“Sono donna, voglio vedervi”. Breve storia di Annie Vivanti, una Circe ottocentesca
Letterature
Fabrizia Sabbatini
Aurelio Picca è una forza del passato. Un grande patriarca della letteratura che regge il peso di una cultura millenaria e popolare, ctonia e rituale in cui si alternano candore e crudeltà, innocenza e ferocia. Il suo mondo è fatto di miracoli quotidiani, di vitalità, di tenerezza, di personaggi che vivono la vita in tutta la sua cruda e dura potenza, tra le facce di carnevale degli uomini delle botteghe del mondo di ieri e lo sguardo estremo degli abitanti degli arsenali umani della periferia romana. Un dialogo tra vita e morte, antico ed eterno, che accompagna tutte le opere di Picca, tra cui il suo ultimo Contro Pinocchio (Einaudi, 2022). Pamphlet, romanzo, saggio, Contro Pinocchio è un viaggio letterario tra i grandi libri dell’infanzia dello scrittore veliterno che attraverso testi come Pinocchio, Cuore e I ragazzi della via Paal, traccia un pellegrinaggio interiore nell’innocenza, una immersione letteraria in un mondo sacro, vivo e perduto in cui la realtà e il numinoso contaminavano l’esistenza degli uomini non ancora frantumati dalla tecnica e dalla globalizzazione. Troppo spesso confuso e frainteso per un testo sul burattino più amato dai lettori, di cui se ne parla in realtà pochissimo, l’opera può essere letta come uno straordinario invito all’abisso, al segreto, al mistero, alla riscoperta di una patria visione che più che una espressione retorica può essere letta come la poesia del numinoso. Un testo feroce e dolcissimo, tra autobiografia e critica letteraria che non vuole essere originale, ma sa essere originario in un’epoca in cui tutto sembra evanescente. Per meglio comprendere i turbamenti e le idee all’origine di questo testo abbiamo intervistato Aurelio Picca.
Aurelio Picca, come nasce Contro Pinocchio e qual è la storia di questo pamphlet da poco pubblicato per Einaudi?
Ho scelto di tirare in ballo Pinocchio per creare una provocazione. Pinocchio è un pretesto per mettere in campo tanti motivi, temi, ricordi che la realtà postumana e virtuale hanno completamente bruciato ed eliminato. Per parlare di questi temi sono partito dai libri dell’infanzia (Cuore e I ragazzi della via Paal), tra cui anche Pinocchio, che ho attaccato nelle prime pagine del mio libro. Però in realtà in quelle pagine attacco la “prima” stesura del testo di Collodi, quella che finisce con Pinocchio impiccato (e non l’ultima stesura collodiana), la quale diventa l’occasione, o il pretesto se vogliamo, per raccontare l’Italia e i suoi tanti luoghi, la Toscana soprattutto, e nello specifico le tante Toscane che si nascondono in essa. La Versilia, Firenze, il livornese, il grossetano, mondi tra loro diversissimi che compongono il volto di questa terra. Perché ci sono tante Toscane quella solare e marina, quella oscura ed animista, quella funerea ed etrusca. Pinocchio nasce in quella Toscana etrusca, funerea, animista in questi luoghi oscuri e che diventano il pretesto per parlare della scuola, dell’infanzia, dell’omologazione. Per dire, insomma, che oggi nessuna maestra più sa distinguere un legno di rovere da un acero, o un castagno da un abete, nessun ragazzo viene portato più a bottega da un artigiano o da un falegname. Che non ci sono più genitori che comprano un asse, chiodi e martello per realizzare croci e spade di legno per fare giocare i propri figli. Ho quindi utilizzato questa prima stesura di Pinocchio, pretestualmente per raccontare questa assenza, per parlare di un mondo che non c’è più, geografico e storico, e dei suoi luoghi. Un mondo che si saldava con dei racconti autobiografici, di una infanzia la terza (perché io ho avuto realmente tre infanzie), che è quella più devastata, dove questo personaggio, un ragazzino che chiamo col mio stesso nome, “Aurelietto”, entra in gioco.
Il suo libro ha suscitato pareri contrastanti, anche frettolosi, sulla scelta di questo titolo Contro Pinocchio. Che cosa non è stato compreso del suo pamphlet?
Il mio libro più che frainteso molto spesso non è stato nemmeno letto. Ciò che è uscito si è fermato in gran parte al titolo, alle Avventure di Pinocchio, senza nemmeno rendersi conto che io parlavo, solo nella prima parte del libro per giunta, della stesura originale che nulla aveva a che fare con la versione definitiva, soprattutto perché il mio riferimento ad essa era solo un pretesto per parlare di altro. Vedi, io ho scritto un romanzo travestito da saggio e un saggio travestito da romanzo. Invece è stato inteso come una critica a Pinocchio di cui non mi interessava parlare. Si sono sentiti autorizzati a parlare di Pinocchio, che tutti sanno chi è, e non del mio libro.
L’opera divisa in tre parti nel secondo libro prende in esame il libro Cuore. Cosa c’è di così straordinario in questo testo di De Amicis da renderlo uno dei tre pilastri di queste “infanzie devastate”?
Cuore è importante nel mio testo perché è il romanzo della patria giovane, della ricostruzione, della realtà che viene portata nell’aula scolastica da quei maestri del Risorgimento. È il racconto di una Italia da poco unita che è ancora una patria giovane. Si sentono le voci e i fermenti delle classi sociali che in quelle aule sono spinte da un anelito che le proietta, tutte, verso il futuro. Dove il figlio del carbonaio si porta l’odore del carbone e della cenere, il figlio dello scrivano le macchie e le imbrattature dell’inchiostro, quello del falegname le schegge del legno e l’odore della bottega. Tutte queste classi sociali hanno un futuro e in esso i loro figli sono compagni. In Cuore le classi non sono virtualmente abolite, come oggi, ma sono riconoscibili e coese tra loro, unite nelle prospettiva di costruire una patria giovane. C’è la vita e la realtà che entrano nell’aula. C’è la figura di un maestro ancora pieno di dignità, autorevolezza e morale non ancora disfatto dal gioco delle tre maestre che c’è oggi e dai cavilli di una burocrazia che ne soffoca le potenzialità e il contatto con gli studenti. La realtà e non la virtualità sono la cifra di questa scuola. Leggendolo e rileggendolo ho scoperto poi che i testi del mese che il maestro legge alla sua scolaresca sono tra i racconti d’appendice e popolari più intensi e belli dell’Ottocento anche aldilà del libro Cuore. Per ipotesi, anche se li avessimo staccati dal testo di De Amicis sarebbero stati da soli un libro a parte, tra i più straordinari dell’ottocento italiano.
La scuola, come la letteratura del resto, sta abolendo la realtà proiettandosi verso una visione del mondo disneyana e virtuale, perdendo quella connessione con la vita tipica invece di Cuore?
In realtà è tutto un grande equivoco. Tragico, vita, realtà, società? Non sappiamo più cosa significhino questi termini. Siamo immersi nell’ambiguità, vittime dello sfaldamento di ogni significato. Non esiste più la realtà ma esistono però ancora molte realtà. Sicuramente quella virtuale, ma anche quella della profonda miseria che infesta il mondo, e che non è solo in Africa, ma anche in Europa. Il problema vero però è che viviamo come se avessimo perduto la forza propulsiva del passato, un obiettivo comune da raggiungere insieme, un destino da percorrere. Non abbiamo più un obiettivo o un destino da perseguire, abbiamo solo dei desideri. Si è persa la forza di riconoscerci in una costruzione, di credere in una costruzione collettiva, mentre tutto si è fatto fungibile ed effimero. Non siamo più una civiltà al tramonto, siamo oltre il crepuscolo, tutto quello che accade al sapore più del subumano o del postumano, che dell’umano. Tutto è labile, irriconoscibile, mascherato, non sappiamo più dire chi siamo e dove siamo diretti. Forse il buon Pirandello saprebbe aiutarci…
Possiamo trovare nel suo testo quindi una critica all’omologazione e all’alienazione portata dalla globalizzazione che ha perduto le Sapienze del mondo antico?
Certo che si. La globalizzazione ha dato una falsa idea di progresso, che ha confuso con lo sviluppo tecnico e con l’uniformità, che ha schiacciato il mondo del passato. Recidendo il legame col mondo popolare, abbandonato come una zavorra, in cui i nomi delle cose, le virtù popolari trovavano un significato. Tagliando per sempre il legame con la memoria e con il passato. I mobili delle nostre case, ad esempio, saranno di legni anonimi, costruiti nei grandi stabilimenti delle industrie e non ci saranno più botteghe e artigiani a intagliarli. La globalizzazione vuole uniformare; non vuole farci costruire e realizzare, individualmente o familiarmente, ma dividere. Più siamo separati, soli e divisi più essa ha potere. Parliamo di privacy nelle registrazioni dei call center ma abbiamo perduto il privato per sempre. Cosa mangiamo, dove andiamo, con chi parliamo dove c’è la privacy? Siamo esposti, tracciati, ogni cosa è pubblica, eterea. Non ci sono più luoghi in cui nasconderci.
Nemmeno nei borghi o nella provincia, tra gli Appennini e le bellezze nascoste del paese?
Nulla è più nascosto, tutto è così esplicito. Mi fanno ridere quelle folle pletoriche di gente che vanno a riscoprire i famosi borghi. Dovunque c’è un commercio di merci, c’è uno scambio della libertà. I borghi sono diventati delle cartoline, dei souvenir del consumismo. Nessun luogo è più nascosto o segreto, tutto è pubblico. Anche dei luoghi appartati della mia infanzia ora sono grandi fast food, stracolmi di B&B e ristoranti, che vengono immortalati da foto, da selfie, da istantanee, che però perdono ogni rapporto col piacere di vivere un momento. Nessuno più vuole vivere un istante o un luogo o una esperienza per goderla veramente, per tenerla per sé, ma solo per condividerla nel villaggio comunicativo in cui siamo immersi. Anche la vita interiore è diventata una vita pubblica assoggettata alla tecnica e alla comunicazione.
Anche il sacro è ostaggio della tecnica e del villaggio comunicativo?
Questo non lo so. So però che all’Europa cristiana non frega più un cazzo di Cristo. Per far ricrescere il sacro dovrebbe essere questo un tempo di “martiri”, di testimoni. Ma il clero non so se potrà reggere questo confronto. La chiesa, soprattutto, dovrebbe tornare a essere fragile, dovrebbe rinchiudersi, scacciare tutti coloro che non sono rigorosamente legati a Cristo, anche rischiando di estinguersi. Un rischio che correrebbe lo stesso senza ritornare alle sue radici, rimanendo una istituzione tra le istituzioni, uno stato tra gli stati, una ideologia tra le ideologie. Ha perso totalmente il senso del sacro. Io già inorridivo quando, anni fa, si facevano le pubblicità sui grandi capolavori del passato, figuriamoci oggi… Assistiamo al trionfo della pubblicità. Babbo Natale ha vinto sul presepe, chi ha più una idea del Cristo? Sembra, per il nostro tempo, solo un vecchio retaggio che va rimosso il prima possibile perché troppo ingombrante.
Cosa intende per “martire”?
Dei nuovi “santi”, degli esempi. Una nuova Teresa d’Avila, un nuovo Francesco d’Assisi. Delle figure che dovrebbero dare un esempio di una assoluta e totale inappartenenza al mondo, che abbandonano tutto per relegarsi sulla croce e morire sulla croce. Di questo avrebbe bisogno l’Occidente, forse… Ma ormai esso con la sua capacità di appiattire ed omologare ogni cosa, non si accorgerebbe nemmeno di questo sacrificio. Non passerebbe neanche la notizia di queste persone che portano la croce in una delle nostre città. Poteva essere scandaloso nell’Assisi del medioevo, oggi ne farebbero una burla. Gli darebbero del pazzo, lo metterebbero alla berlina. Anche questa via sarebbe difficile da percorrere.
Tutto il libro può essere inteso come un costante dialogo tra la vita e la morte. Che rapporto ha Aurelio Picca (e la sua opera soprattutto) con la morte?
La morte è fondamentale. È una esperienza che la nostra società rimuove continuamente. A nessun bambino i genitori fanno più vedere un defunto. Si è smarrito il culto dei morti su cui sono nate le grandi civiltà del passato, non solo occidentali. La parola morte si vorrebbe rimuovere, dimenticare, ma invece essa rimane attaccata alla vita indissolubilmente. Bisognerebbe fare ogni giorno una preghiera alla morte. Invece la si vuole cancellare perché la nostra società ha i suoi miti, la giovinezza, l’ambizione, il successo, tutto ciò che è performante, come se ognuno di noi volesse vivere sempre come una Ferrari, ma ciò è impossibile. Quando si dice che si è allungata la vita è solo una menzogna che ci diciamo. Si è allungata la vita però nella sofferenza, nella sopravvivenza.
Si sente una forza del passato, un antico patriarca delle lettere?
Mi considero un patriarca senza figli. Non perché non ne ho mai voluti, ma perché quando li volevo io l’altra parte non li voleva e viceversa, forse non c’era tempo. Più che vecchio, mi definisco antico. Vorrei conservare e difendere un sapere millenario, ma so che non posso reggerlo solo io sulle mie spalle e non voglio spezzarlo o ridurlo in nome della virtualità. Però non vorrei essere frainteso, non sono legato al passato perché privo di incertezze, di dubbi, di dolore, ma perché era dotato di una umanità superiore. Io poi ho questo privilegio che ho ricordi fin dai primi mesi della mia infanzia. Quello era un mondo antico di cui ho ricordi nitidi. Ho visto un’Italia segreta e nascosta, autentica, non quella falsa Italia segreta delle brochure.
Che tipo d’Italia era?
Era un’Italia sacra. Sembrava uscita da un miracolo, da una visione. Adesso nessuno parla più del concetto di visione, non appare più perché è una forza di una energia e di una potenza che vale una vita intera.
Per tornare al tema della visione, il terzo capitolo di Contro Pinocchio si intitola “La patria visione”, può spiegarsi meglio? E cosa è la patria per Aurelio Picca?
Una volta gli schieramenti politici utilizzavano la parola patria, che ereditavano dal romanticismo, come un grande progetto di costruzione, al contrario delle nazioni che invece sono soltanto un pezzo di terra il cui significato e confine è cambiato nel tempo. La patria è una grande visione. Tutti oggi usano la parola patria, ma non sanno cosa significhi. Molti nel nostro paese intendono con la parola “patria” l’Italia, ad esempio. Ma l’Italia non è più da tempo una “visione”. Per questo il richiamo continuo alla patria mi sembra uno sventolio retorico, che molto ha sdoganato in questi anni il presidente Ciampi con il culto del tricolore e l’inno di Mameli. La patria invece è altro. È il luogo in cui siamo nati, il grembo che ci ha partorito, dove noi riconosciamo la nostra cultura, i nostri fratelli, i dettagli e i simboli più puri di un mondo. Ora non so se l’Italia ha più questo significato, anche se spesso ci ho sperato. La patria visione è quella per cui ne I ragazzi della via Paal si sacrifica il soldato semplice Ernesto Nemecsek che per quel pezzetto di terra conteso dalle camicie rosse dell’orto botanico e l’esercito di via Paal, ha offerto la sua vita. È la visione di un dovere, di un sacrificio assoluto, di una vocazione ad offrire la propria vita per quel luogo che diventa anche la propria tomba e quindi la propria memoria. Come del resto ci insegna Foscolo nei Sepolcri
Quanto questi autori ottocenteschi e risorgimentali, come Foscolo, hanno formato la tua sensibilità?
Sono cresciuto in una famiglia mazziniana e pacciardiana in cui la cultura dei doveri è sempre stata superiore a quella dei diritti, in cui il sacrificio per la costruzione di un interesse generale era superiore alla logica della dispersione. Amavo molto Foscolo sin da ragazzo, perché come me era un ragazzo senza padre che è dovuto diventare padre di se stesso. Ho molto attinto da quello stile spezzato, autobiografico, che univa indissolubilmente vita e morte e per questo sono molto legato a lui. Foscolo era un uomo che a vent’anni, mentre scriveva l’Ortis, aveva già visto e conosciuto tutto. Anche io a vent’anni avevo già fatto e visto tutto. Potevo anche morire a vent’anni. Sembra un paradosso, ma dopo i vent’anni la mia vita è stata una esperienza, ma nella sua essenza avevo a quell’età già fatto e visto tutto.
Che ragazzo era il giovane “Aurelietto” Picca?
Era innocente. Era uno di quei ragazzi baciati dal privilegio della grazia, che non a tutti è concesso e che è molto superiore al talento. Mia madre, ricordo, mi diceva, “cammina attaccato al muro” ed io camminavo talmente vicino al muro da strapparmi il cappotto. Ero un bambino attento, generoso sempre pronto a darmi, poi gli anni… Una cosa che mi è rimasta col tempo, senza mai corrompermi, è che ho sempre avuto una grande dose di ingenuità, che forse è il lascito che mi è rimasto di quel bambino innocente che ero. Ero un buono, ma non nella maniera retorica e sentimentale intendiamoci. Buono in una maniera vitale, libera, innocente. Oggi invece i bambini perdono molto presto la loro innocenza.
Lei dedica il suo libro ai “ragazzi future”. Quali dovrebbero essere i consigli per risvegliare dal mondo anonimo del presente questi destinatari?
Cercare luoghi segreti, soprattutto quelli interiori e da essi trarre la propria visione del mondo. Andare alla ricerca di visioni. Essere avidi di ciò che nessuno indica e insegna. Bisogna diffidare di ciò che è offerto, insegnato, regalato. Tutto quello che ha valore non lo è mai, è sempre nascosto. Perdersi non organizzarsi, smarrirsi nei luoghi non organizzare un itinerario. Ci sono ancora luoghi segreti da cui può scaturire una visione, un mondo nuovo. Da giovane ad esempio andavo in giro in preda ad una deriva psicogeografica e mi ritrovai per caso a Tuscania, tra le sue splendide chiese. Fu una visione, di questo si ha bisogno veramente.
Ha scritto e diretto un documentario su Willy Monteiro, che esperienza è stata?
Un’esperienza faticosa, io lo avevo progettato inizialmente come un film che poi è diventato un documentario. È un viaggio nella provincia per scoprire chi era Willy Monteiro, quel ragazzo ucciso in una sera qualunque a Colleferro, che si trovava nel luogo sbagliato al momento sbagliato, come si dice orribilmente adesso. Un ragazzo che si è trovato di fronte una tempesta di pugni e calci e che è stato spazzato via senza motivo, da innocente. La cosa assurda è che i nomi e i destini delle vittime e dei carnefici si trovano uniti nell’assurdo del massacro. Una coincidenza maligna che lega massacrati e massacratori in una atmosfera assurda, quasi come di fronte ad un miracolo nero. Un miracolo sacrilego ed oscuro.
L’intervista è a cura di Francesco Subiaco