01 Ottobre 2018

Fare surf tra i paradossi: sull’arte narrativa dei monaci taoisti

In un disegno di epoca Ming, il maestro taoista, con baffetti e veste lunga fino ai piedi, è sdraiato, appoggiato al braccio; la costellazione dell’Orsa Maggiore – che in Cina si chiama il Moggio – copre il maestro, come un velo. Chi conosce il Tao, riposa sulla terra e ha per suddito il cielo, si pone come punto di sintesi tra cielo e terra. Non nutrendo ambizioni su questa terra, che è il luogo di ciò che è fugace, il maestro sogna – e nel calco dei suoi sogni dispone la propria vita transitoria, terrena.

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TaoChe cos’è il Tao? Fondato da Lao Tzu in un poema di 81 ‘stanze’ di grande fascino, il Tao Te Ching, del taoismo si ignorano gli esordi, leggendari – Lao Tzu è vissuto forse nel VI, forse nel IV, forse nel III secolo prima di Cristo, forse non è altro che un mito – e frequentarlo è come scalare una parete rocciosa ricoperta da una coltre di ghiaccio. Il taoismo, consolidatosi nello Zhuangzi, opera “ai vertici della letteratura mondiale, non solo della filosofia cinese in cui gioca un ruolo determinante” (Leonardo Vittorio Arena) e nel Liezi, “uno dei testi fondamentali per lo studio del pensiero della Cina antica, ma anche, insieme al Tao Te Ching e al Zhuangzi una delle tre scritture in cui la tradizione taoista continua a vedere sintetizzati i propri principi dottrinali e le loro relative applicazioni” (Alfredo Cadonna), è un tour nel paradosso e nell’indicibile. Il Tao, infatti, “è un qualcosa che non può essere definito, in quanto la dottrina va insegnata ‘senza parole’”, introduce a “rinunciare a qualsiasi tipo di ambizione, sia in campo politico-sociale sia in campo culturale”, comporta “la necessità di appartarsi dalla società, di contestare il sistema, di praticare il non fare” e “si raggiunge col completo distacco dal mondo fenomenico, con la rinuncia assoluta e lo con lo stato estatico” (così la sintesi di Lionello Lanciotti). Il Tao nasce nella negazione – così i primi versi, perentori, del Tao Te Ching: “Tao chiamato Tao non è Tao/ i nomi non possono nominare alcun nome durevole” – e lì si evolve, in un ribaltamento completo, continuo di tutti i valori mondani e di tutte le evidenze.

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Un esempio? Il concetto di ‘utilità’. Secondo la visione banalmente occidentale è importante ciò che è ‘utile’, il taoismo ci insegna “la qualità dell’inutile”. Cosa significa? Il taoismo, che ha un pensiero poetico ma nient’affatto astratto, resta una filosofia naturale, dell’esperienza, con i piedi per terra. Se un albero è ‘utile’ viene tagliato per fabbricare case, navi, carri. Un albero ‘utile’ viene ucciso. L’albero che ha il legno ‘inutile’ alla costruzione, vive millenni. Se una creatura è ‘inutile’ viene ignorata, perciò è salva dal massacro della Storia.

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Essere abili nel fare qualcosa per trarne profitto è un errore; l’abilità deve essere fine a se stessa, praticata sui flutti del caso. L’ingenuità, la vaga innocenza, l’assenza di scaltrezza, tutto ciò che agli occhi degli ‘uomini di mondo’ certifica uno stato di idiozia, per il taoista è il massimo della virtù. “I [t]aoisti ironizzano sulla presunzione di coloro che pensano di poter catturare la realtà in un sistema intellettuale. Sono altresì convinti che cercare di imporre una norma di comportamento agli individui e alla società, sforzarsi di migliorare le cose, è fare il primo passo nella direzione sbagliata ed è la sorgente ultima del disordine” (Augusto Shantena Sabbadini). Rinunciare alle cariche e agli onori, abitare la non azione (wu wei), cioè adattarsi al fluire di tutte le cose, obbedendo alla natura delle cose e non ai propri desideri personali, contemplare il mondo sapendo che la realtà sensibile non è la realtà vera, l’ultima, è la disciplina del taoismo.

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Orientativamente, tra il IV e il I secolo prima di Cristo il taoismo, narrato nei tre grandi libri del canone (Tao Te Ching, Zhuangzi, Liezi), trova la sua forma ed è il più squisito frutto culturale della Cina antica. Dialogando con il taoismo, il Buddhismo Mahayana, portato in Cina da Bodhidharma nel V secolo dopo Cristo, diventa Chán e poi Zen, nella versione giapponese. Del taoismo originario (in Zhuangzi e Liezi) è propria l’arte narrativa, il gusto per lo sketch paradossale (che diventa koan nello Zen, il gesto linguistico che porta al ‘risveglio’), per la battuta schietta in grado di sgretolare le menzogne della ragion comune, per l’aforisma esoterico, in cui il discepolo deve inabissarsi tentando l’illuminazione. Nel taoismo – come nel buddhismo zen – non ci sono nozioni da imparare, non si esige un progresso culturale, si attende, attraverso i testi, allo shock capace di modificare per sempre il nostro sguardo sulle cose. Il taoismo ci insegna a camminare a testa in giù e a mettere casa tra le nuvole.

Giovanni Zimisce

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Si pubblicano, per gentile concessione, alcuni racconti dal libro “Storie e leggende taoiste” (Theoria 2018, pp.92, euro 10,00), a cura di Giovanni Zimisce.

La deformità è un bene

A Song crescono cipressi e gelsi ottimi per il legname. Con alcuni alberi si fabbricano pertiche, con altri travi molto rinomate, con altre ancora si fanno le bare dei nobili e dei mercanti. Tutti questi alberi non giungono alla fine della loro esistenza: vengono uccisi dalle asce quando sono giovani. Questo è il problema di chi ha delle qualità. Le vacche dalla fronte bianca, i maiali deformi, gli uomini con le emorroidi non erano utili ai sacrifici. Gli uomini deformi non sono di buon auspicio: questo è quello che dicono gli astrologi. Proprio per questo sono di ottimo auspicio per l’uomo spirituale.

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I consigli di Uomo Senza Nome

Tian Gen camminava su una roccia assolata. Quando arrivò al fiume incontrò l’Uomo Senza Nome.

“Come si governa l’impero nel modo migliore?”, chiese.

“Che domanda stupida!”, disse Uomo Senza Nome. “Vivo come un uomo, a fianco del Creatore. Quando mi prende la noia, cavalco un falco e vado fino al paese del nulla, nei domini incontaminati. Perché mi scocci con queste domande?”.

Tian Gen ripetè la domanda.

“Deponi il cuore nella solitudine, poni il respiro nell’indifferente, abolisci ogni desiderio e vivi nella spontaneità. Così, l’impero sarà ben governato”.

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La parabola della bellezza

Yangzi era in viaggio e fece tappa in un piccolo albergo. Il padrone dell’albergo aveva due concubine, una bella e l’altra brutta. La brutta era esaltata a discapito della bella, oltraggiata. Yangzi si domandò il perché. Un dipendente dell’albergo gli rispose: “La bella si pensa bella e io non vedo la sua bellezza; la brutta sa di essere brutta e io non vedo la sua bruttezza”. Yangzi disse: “Ricordate, discepoli. Agite da uomini saggi senza considerare sagge le vostre azioni, così verrete amati”.

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Cosa me ne faccio dell’impero?

Shun voleva abdicare in favore di Shan Juan. “Io sono il centro dell’universo, sono il padrone dello spazio e del tempo. D’inverno indosso le pellicce, d’estate abiti di lino. In primavera lavoro la terra per rafforzare il mio corpo. In autunno raccolgo, così posso nutrirmi e riposare durante l’inverno. Quando il sole sale, mi reco al lavoro; quando cala mi fermo. Sono un uomo libero, tra Cielo e Terra, e il mio cuore sa cosa desidera e non vuole altro. Cosa me ne faccio dell’impero? Mi rattrista che tu non mi conosca”.

Shan Juan non accettò, si spogliò dei rari averi e percorse la via delle montagne. Nessuno l’ha più trovato.

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