Bestie che urlano nella pietra. San Leopardo, i martiri, un sarcofago romano tradotto in altare, la vita contro la morte. Un capolavoro nella cattedrale di Osimo
La massa che emerge dalla pietra mi sorprende (più tardi mi accorgerò del massacro). Uomini e bestie intrecciati a tal punto da potersi confondere, come se uno fosse il completamento, la compilazione dell’altro. Come se dentro ogni uomo abitasse una bestia, non ancora esaudita. Che la pietra possa essere così viva, possa parlare, urlare, avviare un creato. Ai miei occhi, emerge, con forza energumena, la figura sulla destra. Un uomo sembra cavalcare un cervo, impennato, maneggia le corna della bestia come fossero un timone. Testimonianza del tempo in cui tra cervi e uomini era istituito un patto, e i cervi fungevano da cavalcatura, al posto dei cavalli, mi dico. Immagino un re che cavalca un cervo dal palco enorme e riccamente istoriato con motivi simbolici – l’immagine, chissà perché, rimanda alla mente la cometa. Tuttavia, la lingua che pende dalla bocca del cervo – questa pietra sbava, è stretta tra fame e terrore, in una movimentata eternità – mi fa capire, subito, che il cervo non è domestico, è una preda.
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La cattedrale di Osimo è intitolata a San Leopardo: di questo santo, il primo vescovo della città, vissuto forse nel V secolo, onorato dal X, non si sa nulla. Che un santo si chiami come un predatore mi incuriosisce – d’altronde, i Leopardi di Recanati non sono lontani da qui. Immagino il santo assiso sul tetto della chiesa, oppure nella foresta di archi e navate, prediletto delle ombre, come un felino. Nella chiesa non ci sono immagini di leopardi, ma uno dei portoni laterali è sottolineato da due serpenti dalla coda arrotolata, che s’incontrano all’apice della porta, mordendo qualcosa, un uovo, forse, forse si baciano. La ‘bestialità’, pur ridimensionata a simbolo, è suggestiva.
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L’oggetto scultoreo che mi ha affascinato è nella cripta. È un sarcofago romano del IV secolo, ora usato come altare. I segni non vengono distorti, ma ampliati: dove si ergeva il tempo a Igea e a Esculapio, divinità della salute, c’è una cattedrale; il sarcofago non narra la morte ma la vita eterna, non è oggetto di presunta memoria ma luogo su cui si effettua il rito che vince la morte. Il sarcofago raffigura una scena di caccia, violenta: nella parte superiore uomini a cavallo inseguono un branco di cervi. Di questi soltanto uno, con la barba – sapienza nell’intuire l’animale e i suoi interregni – ha afferrato il cervo, sembra poterlo ribaltare con la sola forza delle mani. A sinistra, un cinghiale si divincola da una turba di cani addestrati, che lo azzannano ovunque. I cani sono piccoli e muscolosi, come dardi. L’azione, nel complesso, è di voluminosa, violenta nobiltà.
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Il pio scultore cristiano ha aggiunto, sopra la scena di caccia, una lastra orizzontale, istoriata imitando lo stile dell’artigiano romano. Le scene, in una specie di ‘fumettone’ ingenuo, senza discontinuità, raffigurano i magi che portano doni alla Madonna in trono con Bambino (dalle fattezze stilizzate, da dea d’Occidente, pagana: la madre che ostenta il figlio re, divinizzato) e altri tre momenti tutti legati all’acqua: San Pietro che fa scaturire una fonte dalla roccia, Noè nell’arca/zattera che afferra la colomba dopo il diluvio, Giona che dorme, un poco scocciato, nel corpo del Leviatano. Sembra che l’acqua, ovunque, segno del battesimo, della vita nuova, pulisca i massacri che accadono nella scena sottostante – dove il sangue, altra acqua, è intuito, ovunque.
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Sopra il sarcofago, l’occhio verticale della finestra, un proiettile di luce, un’ostia fosforescente. Il Medioevo non si concepisce come un’era nuova, ma in continuità con l’epoca antica. Non distrugge, medita, risignifica.
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Nel sarcofago, leggo, sono custoditi i corpi dei “martiri Osimani”: si chiamavano Fiorenzo, Sisinio, Diocleziano: predicavano Cristo in quelle zone, furono lapidati nel 304, l’11 maggio, perché ostili ai sacerdoti del tempo, del tempio. L’opera mi pare inequivocabile: il sarcofago è tradotto in altare, non è distrutto, benché pagano, ma imitato – l’ipnosi del bello. Usarlo come tomba per i martiri ne modifica il senso profondo: la scena di caccia non riproduce più il probabile hobby del caro, ricco estinto, ma, per allegoria, il metodo dei Romani nel cacciare e ammazzare gli avversari, i cristiani. I martiri, insomma, sono i cinghiali falciati dai cani, i cervi inseguiti, braccati fino agli altri mondi, macellati. La morte è un dono, tuttavia, è come andare sott’acqua – ma la bestia è lì, per sempre, scatta fino a spaccare il sepolcro. (d.b.)