dal Rinascimento, dandoci a intendere d’essere dotato d’una profondità tutta sua, indipendente dall’esistenza che lo recava: ma ecco che, moltiplicato, sovrabbondante, si dissolve per ciò stesso in una presenza totale e di nuovo immediata. L’apparenza, questo mondo chiuso della pittura rinascimentale, quest’essere meramente spettrale nel cui inseguimento può smarrirsi lo spirito stregato, è ridiventata l’apparire, che appartiene soltanto all’attimo, ma unisce anima e corpo e pur senza pretendere nulla è tutto”. La poesia, d’altronde, è il mondo dell’apparizione, dell’inappartenenza, dell’appetito.
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Bernini “attingerà parecchio dalle elaborazioni del Rinascimento”, ma afferma un altro valore alla bellezza, non più cifra ma tatto, non emblema ma corpo. “La nuova bellezza non è più l’instabile istituzione d’una essenza inaccessibile, è piuttosto un semplice fatto che appartiene a questo mondo; ed è anche l’adesione fiduciosa che guida l’uomo verso quella realtà”. L’arte non gioca ma perfora, dell’ombra scopre il punto da cui sgorga la luce, tutto perciò è salvo: l’eros non è moto che conduce ad altri sensi, ma sensazione terrestre; l’estasi porta l’anima a Dio scassando il corpo nell’eccitazione d’amore.
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“Il male, segreta meditazione d’ogni esperienza artistica… Ebbene, avverte il Bernini, il male non è che l’uomo sia immerso nel tempo, votato alla finitudine, costretto alla morte – il male è soltanto che di quella finitudine, e di quella morte, egli abbia paura”. Eccolo, per Bonnefoy, il punto segreto del Barocco, l’arte che salva. Non bisogna avere paura della morte perché tutto è già, ora, è ora, è risorto e risolto. “Il male non è, il male è soltanto un momento, travolto dalla fiducia. Ecco perché Bernini rappresenterà così spesso e con tanta arditezza i segni più tangibili della morte – egli sa scavalcare una tomba spalancata senza che, per questo, gli venga in orrore la vita”. Il genio dell’arte è tradurre la morte in vita, vanificare il male poiché ogni cosa è redenta; più che la mente può la passione, più che la fede, è l’amare. (d.b.)