Il “caso Bontempelli”: una vigliaccata all’italiana
Politica culturale
In principio, benché sia la fine, è un corpo – il corpo del reato, il corpo del reo. Il corpo martoriato di Pasolini ricorda che ogni corpo è un reato, che ogni corpo è martire e mattatore. Ogni corpo è contundente: ci sfiora, ci ferisce. Il corpo esiste per quello, per colpire. Quando è inerme – cadavere – quel corpo rimette a noi la sua responsabilità: ne siamo colpevoli, pur colpiti.
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L’esposizione a cui è sottoposto Pasolini ha fatto sì che il suo corpo sia stato sottratto, non c’è più. Al suo posto c’è una immagine, a volte una voce – la sua opera, il corpus, invece, è stata soppiantata dall’interpretazione. Si è colpevoli, anche, della sparizione di un corpo. Pasolini non esiste – esiste una griffe, che può graffiare qualsiasi cosa, come Nike, Adidas, Armani. Pur inseguendo il sacrilegio, forse, PPP non supponeva questo attentato, è diventato sarcofago – l’hanno reso inoffensivo, arma priva di proiettile, argomento da museo. Anche la sua nudità – il corpo esposto – non è finestra sull’osceno, né sul candore che precede ogni atto: è teca, tocco d’arte, estro d’intelletto, applausi di Stato.
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Tutto questo – che è quasi nulla rispetto alla potenza del resto – è stato scritto, previsto, pre-detto, con concreta dedizione da Gianni Scalia, in un libro, La mania della verità: dialogo con Pier Paolo Pasolini, edito da Cappelli nel 1978, che ritorna per Portatori d’acqua, straordinaria avventura editoriale con sede a Pesaro, insieme a un notevole numero di altri materiali. Tra questi, c’è un commento a Salò o le 120 giornate di Sodoma, “il più bel film di Pasolini – un film comunque terribile”, in cui scrive, Scalia, tra l’altro: “Questo film, nella descrizione del sì più totale, cioè dell’adattamento alla realtà orribile senza residui, è allo stesso tempo l’estremo no all’adattamento. Può darsi che questa sia la virtù dei poeti. La virtù dei poeti, che nel momento in cui accettano la realtà e questa non si può mutare, la mutano proprio in quanto dicono che è immutabile”. E continua: “Potrete dirmi: questa è la virtù dei poeti, ma noi che non lo siamo? Intanto ascoltiamo la voce dei poeti piuttosto che la chiacchiera, le divagazioni inutili, le parole illeggibili, le frasi incomprensibili, questa specie di rumore di fondo e di bavardage uniforme che ci circonda e ci invade”. Il poeta non va capito – ho in sospetto la facile comprensione, immediata, che fa scattare il sorriso, l’ironia velenosa, compiaciuta, ciò che ‘avrei potuto dire io’ – va ascoltato. La poesia è nel punto d’ombra, dove luccica la selce, nell’assalto.
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Pasolini nella lettera a Scalia, il 3 ottobre 1975: “Sono nel vuoto – in un vuoto quasi accademico o da ospedale psichiatrico – e qualcosa che mi giunga dall’esterno è un messaggio consolante e festoso. Dunque esisto!”.
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Eppure, il corpo finale ritorna quello dell’esordio, il cadavere retrocede al me donzel, “io vivo di pietà/ lontano fanciullo peccatore// in un riso sconsolato”. Torna donzel, Pasolini, vagando nel luogo dove “la luce acceca” – la lus a imbarlumìs, è scritto, che parlare magnifico s’agglutina in bocca, tra barlume e barbaro, l’imbarbarimento della luce.
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Gianni Scalia, l’immenso intellettuale, la mente di “In forma di parole”, isola, rifugio, incubatrice di genio per noi poveri piccoli cercatori dell’insolito, si domanda continuamente sul modo, la forma, la formula di ‘tradurre’ Pasolini. “Pasolini cercava di tradurre, e chiedeva di essere tradotto. Noi, anche oggi, stiamo ‘traducendo’ Pasolini? Stiamo aiutando, sia pure postumamente, Pasolini a essere tradotto?”. Da apolide m’è venuta in memoria L’Orestiade di Eschilo tradotta da Pasolini per Gassman, nel 1960. “Ho cominciato a tradurre… del tutto impreparato… con entusiasmo… con la brutalità dell’istinto”, scrive Pasolini. Credo che ci sia qualcosa di notevole, di nativo, di appena sorto nelle parole impreparato, entusiasmo, brutalità, istinto. La brutalità di una nascita – far nascere quel testo in altra lingua. Nell’impreparazione – cioè: nell’essere inadatti – è l’entusiasmo, brutale. Pasolini traduce Eschilo così: “E dal cuore reso finalmente umile/ dalla necessità, si fece strada/ l’impura, disperata idea:/ non lo trattenne più niente./ Perché, sorgente di ogni male,/ è la funesta follia degli atti infami/ che dà forza agli uomini./ Uccise sua figlia con le sue mani”. Che bellezza questo Eschilo che diventa Pasolini – e che Pasolini immaginava in Africa. Bisogna uccidere il figlio che è dentro di sé – o nutrirlo con il proprio sé, fino alla denutrizione – per tradurre in uomo il nostro stare. (d.b.)
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“La storia di Pasolini è soprattutto la storia di una persecuzione (che ha condotto all’esecuzione), in forme implicite o esplicite, materiali o ideologiche, da parte di quasi-tutti: classe dirigente e stampa; magistratura e organizzazioni politiche (anche ‘di sinistra’); intellighentzia politica o letteraria; ‘moralità’ sociale e istituzionale – per non parlare della stupidità e mostruosità fascista. Negli ultimi anni Pasolini aveva cominciato un processo al Palazzo, al Potere, sempre meno confidando nella ‘opposizione istituita’; e, indirettamente, ha preparato l’odio del Palazzo, del Potere. L’esecuzione, atrocemente puntuale, è avvenuta”.
“Pasolini non era scandaloso, non promuoveva lo scandalo. È possibile, ancora, fare scandalo in questa società, possessiva e permissiva, repressiva e funzionale, egoista e ‘socializzata’? Pasolini non era scandaloso. Pasolini, ecco, si scandalizzava. È una reazione sempre meno frequente, non praticata, impensata. Sfruttamento, oppressione, corruzione, violenza, dolore, male ci fanno sempre meno scandalizzati. Pasolini voleva, prima di spiegare, comprendere fino in fondo. Conoscere e non solo avere coscienza, dei rapporti corrotti, disumani, artificiali tra gli uomini. Era ‘cristiano’? i più di noi, credo, a volte, sono scandalosi, scandalistici, non scandalizzati. In scandalo c’è un etimo di sopportazione e di insopportabilità che conosciamo sempre meno. Skandalon è ostacolo, pietra d’inciampo, rottura nel ‘progresso’ della servitù, dell’oppressione, del male: è, anche, ferita, patimento, intollerabilità: entrare negli interstizi, nei ‘buchi’, nelle dissidenze… Lo scandalizzato è un impotente, la cui sofferenza è possibilità; un tollerante, che non tollera, non sopporta e non si sopporta; si nega convivendo, si estrania abitando insieme. Pasolini, sappiamo, a volte abbassava gli occhi per non vedere gli occhi, le facce; arrossiva del pudore o della vergogna altrui, che lo giudicavano; solitario nella divorante solidarietà, cercava i rapporti, che temeva o sperava, evitava e desiderava”.
“Pasolini è stato crudele. Ci ha ricordato la realtà del mondo in cui abitiamo, abituati. Che l’avanzare può essere un declinare. Ci ha ricordato, con altrettanta crudeltà, il ‘sogno di una cosa’; in una disperata vitalità, la crudeltà del ‘diritto di sognare’. Questa crudeltà, è la sua dolcezza. I poeti (certi poeti) sono crudeli. La loro crudeltà è, forse, la memoria perduta, o dispersa, o lacunosa della dolcezza da raggiungere a costo di lungo strazio: dolcezza crudele, poiché non ci dà nessuna purificazione, eppure ricorda, attraverso il sacrificio della sua consolazione, che potrà esserci una purezza, che al di là della poesia c’è, può esserci, qualcosa che non può essere poesia. La crudeltà finale di Pasolini è nel non farsi solo giudicare, comprendere, ammirare o amare: ma nel non farci dimenticare di quella crudeltà. (E di adoperarla, finché e se, ancora, ci resta)”.
“Pasolini è diventato di consumo. Si è detto: che è una vittima della società (o del suo ‘mondo’), che era destinato, pre-destinato, che si era preparato alla morte, come in una ‘sua’ sceneggiatura (funebre, macabra sceneggiatura che soddisfa la società dello spettacolo); che è stato vittima del suo ‘corpo’, della sua ‘immaturità’. (Si dimentica che alla fine aveva abiurato dall’‘innocenza’, presunta, del corpo). Lo si indizia come un caso, lo si evoca come tema di dibattiti e convegni, fantasma benigno o maligno. Lo si eserciterà, presumo, come pensum. È presumibile che se ne faccia un film: come già si preparano fumetti, album di fotografie, calendari di ‘vizi’ (ormai ammessi), libri di edificazione programmata, chiacchiere di scandalo (lecito), vite romanzate; e saggi-verità, bibliografie e filmografie, filologia universitaria… Si è ripetuto troppe volte che Pasolini lascia ‘un vuoto’ nella cultura (nella società) italiana. Ma Pasolini viveva e scriveva in un vuoto: lui stesso in quel ‘vuoto pieno di buchi’ (come sapeva Artaud) che è la vita nella società del capitale, l’atroce, mostruosa ‘religione della vita quotidiana’”.
I frammenti sono tratti da: Gianni Scalia, “La mania della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini”, a cura di Pasquale Alferj, Riccardo Corsi, Simone Massa, Portatori d’acqua, 2020