
“La gioia nell’annientare”. Friedrich Nietzsche contro i puri di cuore
Filosofia
Blu Temperini
Durante il secondo conflitto mondiale, il freddo dell’inverno si accanì sulle truppe dell’Asse che assediavano Stalingrado così come aveva gelato i piedi e le gavette dei soldati della Grande Armata napoleonica nella cosiddetta Campagna di Russia (1812), quella che a Čajkovskij ispirò una ouverture sinfonica dal finale tutto campane e colpi di cannone. Nel 1709, un’atipica e colossale gelata si abbatté sull’Europa, e, soltanto in Francia, mandò al camposanto circa 600.000 persone. Si diede la colpa al minimo di Maunder, cioè al sole che, in poco più di mezzo secolo (dal 1645 al 1715), infischiandosene delle nefaste conseguenze che avrebbe provocato, aveva via via ridotto la sua attività termica.
Fu questo Edward Maunder, astronomo inglese tanto prodigo nello studio dei corpi celesti quanto nell’esegesi scientifica dei fatti astronomici citati nella Bibbia, a scoprire la coincidenza tra i due eventi (oggi, con linguaggio e accezione chic, si chiamerebbe climate change). Ma aver fatto luce su quell’incomprensibile fenomeno non cambiò nulla nella vita degli uomini e, soprattutto, non ha neppure preservato l’orbe da potenziali recidive (tranne nelle convinzioni di Greta Thunberg e dei suoi fanatici seguaci, ovviamente). Insomma, non una banale nevicata e piste da sci tipo Sestriere o Courmayeur. Un tempo al freddo faceva da correlativo oggettivo la morte, ossia corpi rigidi come pietre e senza calore, quelli che nei versi del poeta rendono fredde anche le giornate di sole: È l’estate, / fredda dei morti. (G. Pascoli, Novembre).
Il freddo tentò di fermare pure la nascita della filosofia moderna. Prima che loro stessi si considerassero definitivamente vecchi, le rigide temperature del Nord piombarono addosso a Bacone e a Cartesio – due di quei filosofi che al liceo si studiano ancora con lo stesso intramontabile disinteresse – conducendoli in poco tempo alla fine dei loro giorni. Non proprio il freddo, certo, ma le conseguenze polmonari, le febbri e le inadeguate cure cerusiche che gli tennero dietro. Cosicché, tra dubbi e timide incertezze, la filosofia moderna ebbe come sottotraccia questo algido esordio accompagnato dal pallore lunare della neve, dalla durezza spettrale del ghiaccio e dal vento di borea che taglia come il diamante.
Non credo che Bacone (all’anagrafe figurava con il nome di Francis Bacon) avesse molta familiarità con il freddo, abituato com’era ad aggirarsi quasi inutilmente per le corti di mezza Europa a procacciarsi amicizie illustri, un posto degno della sua intraprendenza politica e denaro per coprire i numerosi debiti accumulati. Poi un giorno, o perché troppo stanco di lavare col sangue le sedizioni religiose rivolte contro la Chiesa d’Inghilterra al motto “No bishop, no king”, o perché ebbro della bellezza seduttiva del duca di Buckingham, Giacomo I gli concesse finalmente un po’ della sua considerazione. Per questo, nel 1607, Bacone si vide conferita la carica di avvocato generale della corona e, dopo pochi anni di scalate e di successi, nel 1618, addirittura il titolo di barone di Verulamio. Niente male!
Di freddo, però, di quello che fa diventare le dita viola, ne patì sicuramente poco, e poiché si lasciava guidare dalla sentenza Nam et ipsa scientia potestas est manco fosse la stella cometa, fece di tutto per dimostrare che la scienza possedeva davvero quella potenza che tutto poteva e in cui lui ostinatamente credeva. Dei luoghi comuni, delle futili credenze e delle stupide opinioni popolari che raggruppò nelle quattro categorie degli idola, sorta di Pantheon minore e di un tardivo politeismo, fece un unico falò. Le colonne della sua Instauratio Magna, perciò, le eresse soprattutto con l’osservazione dei fenomeni, l’esperimento, l’elencazione dei risultati riportati nelle tabulae, tutto appositamente temprato con un rigido metodo induttivo, quello che fu giustamente chiamato “baconiano”.
Ma ad attenderlo là fuori c’era il freddo, quello insopportabile che lui non aveva ancora conosciuto e che, invece, sotto altre forme era già entrato nelle sue idee. Alla fine del mese di marzo del 1626, transitava in carrozza tra il ghiaccio e la neve di Highgate, un sobborgo a nord di Londra. I suoi respiri diventavano stille di rugiada sul finestrino. “È il freddo”, immagino abbia pensato guardando le gocce d’acqua scivolare sul vetro. Allora fa fermare la carrozza e, affondando i piedi nella neve alta, raggiunge una fattoria per procurarsi dei polli. Vuole constatare il fenomeno della conservazione alle basse temperature dei loro corpi eviscerati una volta che li avrà riempiti di neve. L’esperienza va avanti per ore e persino uno come lui, intirizzito e assalito dai brividi, capisce che è tempo di cercare un po’ di calore presso una casa là vicino. Gli offrono una stanza qualunque, umida, non riscaldata da giorni e nella quale, perciò, riesce a stare soltanto peggio. Infatti vi si ammala di bronchite e, il giovedì santo del 9 aprile 1626, rende l’anima a Dio. Lo seppellirono a una ventina di chilometri da Highgate, questa volta al riparo e con un tetto sulla testa, nella Saint Michael’s Church di Saint Albans. Qualche secolo dopo, nel cimitero monumentale di Highgate inumarono un altro filosofo che invece il freddo lo aveva patito, eccome. Si chiamava Karl Marx.
In Svezia l’inverno non ha le stesse temperature inglesi. Nel 1762, Jacques Lacombe, un avvocato francese con la passione per l’editoria e amico di Voltaire, scrisse una Histoire de Christine, reine de Suede, in cui definì il clima svedese “rigoureux, où le long froid de l’hiver, et la chaleur d’un été court, mais vif, se succedent rapidement, sans printemps et sans automne”. Tuttavia, per non offendere nessuno, si affrettò anche a precisare i benefici che tali temperature hanno sugli svedesi, visto che li rende “sains et vigoreux”. Ma René Descartes (che come il suo coevo inglese aveva vezzosamente latinizzato il nome in Cartesius) non era svedese, e appena due mesi dopo aver messo piede nella terra degli orsi, dovette fare i conti con il freddo che lo debilitò e infine si prese la sua anima.
A Stoccolma lo avevano portato i capricci della giovane regina Cristina di Svezia che si era messa in testa di studiare con il miglior filosofo in circolazione. Eppure, quando il cinquantatreenne René, che si era imbarcato ad Amsterdam per un viaggio in mare durato circa un mese, la raggiunse nell’ottobre del 1649, lei non lo ricevette che dopo diverse settimane. Nel frattempo, però, trattandolo come un suddito qualunque, gli ordinò di comporre un’ode in francese per il suo ventitreesimo genetliaco al quale impegno, sebbene controvoglia, Cartesio non si sottrasse.
Lui che era un rentier, con un’esistenza alquanto lontana dalle preoccupazioni e dalla stanchezza del lavoro, con l’abitudine di poltrire a letto, al caldo delle coltri e indisturbato fino a tarda mattinata, adesso era alle dipendenze di una regina bizzarra e capricciosa che lo riceveva per le lezioni soltanto alle cinque del mattino nell’enorme fredda biblioteca del suo palazzo. Questo D’Artagnan triste (è il ritratto dell’olandese Frans Hals che mi ispira questa insolenza), che per dare l’abbrivio al suo Discours de la méthode (1637) si era rintanato in solitudine nella famosa Stube bavarese, ora impartiva lezioni di filosofia e morale a una regina cocciuta che non aveva la stessa sagacia e profondità d’animo “pour les Sciences abstraites et pour les mysteres de la Philosophie” (questa pare sia stata la non lusinghiera considerazione che René si lasciò imprudentemente sfuggire nei confronti di Cristina) della sua prima discepola, la Principessa Palatina Elisabetta di Boemia.
Insomma, affaticato dalla routine, deluso dall’intelligenza della sovrana, colpito dagli strali avvelenati degli intellettuali di corte (“un nouveau sujet de peine pour Descartes”, specifica Lacombe) invidiosi della sfacciata predilezione che la regina dimostrava di avere per lui ma, soprattutto intollerante al freddo e indispettito dalla rigidità delle temperature svedesi, Cartesio fu fisicamente indebolito da un’infiammazione polmonare accompagnata da febbri violente il cui esito furono la morte in soli tre giorni. Si sospettò anche di un avvelenamento, ma come arguì con chiarezza di sintesi Lacombe: “il vero veleno che gli diede la morte fu il cambiamento di vita, di clima e il dispiacere”. E io, ça va sans dire, ne sono persuaso.
Vincenzo Liguori