
Scopriamo Hegel: per essere un grande filosofo non è necessaria una vita spericolata
Filosofia
Luca Bistolfi
Al principio fu un quiproquo bibliografico. Dietro lo specchio di Étienne de La Boétie, geniale giurista al Parlamento di Bordeaux e paladino della riconciliazione religiosa presso Caterina de’ Medici, autore del perfetto Discorso sulla servitù volontaria, alcuni hanno creduto di scorgere Montaigne, l’uomo che ci ha insegnato a non essere servi che del libero vagare e indagare del nostro pensiero. Fu Montaigne, infatti, nel 1572, a pubblicare le opere di La Boétie, morto troppo giovane, a 33 anni, essendo «erede della sua biblioteca e delle sue carte». In quel «libretto che ho fatto pubblicare», Montaigne aveva raccolto le traduzioni da Senofonte e da Plutarco e i versi latini dell’amico, celando il fatidico trattato scritto «nella sua prima giovinezza, in onore della libertà, contro i tiranni», riconosciuto «fine e succoso quant’è possibile». Il quale circolava in forma di primordiale samizdat, con il titolo di Le Contre Un, incollato a un fascio di altri testi sfacciatamente antimonarchici, redatti da mano sediziosa. Il pavido Montaigne si era forse forgiato uno spavaldo pseudonimo?
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Il fatto è che il libello, prima di tutto, è il sigillo di una amicizia, «così perfetta e completa che certo non si legge ne sia esistita un’altra simile», tale da giustificare la compenetrazione tra l’uno e l’altro, il mio e il tuo, la glaciale ragionevolezza di Montaigne incarnata nella gracile ferocia di La Boétie. Perciò, in qualche modo, La Boétie è davvero l’emanazione di Montaigne, come gli Essais di Montaigne sono un modo, immane e magnifico, di dimenticare – o riscattare – la morte dell’amico, che gli spirò tra le braccia, «e sono tanto più legato a quest’opera in quanto servì di tramite al nostro primo conoscerci». Ecco perciò perché Montaigne la celava, allora: l’amicizia si santifica nel pudore. Che gli agitati esaltassero il trattato di quell’uomo che «per ciò che riguarda i doni naturali, non conosco nessuno che possa stargli a confronto», istigando rivoluzioni, doveva apparire odioso, un insulto alla sapienza, a Montaigne, per cui la scrittura non evoca «né il tuo vantaggio né la mia gloria».
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Aveva ragione lui, comunque: il Discorso di La Boétie, che di volta in volta riappare nella storia, sventolato dai rivoluzionari di ogni colore, dai regicidi, dai ghigliottinatori, non è una variante su un tema tipico (il tirannicidio è già tematizzato da Aristotele, Platone, Seneca, San Tommaso d’Aquino), la cui espressione più estrema si trova nel quasi contemporaneo De rege et regis institutione del gesuita Juan de Mariana. Nella sua opera, redatta, secondo Montaigne, «nella prima giovinezza», La Boétie affoga in domande capitali (perché l’uomo preferisce obbedire più che sapere? Perché sente la necessità di un padrone? Perché migliaia, milioni di uomini si fanno schiavizzare al posto di ribellarsi, subendo l’impero di un solo uomo, che potrebbero detronizzare da un momento all’altro?), trovando la soluzione. Un tiranno riesce a dominare solo tessendo una rete intricata di relazioni, che ne implica altre e ne complica altre ancora. In questo labirinto di nepotismo, di favoritismo e di doni eccezionali, tutti gli uomini legati al tiranno preferiscono cedere la propria libertà in cambio del favore, del potere.
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Delazione e rapporti privilegiati: questa è la matrice della mafia, come di ogni totalitarismo. Così La Boétie squalifica l’opera di quelli che inneggiando al suo Discorso uccidevano un re forgiandone un altro, abbattevano un governo terribile fondando un terrore più grande, indorandosi le labbra con la parola “giustizia”. La vera libertà è la rinuncia ad ogni potere, il ritirarsi nel cuneo del pensiero. Che denuda tutte le false, astute libertà elargiteci da un governo per meglio dominarci. (d.b.)
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Questi miserabili vedendo luccicare i tesori del tiranno rimangono abbagliati dalla sua magnificenza e attratti da questo splendore si avvicinano, senza accorgersi che si stanno buttando in una fiamma che non mancherà di divorarli, allo stesso modo di quel satiro curioso che secondo un’antica favola vedendo brillare il fuoco trovato da Prometeo ne fu talmente impressionato che si accostò per baciarlo e si bruciò. O come la farfalla, di cui ci parla il poeta toscano, che credendo di trarre chissà quale piacere si avvicina troppo alla fiamma, attratta dal suo chiarore, e ne prova invece l’altra qualità, quella del bruciore. Ma anche supponendo che questi adulatori riescano a sfuggire alle mani del loro padrone, in ogni caso non si salvano mai dal re che viene dopo: se è un buon sovrano devono rendergli conto di tutto e comportarsi secondo ragione; se invece è malvagio come il precedente avrà anch’egli i suoi favoriti che solitamente non si accontentano di prendere a loro volta il posto degli altri ma vogliono anche ottenerne i beni e in molti casi la vita stessa. Com’è dunque possibile che ci sia qualcuno che in mezzo a tanti rischi e con ben poche garanzie voglia prendere questo sciagurato posto e servire un padrone così pericoloso? Che tormento, che martirio è mai questo, buon Dio? Essere occupato giorno e notte a compiacere uno e tuttavia avere più timore di lui che non di qualsiasi altro uomo, stare sempre all’erta con l’occhio e l’orecchio tesi a spiare da dove verrà l’attacco, a scoprire gli agguati, leggere nel cuore dei compagni, denunciare chi sta per tradire, sorridere a tutti e fidarsi di nessuno, non avere né nemici dichiarati né amici sinceri, col sorriso sulle labbra e il gelo nel cuore, non riuscire ad essere lieto e non poter mostrarsi scontento. Ma è ancor più interessante considerare quel che ricavano da questo grande tormento e quale bene possano aspettarsi da tutti questi loro affanni e dalla loro vita miserabile.
Solitamente il popolo non accusa il tiranno per il male che gli tocca sopportare bensì coloro che sono messi a governare. Di costoro i popoli, le nazioni, tutti gli abitanti senza alcuna eccezione, dai contadini agli artigiani, sanno i nomi, contano i vizi e su di loro riversano un’infinità di oltraggi, villanie e maledizioni: tutti i discorsi e le imprecazioni della gente sono contro di loro, ritenuti colpevoli di ogni sventura, della peste come della carestia; e se qualche volta per salvare le apparenze questo stesso popolo li onora, dentro di sé li maledice dal profondo del cuore e li ha in orrore più che le bestie feroci. Ecco la gloria e l’onore che ricevono per i servizi che compiono verso la gente, la quale anche se potesse ridurre il loro corpo a brandelli probabilmente sarebbe ancora insoddisfatta e ben poco alleggerita delle proprie sofferenze. E anche quando sono scomparsi dalla faccia della terra moltissimi scrittori negli anni seguenti non mancano certo di denigrare la memoria di questi mangiapopoli; la loro fama viene completamente distrutta in migliaia di libri e le loro stesse ossa vengono per così dire trascinate e disperse dai posteri come punizione per la loro vita malvagia, anche dopo morte. Impariamo dunque finalmente a comportarci bene; ad onore nostro o per l’amore che portiamo alla virtù, o meglio ancora per l’amore e l’onore di Dio onnipotente che è testimone sicuro delle nostre azioni e giudice delle nostre mancanze, teniamo lo sguardo rivolto al cielo.
Per parte mia penso, e non credo di sbagliarmi, che non ci sia niente di più contrario a Dio, infinita bontà e libertà, della tirannia e che Egli riservi laggiù delle pene particolari per tutti i tiranni e i loro complici.
Étienne de La Boétie
Traduzione di Luigi Geninazzi