L’attacco di Under Ben Bulben, la più bella poesia dell’ultimo Yeats, fa così (ricalco la traduzione di Ariodante Marianni):
Giura per ciò che i saggi raccontavano
Intorno al Lago Mareotic
La poesia, un poemetto in sei stanze, è raccolta nell’ultimo libro di Yeats, Last Poems and Two Plays; è griffata 4 settembre 1938. Yeats morirà pochi mesi dopo, alla fine del gennaio del ’39: gli ultimi versi di Under Ben Bulben, “Cast a cold eye,/ On life, on death,/ Horseman, pass by”, sono l’epigrafe che orna la lapide del poeta, sepolto nel Drumcliffe Cemetery, a Sligo, Irlanda.
I “saggi” del “Mareotic Lake” cantati da Yeats, appartengono, nella sua visione poetica, ai rari spiriti – “la Strega d’Atlante”, le “dame e cavalieri” dall’“aspetto sovrumano” e gli antichi eroi irlandese, the pale, long visaged company – che “proclamavano nell’immortalità/ la perfezione delle passioni vinte”. Già. Ma che cos’è questo Mareotic Lake, dov’è, cosa significa?
Per chi si occupa – per occupare le angustie dello spirito e giustificare la propria spirituale ignavia – di cristianesimo delle origini, il lago Mareotide – o Maryut o Mareotis – è un luogo mitico. Posto in Egitto, limitrofo ad Alessandria, nella parte occidentale del delta del Nilo, il Mareotis è un lago salato. Filone di Alessandria, nel De vita contemplativa, ne parla come della “palude Marea”, luogo dall’aria salubre, rude, lunare: lì la comunità dei Terapeuti si stabilisce per vivere un eremitaggio tra preghiera – a volte, ritualmente compiuta nella danza – e studio. Secondo alcuni, i Terapeuti, fuggiti dal mondo guidati dal “desiderio d’una vita immortale e beata” (Filone), sapienti nella cura delle passioni e nella lettura degli astri, sono una comunità analoga agli Esseni; secondo Eusebio (Historia Ecclesiastica, II, 17, 2) si tratta di eremiti cristiani, “di origine ebraica”, che tenevano per libri sacri “i Vangeli, gli scritti degli apostoli e forse alcune spiegazioni degli antichi profeti, come quelle presenti nella Lettera agli Ebrei e in molte altre lettere di Paolo”. I Terapeuti radicati intorno al lago Mareotide sarebbero l’avanguardia dei “padri del deserto”. Il lago salato è analogo al Mar Morto, l’Egitto è terra d’esilio e penitenza, il sale figura della via (“voi siete il sale della terra”, Mt 5, 13, ma “abbiate il sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri”, Mc 9, 50).
A Yeats – che all’epoca, a suo modo, mescolava le nebulose visioni dei miti d’Irlanda alla ieraticità del teatro Nō giapponese, la fiaba alla traduzione delle Upanishad, alla liturgia di amori impossibili (esemplare quello con la divina folle Margot Ruddock) – esaltavano le storie del lago Mareotide. Nel Credo che costituisce la traccia di Under Ben Bulben appunta:
“Credo come credevano i vecchi saggi che sedevano sotto le palme, i banani o fra le rocce rese irraggiungibili dalla neve, mille anni prima della nascita di Cristo; credo come credevano i monaci del mare della Mareotide…”.
Naturalmente, il poeta non esorbitava dalla propria poetica, dal mondo conchiuso delle proprie singolari ispirazioni. Del deserto, in fondo, gli piaceva l’icona, l’illusione. L’amico poeta Lionel Johnson ricorda che “quando parlava di ‘deserto’, Yeats aveva sempre in mente un qualche deserto libresco come le lande che circondano il lago di Mareotide”. Già: ma da dove giunge a Yeats l’ispirazione di questo deserto libresco? Secondo Anthony L. Johnson, esegeta di Yeats, il poeta è stato ‘iniziato’ alla sapienza del Mareotic Lake dai libri del reverendo James Owen Hannay (1865-1950), in particolare da The Wisdom of the Desert (1904), tra le prime traduzioni in lingua inglese degli apoftegmi dei padri del deserto. Nato a Belfast, studi al Trinity College di Dublino, ordinato sacerdote anglicano della Church of Irland, Hannay era nazionalista e protagonista della Gaelic League, che si proponeva di conservare la lingua d’Irlanda, precisandone lo studio. Uomo dai molteplici interessi, servì l’ambasciata irlandese a Budapest negli anni Venti, fu vicario della Holy Trinity Church a Kensington. Con il nome fittizio di George A. Birmingham scrisse diversi romanzi, a sfondo irlandese, spesso con quinta storica, che riscuotevano successo e oggi giacciono in giusto oblio (The Seething Pot, The Inviolable Sanctuary, Priscilla’s Spies, The Red Hand of Ulster, The Lost Tribes): abile navigatore, con i proventi tratti da tali romanzi d’appendice, il reverendo si comprò una barca, ormeggiata a Westport. Era amico di Jack Butler Yeats, il fratello pittore di W.B.
Nell’introduzione a The Wisdom of the Desert – di cui traduciamo alcuni brani – il reverendo Hannay ammette che il suo è il lavoro di un pioniere, guidato da intento divulgativo (“Questo non è uno studio sulla letteratura del primo monachesimo egiziano, non è un resoconto storico, bensì un approccio preliminare per comprendere lo spirito religioso di quegli antichi padri”), non di rado creativo (“La raccolta di storie e apoftegmi che ho tradotto, a volte molto liberamente, non è altro che una misera scelta dalla pianura sconfinata della letteratura sulla vita nei deserti”). Questa frugalità, questa libertà e liberalità (“In queste storie c’è qualcosa di molto più degno della nostra grigia letteratura devozionale”), questo capriccio danno al libro – d’uso, di lettura – un carattere fiabesco, assente nelle tante, più compiute e compite, raccolte dei padri del deserto. “In realtà, la maggior parte di quei detti fu pronunciata per non rivelar nulla, così come la vita di quegli uomini volle essere tutta quanta la vita di ‘un uomo che non esiste’”, scrive Cristina Campo – nell’introduzione ai Detti e fatti dei Padri del Deserto editi da Rusconi, 1975 – quasi a dire che sola sapienza è la scomparsa, che fiaba, di sé, lascia l’orma, il calco, eco che spira.
Ne L’Allegria, Giuseppe Ungaretti raccoglie una poesia, Nasce forse, che fa così: “C’è la nebbia che ci cancella// Nasce forse un fiume quassù// Ascolto il canto delle sirene/ del lago dov’era la città”. In una nota, il poeta redige una sommaria spiegazione:
“La nebbia aveva mutato in quell’ora Milano in un lago che come un miraggio mi richiamava alla mente il lago Mareotis, nel deserto vicino ad Alessandria”.
Il lago Mareotis, miraggio della mente, eremitaggio libresco dei poeti… Qui, forse, bisogna studiare le analogie che legano la nebbia al sale, la città al deserto, il canto delle sirene alla fuga in Dio.
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Da “The Wisdom of the Desert” di James O. Hannay
Il tesoro nascosto
I
Un capitano dell’esercito, che si dilettava nella caccia, andò in cerca di belve selvatiche tra le desolate montagne dove abitava Macedonio. Era preparato alla caccia: con sé aveva uomini e animali addestrati. Mentre setacciava quelle rocche, vide un uomo. Sorpreso che qualcuno potesse abitare in luoghi così rudi, chiese chi fosse. L’eremita Macedonio, gli rispose un soldato. Il capitano, che era un uomo pio, scese da cavallo e si avviò verso l’eremita. “Cosa ci fai in questo luogo deserto?”, gli chiese, una volta raggiunto. “E tu? Cosa sei venuto a fare fin qui?”, gli domandò di rincalzo l’eremita. “Sono venuto a caccia”, disse il cacciatore. Allora Macedonio gli disse: “Anch’io sono un cacciatore. Sono a caccia di Dio. Voglio catturarlo. Il mio desiderio è godere di Lui. Nulla mi farà desistere da questa caccia”.
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II
Un certo Sinclezio, senatore, rinunciò al mondo. Divise le sue proprietà con i poveri, tenne soltanto una parte per sé. San Basilio gli disse: “Hai spogliato un senatore, ma non ne hai fatto un monaco”.
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III
Parola dell’abate Arsenio, che preferì cercare Dio nel deserto alla vita presso l’imperatore, che rinunciò a ogni ricchezza per ottenere il tesoro nascosto. “Se cerchiamo Dio, ci apparirà. Se lo teniamo stretto, Egli resterà con noi”.
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IV
Parola di chi ha compreso che è bello non sapere nulla, ma conoscere soltanto Gesù. L’abate Allois disse: “Se un uomo nel suo cuore non dice, io e Dio siamo soli al mondo, non troverà pace”.
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V
Le lusinghe del mondo non possono più attrarre l’anima che ha preso possesso in Cristo. L’abate Giovanni disse: “In una certa città viveva una donna, bellissima, con una moltitudine di amanti. Un grande uomo, uno dei nobili di quella città, le disse: ‘Promettimi che sarai mia, e ti sposerò’. La donna si votò a lui, e dopo essere diventata sua moglie, si trasferì nel suo palazzo. Quando gli amanti andarono a cercarla, non la trovarono. Venuti a sapere che era diventata la moglie di un nobile, si dissero: ‘Se entriamo dalla porta principale del palazzo sarà chiaro il nostro desiderio, e saremo puniti. Andiamo nel retro della dimora, chiamiamola con un fischio, come facevamo un tempo: sentendoci, scenderà da noi’. Fecero così, e la donna udì il loro fischio. Detestando anche soltanto udire quel fischio, corse nelle parti più nascoste della casa, chiudendo ogni porta. Ora: la donna è l’anima dell’uomo; il nobile marito è Cristo; il palazzo l’eterna dimora dei cieli; chi fischia per concupire la donna sono i demoni”.
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VI
Un uomo saprà disprezzare le cose presenti, ritenendole transitorie, soltanto quando avrà fissato lo sguardo della mente alle cose immutabili ed eterne. Nel contemplare, già gode della beatitudine della vita futura. L’arciere forgia, allena e affatica la vista mentre mira il suo piccolo bersaglio, perché è consapevole della grande gloria che lo attende. Distoglie gli occhi da tutto, e non fissa altro che ciò che può garantirgli la ricompensa. Sa che perderebbe il premio se il suo sguardo fosse distratto anche di poco dal bersaglio.
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Sull’essere crocefissi con Cristo
I
Su cosa significhi prendere la croce con Cristo.
Forse qualcuno dirà, ‘Come può un uomo portare la propria croce? Come può un uomo vivere ed essere crocefisso allo stesso tempo?’. Ascoltate. Il timore di Dio è la nostra croce. Come chi è crocefisso non ha più la facoltà di muovere le membra come vuole, così noi dobbiamo fissare i nostri desideri e le nostre brame non verso ciò che ci è gradevole e diletto, ma in direzione della legge di Dio, ovunque essa ci costringa. Chi è inchiodato alla croce non considera le cose presenti, non misura le sue simpatie, non è affannato dall’ansia né preoccupato dal domani, non si addolora per gli insulti subiti, non ricorda quelli passati, non lo infiammano più orgoglio, ira, rivalità. Benché respiri ancora, egli è morto alle cose terrene e il suo cuore è già nel luogo dove, non ha dubbi, è destinato. Così, quando siamo crocefissi dal timore di Dio, siamo morti al mondo. Siamo morti non soltanto ai vizi carnali, ma a ogni cosa terrena, anche a ciò che ci lascia indifferenti. Fissiamo la nostra mente là dove in ogni momento speriamo di arrivare.
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II
Un vecchio eremita era spesso malato, infermo. Per un anno intero non subì malattie. Pianse amaramente, assai afflitto. Diceva: “Il Signore mi ha abbandonato, quest’anno non è venuto a trovarmi”.
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III
A un anziano fu chiesto come non poteva offendersi un monaco vedendo i compagni desistere dalla vita eremitica e fare rientro nel mondo. Egli rispose: “Guarda i cani da caccia che inseguono la lepre. Soltanto uno di loro, forse, vede la lepre e la insegue. Gli altri non vedono altro che il cane all’inseguimento, si mettono sulla sua scia, poi, dopo un po’, si stancano, si arrendono, arretrano. Quello che ha visto la lepre, invece, continua a inseguirla finché non la azzanna. Non si cura delle colline scoscese, dei rovi, degli ostacoli sulla via. A volte le zampe sono ferite, trafitte dalle spine, ma la bestia non si riposa finché non ha conquistato la preda. Così si comporta il monaco che cerca Cristo, lo preda, e fissa il suo sguardo alla Croce. Non fa caso a ciò che lo ferisce o lo irrita. Non gli importa che raggiungere il suo scopo: essere crocefisso con Cristo”.
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IV
Sulla via stretta che porta alla vita.
A un anziano chiesero: “Che cos’è la via stretta e angusta?”. L’anziano rispose: “La via stretta è quella nella quale l’uomo violenta la propria immaginazione e si taglia fuori dal compimento della sua volontà. Questo è ciò che è scritto riguardo agli apostoli: Abbiamo lasciato tutto, e ti abbiamo seguito”.
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Disprezzati dal mondo
I
Alcuni fratelli andarono all’abate Mosè e gli chiesero di dire loro alcune parole di esortazione. Egli si rivolse al suo discepolo, Zaccaria, e lo incalzò, “Parla tu a questi fratelli”. Zaccaria si tolse il mantello e, una volta a terra, cominciò a calpestarlo. “Ecco”, disse, “chi non è calpestato non può diventare monaco”.
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II
L’abate Sisois diceva: “Lascia che ti disprezzino. Getta la tua volontà dietro la schiena. Liberati dagli affanni del mondo. Allora sarai in pace”.
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III
Tutto il giorno, anche sotto il sole cocente, Doroteo raccoglieva grandi pietre lungo la riva del mare. Era un uomo anziano, ma non smetteva di lavorare per costruire le celle dei fratelli con quelle pietre. Costruiva le celle per chi era incapace di farsele da sé. Una volta un uomo gli domandò: “Perché, padre, nella tua vecchiaia ti ostini a uccidere il corpo, con una tale fatica sotto questo sole insopportabile?”. Doroteo rispose: “Il corpo mi uccide, sono dunque deciso ad ucciderlo”.
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IV
Un giorno, un fratello andò dall’abate Macario per chiedergli: “Maestro, donami una parola di esortazione grazie alla quale possa salvarmi”. Macario gli rispose: “Vai al cimitero e insulta i morti”. Il fratello fu sorpreso da quelle parole, tuttavia, fece come gli era stato ordinato: si diresse al cimitero e inveì contro i morti. Macario gli chiese: “I morti si sono accorti di ciò che hai fatto?”. “No, non si sono accorti di me”, gli rispose il fratello. “Torna di nuovo al cimitero, e lodali”. Benché fosse ancora più sbigottito, il fratello obbedì alle parole di Macario, andò al cimitero e prese a lodare i morti, chiamandoli santi, uomini giusti, autentici apostoli di Cristo. Al ritorno, raccontò ciò che aveva fatto. “Ti hanno risposto?”, gli chiese Macario. E l’altro rispose: “No, non si sono accorti di me”. Allora Macario disse: “Nonostante gli insulti, nonostante le lodi, i morti non ti hanno parlato. Se vuoi la salvezza, devi diventare come quei morti. Non pensare ai torti che ti infliggono gli uomini, non curarti delle loro lodi. Diventa come i morti. Così sarai salvo”.
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V
Un eremita, vedendo alcuni uomini che portavano faticosamente un cadavere alla sepoltura: “Fate bene ad accompagnare con questa grazia i morti. Fareste meglio a sopportare i vivi. Solo allora, operatori di pace, erediterete la benedizione di Dio”.
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VI
Due cose impediscono all’uomo di essere davvero morto al mondo. L’abate Pimenio disse: “Un monaco può dirsi davvero morto al mondo se ha imparato a odiare due cose: le comodità per il corpo, la gloria che viene dalla lode degli uomini”.